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Oltre 30 anni dopo, giustizia per Filippo Piccione: “Ucciso da innocente”

Nel febbraio del 1993, durante le festività di Carnevale a Vibo Valentia, il geologo e imprenditore Filippo Piccione venne ucciso in un agguato orchestrato dai membri del clan Lo Bianco. La recente sentenza della Corte d’Assise di Catanzaro, che ha inflitto l’ergastolo a Salvatore Lo Bianco e 28 anni di reclusione a Rosario Lo Bianco, ha confermato che l’omicidio fu un atto di vendetta basato su un errore.

La Corte, presieduta da Massimo Forciniti (con Giovanni Strangis a latere) ha quindi dato giustizia all’imprenditore, a distanza di oltre trent’anni dai fatti.

La vicenda risale al 1992, quando Leoluca Lo Bianco fu ucciso ei clan ritennero, erroneamente, che Piccione fosse responsabile di quell’omicidio. Piccione era un innocente, vittima di una vendetta mafiosa orchestrata dai cugini Salvatore e Rosario Lo Bianco, membri del clan omonimo. La Corte d’Assise di Catanzaro, nella sentenza depositata l’11 luglio 2024, ha stabilito che Salvatore Lo Bianco, esecutore materiale, è stato condannato all’ergastolo, mentre Rosario Lo Bianco ha ricevuto una condanna a 28 anni di reclusione per aver svolto il ruolo di vedetta durante l’omicidio.

L’uccisione di Piccione si inserisce nel contesto della faida interna alla ‘ndrangheta, seguita all’omicidio di Leoluca Lo Bianco, avvenuto il 1º febbraio 1992. Il clan Lo Bianco credeva che Piccione fosse responsabile o comunque legato a quell’omicidio, poiché il delitto era stato eseguito nei pressi del fondo agricolo di proprietà della vittima.

In realtà, come hanno chiarito le indagini e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, Filippo Piccione non aveva alcun ruolo nella morte di Leoluca Lo Bianco. Tuttavia, le continue denunciano che Piccione aveva presentato per atti vandalici contro le sue proprietà furono interpretate come un’offesa diretta dai membri della ‘ndrangheta, alimentando un rancore che portò alla sua tragica morte.

Le testimonianze dei collaboratori di giustizia, tra cui Bartolomeo Arena e Andrea Mantella, sono state cruciali per la ricostruzione dei fatti. Salvatore Lo Bianco è stato identificato come l’esecutore materiale dell’omicidio, mentre Rosario fungeva da vedetta. Durante il processo è emerso come il clan avesse inizialmente considerato di colpire il guardiano della proprietà di Piccione, ma alla fine decisero di vendicarsi su di lui, pur sapendo che non era il responsabile diretto della morte di Leoluca Lo Bianco.

Le testimonianze dei collaboratori di giustizia hanno chiarito che la vendetta fu orchestrata da Carmelo Lo Bianco, soprannominato “Sicarro”, fratello di Leoluca. Carmelo decide di vendicarsi designando suo nipote Salvatore come esecutore materiale dell’omicidio e coinvolgendo nel piano persone di fiducia, tra cui Rosario Lo Bianco e Nicola Lo Bianco, figlio di Carmelo. Questi ultimi due membri del gruppo furono fondamentali per la riuscita dell’agguato, pianificato meticolosamente. I killer indossavano maschere di Carnevale per celare la loro identità, approfittando della confusione delle celebrazioni.

Scrivono i giudici: “Non v’è dubbio che ci sia coincidenza sul fatto che a sparare sia stato Salvatore Lo Bianco, poiché oltre a Grillo e Mantella, lo sostiene anche Arena, ma i primi due indicano ruoli e presenza sul posto di Grillo, di Rosario e Nicola Lo Bianco (Grillo, l’unico presente, addirittura fornisce un dichiarato più dettagliato), mentre Mantella parla solo di Nicola, che era sceso dalla macchina e si era posizionato nei pressi; il Grillo invece sostiene che era sceso dalla vettura anche Rosario Lo Bianco che aveva accompagnato Salvatore sino all’angolo della strada”.

Nel corso del processo, è emerso che il clan Lo Bianco, prima di prendere di mira Piccione, aveva considerato di colpire il guardiano della sua proprietà, Alfredo Calafati, sospettato di essere coinvolto nell’omicidio di Leoluca Lo Bianco. Tuttavia, questo piano fu abbandonato, e la vendetta si rivolse direttamente contro Piccione. Il geologo fu quindi ucciso non per un suo coinvolgimento diretto nel crimine, ma per la sua “responsabilità di posizione”, ossia il fatto di essere proprietario del terreno da cui erano partiti gli spari che avevano ucciso Leoluca Lo Bianco.

Per i giudici emerge “con evidente chiarezza che gli spari che uccisero Leoluca Lo Bianco provenivano dal fondo di Piccione, sito a Vibo, e come, lungi dal ritenere il geologo quale l’esecutore materiale, la sua sia “una responsabilità di posizione, cioè l’essere il titolare del fondo e colui che denunciava atti emulatori sulle sue proprietà, ultima delle quali il 21 gennaio 1992, quindi 1o giorni prima dell’omicidio Lo Bianco”.

Le motivazioni della sentenza, depositate dalla Corte d’Assise di Catanzaro, evidenziano come le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia siano state decisive per inchiodare i responsabilità. Andrea Mantella, un tempo boss di Vibo Valentia, ha fornito dettagli precisi sulla pianificazione dell’omicidio e sulle dinamiche interne del clan. “È coerente come la sua conoscenza dell’episodio sia di prima mano riguardo la partecipazione alla fase preliminare, addirittura destinatario della proposta di procedere all’azione omicidiaria che declinava” scrivono i giudici.

Anche Antonio Grillo, alias “Totò Mazzeo”, che partecipò all’azione come vedetta, ha confermato i ruoli svolti dai membri del gruppo di fuoco. “Allo stesso modo è assolutamente credibile che Salvatore Lo Bianco in un momento di intimità, sentendosi umanamente vicino all’Arena per la triste esperienza che li accomunava (uccisione in agguato di uno stretto congiunto) abbia confidato a chi poteva capirlo di essersi fatto giustizia da sé” si legge ancora in sentenza.

Le loro dichiarazioni, incrociate con le risultanze delle indagini, sono state considerate coerenti dalla Corte, che ha concluso che l’omicidio di Piccione è stato un tragico errore, frutto di una vendetta scatenata da un malinteso. I giudici scrivono infatti che le versioni raccolte hanno “evidenziato convergenti dichiarazioni testimoniali così come precisi riscontri sono giunti delle attività di indagine evidenziate nel corso dell’istruttoria”.

La versione di Filippo Piccione, sentito all’epoca, viene giudicata “coerente e trasparente” sulla sua assenza in contrada “Nasari”, a Vibo, la sera dell’omicidio. Il caso ha scosso profondamente la comunità di Vibo Valentia, poiché ha evidenziato come le dinamiche di vendetta all’interno dei clan mafiosi possano travolgere vittime innocenti, amplificando la paura e il dolore collettivo. Piccione fu quindi vittima di una “vendetta sbagliata”, come dichiarato dai giudici. La sua morte ha rappresentato l’epilogo tragico di una serie di tensione tra la ‘ndrangheta e un cittadino che si era battuto per difendere i propri diritti e la propria integrità​

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