di Gaia Serena Ferrara
Arte, avventura e mistero. Il genio di Michelangelo Merisi, detto Caravaggio, rivive in un’ampia ed eterogenea esposizione al Complesso Monumentale del San Giovanni di Catanzaro.
Pochi giorni dopo la conclusione della mostra “Capolavori svelati”, il Capoluogo torna ad ospitare la prima tappa calabrese di un evento che promette una grande risonanza nazionale e internazionale.
Nella giornata di ieri, infatti, ha aperto i battenti “Caravaggio. Non c’è energia senza colore”, una sorta di viaggio all’interno della vita e della produzione di quello che è considerato il grande maestro delle luci e delle ombre per eccellenza, attraverso lo sguardo e la reinterpretazione del pittore laziale Guido Venanzoni. Ad averlo mosso in prima istanza, la scoperta del luogo dell’ultimo approdo di Caravaggio in Italia a Palo Laziale. “Sapere che il Caravaggio era approdato a pochi passi da casa mia, mi ha spinto a nutrire l’idea di realizzare questo omaggio complesso”.
Dalle sue fughe, alle sue catture, dalla sua prigionia alla morte: attraverso un intero ciclo di circa 30 opere (più 12 riproduzioni di alcuni dipinti del Caravaggio) l’artista Venanzoni racconta e descrive i tratti salienti della vita rocambolesca di un personaggio che ha rivoluzionato l’arte del Seicento.
“Si tratta di una mostra che – come spiega il presidente dell’associazione Eos Sud Andrea Perrotta – aveva già avuto come sedi Palazzo Chigi di Ariccia e Castel Sant’Angelo a Roma, ma che abbiamo oggi voluto arricchire anche di un racconto digitale attraverso delle proiezioni immersive che ci hanno permesso di mostrare per la prima volta dopo 72 anni il dipinto che descrive ‘La presa di Cristo’ attualmente in esposizione ad Ariccia”.
E’ infatti attraverso la scomposizione digitale grazie alla tecnica del digital story telling che sarà possibile per il pubblico ammirare uno dei dipinti maggiormente rappresentativi ed esplicativi dell’estetica del Caravaggio. Una delle opere più significative alla quale è stata anche dedicata una lectio magistralis da parte del Direttore di Palazzo Chigi di Ariccia, il professore Francesco Petrucci.
Una mostra ad ampio respiro, divulgativa, con un taglio anche didattico, che permette di cogliere alcuni aspetti delle opere che magari risultano anche poco note ai più ma soprattutto che permette ai fruitori di immergersi in un’atmosfera particolare creata ad hoc dal maestro Venanzoni.
“Un artigiano di bottega dei nostri tempi – come spiega l’assessore Monteverde – che ci dà il segno di una contemporaneità che va avanti all’avanguardia, riprendendo l’idea dell’importanza del tratto tecnico e facendolo attraverso la rappresentazione della storia di un genio come è stato Caravaggio”.
La peculiarità della mostra, tuttavia, non si esaurisce nella sola celebrazione delle fasi principali della vita del maestro. La vera anima dell’esposizione è rappresentata da quel “processo” di evoluzione contenutistica che porta al recupero della più intima esteticità e della tecnica classica dell’arte antica di cui è portatore Caravaggio.
Allo stesso tempo, però, come spiega lo stesso curatore Petrucci “il segno di Venanzoni è un segno contemporaneo che utilizza una tecnica tradizionale”.
In sostanza, l’artista celebra e recupera l’estetica di Caravaggio a modo proprio: attraverso una reinterpretazione ottocentesca. “Venanzoni – spiega Petrucci – come Caravaggio realizza delle istantanee ma mentre queste ultime sono dedicate a soggetti prettamente religiosi, Venanzoni ribalta questo aspetto e presta la tecnica classica al racconto di una vita drammatica, movimentata”.
È proprio sul concetto delle istantanee, definite “radiografie”, che si concentra poi la lectio magistralis del professor Petrucci che si è concentrata sull’approfondimento dell’opera “La presa di Cristo” che sembrerebbe maggiormente rappresentativa ed esplicativa del metodo di procedere, tecnico e stilistico, tipico del Caravaggio.
Un’opera sulla cui paternità e proprietà si sono sollevate molte polemiche poiché nel corso del tempo, a partire dalla prima comparsa nel 1602, di questo dipinto si arrivano a produrre e conoscere fino a 15 copie.
“Sicuramente abbiamo a che fare con l’opera a destinazione privata più complessa e articolata dell’intera produzione dell’artista” spiega Petrucci, affermando che non è un caso che sullo studio e l’analisi di questa opera si siano concentrate tutte le energie degli esperti.
Moltissime sono state, infatti, le revisioni e le indagini diagnostiche prima che il quadro fosse nuovamente esposto al pubblico per la prima volta dopo anni.
L’elemento di maggior interesse, emerso all’indomani dell’accurato restauro conservativo, deriva proprio da questa cosiddetta “riflettografia” che permette di comprendere come, in base a una serie di pentimenti, il maestro fosse spinto a modificare soggetti in seconda battuta, o eliminandoli addirittura dal disegno che componeva l’ossatura originale. Una sorta di work in progress, dunque, in cui l’artista modificava man mano il progetto.
Ma l’appartenenza di questa opera alla produzione esclusiva di Caravaggio viene testimoniata, secondo Petrucci, anche (se non soprattutto) dall’uso (e dai diversi utilizzi visibili dalle molteplici copie esistenti) dei colori.
“Oltre all’innegabile drammaticità della scena, per cui il Caravaggio ci fa entrare nel momento zero in cui avviene l’accadimento (attraverso dei procedimenti che sono molto vicini a quelli del cinema e della fotografia), è l’impiego e la resa del colore a rivelarci di più”. Continua Petrucci.
Caravaggio fa, infatti, entrare l’osservatore in uno spazio metafisico astratto, descritto da questo sfondo nero, in assenza di una dimensione o contesto reale circostante. Tutta la drammaticità della scena all’interno della quale lo spettatore si immerge è data proprio dall’utilizzo “depotenziato” dei colori e dalla presenza di queste figure protagoniste di un momento che esula da un tempo e da uno spazio preciso.
“E’ grazie a questo diverso utilizzo del colore nelle copie successive che è possibile riconoscere il tratto caratteristico della pittura del Caravaggio, che smorzava tutti i colori accesi per far spiccare prettamente il pallore del viso di Cristo che oramai nella rappresentazione dell’opera sa di essere prossimo alla morte”. Ha commentato Petrucci.
Tirando le somme, in sostanza, l’obiettivo primario del Venanzoni è stato quello di raccontare la contemporaneità riprendendo pur sempre una tecnica tradizionale compiendo però un’operazione il cui scopo è “fotografare” la vita di Caravaggio.
Una vita che è essa stessa un’opera d’arte, condotta all’insegna della passione impetuosa e dell’irrequietezza.
L’alto e il basso si coniugano infatti nell’esistenza del pittore: tante notti in carcere e altrettante nelle ricche dimore di nobili e cardinali; capolavori intrisi di religiosità e tormento e risse all’osteria. Un’apparente dicotomia, fra luci e ombre, che da sempre affascina scrittori e sceneggiatori. Numerosi sono difatti i film dedicati al suo personaggio, l’ultimo (in ordine temporale) quello firmato dalla regia di Michele Placido girato a Palazzo Chigi di Ariccia.
Nell’arco temporale della mostra che sarà visitabile dal 19 novembre al 14 gennaio, comunque, sarà possibile approfittare ed assistere ad una serie di altri momenti di approfondimento