“Chi rinuncia alla libertà per raggiungere la sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza” - Benjamin Franklin
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Almeno tu nel multiverso

di Mariagrazia Costantino* – In questo periodo mi capita spesso di pensare a una canzone cantata da Mia Martini e scritta da Bruno Lauzi. La evoco e ne ripeto le parole come se fosse una preghiera laica. O una formula magica contro l’oscurità che ci minaccia: l’irrazionalità che ci insegue e sembra sempre sul punto di inghiottirci, come il Nulla de La Storia Infinita.

È buffo parlare di magia a proposito di Mia Martini, perché fu proprio una stupida diceria sul suo presunto “portare sfortuna” – buttata lì tanto per farsi due risate – a comprometterne la carriera e la vita stessa. Fino al ritorno in grande stile, con classe e dignità inarrivabili. Troppo intelligente e talentuosa la cantante calabrese cresciuta nelle Marche. Tanto da far rabbia ai mediocri. Forse troppo onesta o semplicemente, come tutti, una barchetta in balìa delle onde.

Cosa dice la sua canzone e perché mi viene in mente proprio oggi?

«Sai, la gente è strana

Prima si odia e poi si ama

Cambia idea improvvisamente

Prima la verità, poi mentirà lui

Senza serietà, come fosse niente

Sai, la gente è matta

Forse è troppo insoddisfatta

Lei segue il mondo ciecamente

E quando la moda cambia

Lei pure cambia

Continuamente, scioccamente…» e poi il maestoso refrain (“Tu, tu che sei diverso…”).

C’è qualcosa di spaventoso e al tempo stesso rassicurante nell’idea che tutto cambi di continuo e che niente duri per sempre. Così, amore e odio vanno e vengono sulla scia di un capriccio. Nel frattempo carriere vengono distrutte, vite rovinate.

Ma cosa c’entrano la canzone e queste riflessioni apparentemente estemporanee con la giornata odierna? A me sembra che la superficialità che ha rovinato Mia Martini e chissà quante altre persone sia la stessa con la quale oggi si abbracciano cause folli in modo del tutto sconclusionato. Tale è quella della “Palestina libera”, perorata con passione fasulla e senza nemmeno sapere cosa sia la Palestina, con il risultato di scatenare (o riattivare?) un’odiosa, inquietante “caccia all’ebreo”, come si è visto a Manchester pochi giorni fa – il più recente episodio di una lunga sequenza di attacchi agghiaccianti ai danni delle comunità ebraiche nel mondo. Caccia all’ebreo del tutto omologa alla caccia alle streghe, ovvero a tutto quello che non si conosce e non si capisce, ma che appare diverso e minaccioso, e che come tale va eliminato.

Nel giorno dell’anniversario del pogrom più grave dopo l’Olocausto mi preme spiegare perché, secondo me, la questione ci riguarda da vicino, e chiarire un paio di cose sui meccanismi dell’ideologia e della propaganda, che in luoghi e tempi diversi sono state e continuano tuttora a essere la forma del pensiero.

Camminando per la strada colgo frasi sgangherate espresse sguaiatamente da adolescenti e anziani – stranamente (o forse no) le categorie più sensibili alla “questione.” Dicono “sono gli ebbrei che fanno il genociddio.” Non sanno niente: non sanno chi siano gli ebrei e cosa sia il vero genocidio. Però sanno in modo istintivo, (dis)educati da quanto sentono in giro – in Italia si pensa soprattutto per “sentito dire”, come diceva il sempre compianto Gaber –, che quando si tirano in ballo Israele e gli israeliani è di ebrei che in realtà si parla. Ignorando il fatto che in Israele convivono pacificamente etnie e religioni, compresa quella musulmana; non capendo che non è Israele ad ammazzare gli “arabi”, che considera suoi fratelli, ma che sono piuttosto i terroristi di Hamas e gli altri gruppi della Jihad islamica a troncare giovanissime vite nei modi più brutali, e a rovinare quelle dei loro stessi figli, che plagiano e mandano a morire in nome di una causa proficua. Soprattutto da un punto di vista economico.

Perché gli “ebbrei”, o gli israeliani, danno tanto fastidio anche in Calabria? C’è sicuramente l’“effetto Mia Martini” (le dicerie, l’oscurantismo, lo squallido complottismo), ma c’è qualcos’altro. Forse il fastidio di sapere che Israele non ha pietà con i terroristi. Che non lascia scampo a chi desidera la morte di persone innocenti per odio o per calcolo, come non ha lasciato scampo ai  gerarchi nazisti scappati come topi e agli attentatori di Monaco ’72. Questa caratteristica e la spietatezza giusta che si ispira probabilmente al Dio di Abramo, Dio di Isacco, e Dio di Giacobbe, non possono che dare fastidio in una società disfunzionale che vive di compromesso e condona di continuo i violenti. Spesso addirittura premiandoli.

A questo proposito, è caduto a fagiolo l’annuncio dell’inpsolente Tridico riguardo volontà di riconoscere la Palestina qualora fosse stato eletto presidente della Regione: è evidente come la Calabria aspiri a diventare la Palestina d’Italia e d’Europa, in virtù dello status cronico di vittima (soprattutto di sé stessa), della tendenza ad aspettare e aspettarsi aiuti dall’alto, della disinvoltura con cui tanti rivendicano la libertà di delinquere.

Molti di voi avranno ascoltato le lezioni di mafia del procuratore Nicola Gratteri. Se riuscissimo a mettere da parte le opinioni personali e le idiosincrasie dettate dall’ego sempre più ingombrante che ci portiamo dietro, forse riusciremmo a capire il senso e l’importanza del suo racconto. Prendiamo ad esempio la stagione dei rapimenti e degli ostaggi tenuti nascosti in Aspromonte, che lui racconta con candore e onestà, spiegando come si sia trattato di una violenza protratta nel tempo, uno stupro ai danni di una popolazione inerme e stupefatta. Viene da chiedersi come mai i calabresi, nella fattispecie i reggini, non si siano ribellati come hanno fatto invece i palermitani all’indomani delle stragi di Capaci e di Via D’Amelia. Gratteri dice che, invece di combattere e resistere, molti sono scappati lasciando il campo libero alle nuove generazioni di malavitosi, ripulite e presentabili, le quali hanno usato una parte del bottino ricavato dai riscatti per rifarsi il look e fare il salto di qualità, occupando – all’apparenza in modo non violento e tramite la rete di conoscenze/connivenze – le istituzioni locali e i posti più ambiti. E da quelli iniziando scalate nazionali e a volte internazionali.

Il vero motivo Gratteri però non lo dice: non per omertà, ma per non offendere i reggini onesti rimasti qui. Il motivo è che mentre tanti venivano rapiti e le loro famiglie piombavano nella disperazione di un incubo a occhi aperti, un numero ancora maggiore di persone traeva vantaggio da quei rapimenti. Vantaggi economici e di altro tipo, sempre comunque materiali, perché è quella la dimensione in cui opera la mafia, e in particolare la ‘Ndrangheta, che di tutte è la mafia più subdola e più capitalista. Proprio come Hamas lo è tra tutti i gruppi jihadisti.

Chissà dove sono finiti e chi/cosa hanno finanziato quei soldi estorti a gente per bene, dati spesso in cambio di corpi senza vita. “Follow the money” vale sempre e ovunque.

In virtù di cosa Hamas continua la sua oscena guerra? Anche stavolta per la presenza di ostaggi, ma in questo caso israeliani, vivi e morti, che finora ha detenuto con l’appoggio più o meno incondizionato della popolazione di Gaza e che si spera rilascerà nei prossimi giorni. Corpi una volta vitali che diventano merce, valuta. Oggetto di transazione e arma di ricatto. Come un film dell’orrore (la realtà è sempre più orribile) in cui i vivi usano i morti, letterali o metaforici, e viceversa.

Così, in modo forse un po’ spericolato, penso che l’ostaggio sia l’anello di congiunzione tra il parassita e l’organismo che invade. È quella presenza – a quanto pare scomoda, vista la facilità con la quale viene dimenticata – che segnala un passaggio: l’uccisione della società civile; la morte della solidarietà.

Gli ostaggi e le loro famiglie sono stati lasciati soli: allora come adesso il mondo si è dimenticato di loro o semplicemente si copre occhi, bocca e orecchie come le tre scimmiette. C’è addirittura chi in un impeto di furia barbarica ha strappato le loro foto, perfino quelle dei due fratellini Bibas, evidentemente infastidito dal monito che esse rappresentano. Monito a guardarsi dentro e cercare lì il male, per poi rintracciarlo anche fuori.

Reggio Calabria e Gaza sono entità collegate in modi non evidenti ma non per questo meno reali. La questione palestinese e l’odio cieco per gli ebrei che molti non riconoscono in sé stessi (tantomeno negli altri) e che sembrava spento per sempre, ha la stessa radice dell’odio per chi, in questa città come in altri luoghi, non è “conforme” e non si omologa al racconto dominante. Che varia di volta in volta ma è sempre quello più facile, più conveniente, più a portata di mano.

Aderire a quel racconto, o se preferite narrazione, equivale a firmare un patto col diavolo e rinnovarlo ogni giorno: lo hanno fatto italiani e tedeschi quando hanno dato retta ai deliri di Mussolini e Hitler; lo fanno quelli che quotidianamente accettano pressioni e lusinghe della mafia, mettendosi nelle sue mani e diventando sempre più simili lei; lo fanno tutti quelli che inneggiano (gratis o a pagamento) alla “Palestina libera”, ripetendo slogan sinistri come “dal fiume al mare” e non rendendosi conto che quello che guadagnano nel breve termine – un p’ di illusorio senso di appartenenza a una grande tribù – lo perderanno nel lungo termine e con interessi salatissimi.

Perderanno (e noi per colpa loro) la vera sicurezza e la libertà. Per causa loro e in nome di un’ipocrita tolleranza che è solo resa davanti al più forte, anche chi resiste alla barbarie perderà i progressi che la civiltà ha compiuto a caro prezzo e con il sacrificio di chi si è immolato veramente per la libertà, propria e degli altri. A differenza di quei quattro barricaderi in vacanza da una vita della Flotilla Brancaleone.

Il rancore di massa per chi non accetta di essere vittima passiva o semplicemente per chi, per motivi non chiari, viene arbitrariamente scelto come capro espiatorio, era solo sopito sotto le ceneri dell’Olocausto e dei vari attentati – compreso quello del 1982 fuori dalla Sinagoga di Roma in cui morì il piccolo Stefano Gaj Taché – fin quando qualcuno non ha iniziato a soffiarvi di nuovo sopra. Lo stesso rancore è l’ombra che anima e guida molti di noi, come il parassita fa con l’animale che abita. Domare quell’ombra significa riconoscerla, guardarsi dentro e essere pronti ad affrontare verità sgradevoli su noi stessi e sugli altri. Vuol dire smetterla di illudersi che le cose possano essere in un certo modo solo perché lo vogliamo fortissimamente, e scendere finalmente a patti con la realtà. Compresa quella certamente assai sgradevole che milioni, forse miliardi di persone nel mondo vorrebbero vedere la fine dell’Occidente e degli occidentali, cioè noi (sì perché anche la Calabria è in Occidente, per quanto possa sembrare incredibile).

Vuol dire crescere una volta per tutte. Perché un popolo bambino non potrà mai difendersi. E avrà sempre paura di chi fa la voce grossa.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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