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“Fuori sede in posto e fuori posto in sede”: l’associazione “NON” porta a Catanzaro 13 storie per raccontare la complessità dell’emigrazione calabrese

-di Gaia Serena Ferrara

La fuga dei giovani dalla Calabria.

È stato questo il tema portante dell’incontro organizzato ieri dall’associazione catanzarese “Non” che, fin dalla sua recente costituzione, ha inteso raccontare alcune delle più scottanti problematiche che riguardano il territorio come la piaga dello spopolamento e dell’impoverimento culturale. La formula risulta ancora una volta efficace nella sua informalità, incentrata sulla presenza di studenti e professionisti (fuori sede e rimpatriati) che portano le loro personali esperienze in un contesto colloquiale, quasi intimo, animato dalla compartecipazione dei cittadini del capoluogo.

Il senso di “NON ci siamo”

“Abbiamo voluto dare la possibilità a 13 speaker in particolare – sostiene Miriam Belpanno, fra le fautrici dell’iniziativa – e li abbiamo scelti tramite un sondaggio sui social dicendo alle persone di raccontarci le loro storie da fuori sede. Abbiamo così trovato delle storie belle e interessanti che ci hanno anche commosso. La mission che ci anima stasera è proprio quella di dare spazio ai giovani.”

“NON ci siamo” è infatti l’evento dei fuorisede, a testimoniare effettivamente l’innovatività dell’approccio scelto dall’associazione per affrontare il tema prescelto. Non sono personalità istituzionali o politiche a prendere la parola sul palco, bensì proprio alcuni di quei giovani calabresi che sono stati “costretti”, in un modo o nell’altro, a emigrare dalla loro terra.

“Non attori politico-istituzionali, ma i giovani, i famosi “giovani” di cui si parla sempre e di cui si sa veramente poco.” Spiega una delle organizzatrici Sarah Procopio.

Le storie che prendono forma nelle parole dei relatori vengono accomunate da un elemento fondamentale che è quello di provare a spiegare ed evidenziare la molteplicità di ragioni e di cause alla base dello spopolamento della Calabria, a partire dalla mancanza di opportunità lavorative ai deficit propriamente socioculturali e così via.

A tutta una serie di domande, alcune delle quali annose, i 13 speaker che si susseguono sul palco danno le loro risposte frutto delle loro personali esperienze di vita.

Una studentessa fuorisede: la mancanza di un’informazione adeguata

“Perché i nostri giovani scelgono di andare a studiare fuori le stesse facoltà che ci sono anche qui?”, è una studentessa di architettura originaria di Morano Calabro a spiegare la difficoltà in cui vengono a trovarsi tantissimi calabresi della sua età nel momento in cui ci si deve approcciare ad un percorso universitario. Un’indecisione, la sua, fra la facoltà di Architettura all’Unical o a Firenze, città che l’aveva affascinata fin dal primo momento: “La prima battuta d’arresto arriva con il test d’ingresso, che generalmente è unico fra tutte le università. Scoprii invece che quell’anno i test di ingresso non si sarebbero svolti come di consueto e che anzi sarei stata costretta a scegliere obbligatoriamente fra le due opzioni che mi ero tenuta, e nessuno mi aveva detto che avrei invece potuto avere anche la scelta di Reggio Calabria.”

“Alla fine – spiega Marika – ho scelto Firenze. La mia visione adesso è quella che se avessi conosciuto quello che in realtà offriva il territorio su più larga scala, mi sarei potuta orientare diversamente e decidere di restare qui, contribuendo alla crescita del territorio e non alla fuga.”

L’impossibilità di fare al Sud il proprio lavoro

Ma ci sono delle circostanze in cui la fuga sembra quanto mai necessaria se si vuole raggiungere un determinato obiettivo. È il caso della docente Claudia Greco che, oltre a portare all’attenzione del pubblico le complicazioni che le hanno impedito di insegnare al Sud, offre una sorta di retrospettiva sulle conseguenze, anche emotive e psicologiche, della precarietà. “Io lavoro a Milano ormai da diversi anni e faccio i conti con una realtà molto complicata: con un sistema scolastico che non funziona, con una precarietà che non ti permette di fare progetti a lungo termine per la tua vita. Mi sono chiesta “Vale davvero la pena tornare nella mia terra per provare a cambiare le cose?”.

La storia di Claudia è quella di una trentenne con un lavoro “normale” che diventa però impossibile al Sud: “Ho tentato di tornare in Calabria, al netto di proposte che sono finite in un nulla di fatto: essere docenti qui implica fare volontariato, perché lo stipendio non viene dato in quanto quelle ore per cui ti assumono servono a farti accumulare punteggio per le scuole paritarie senza sapere quando arriverai ad essere docente di ruolo.” In sostanza, per Claudia andarsene è stato l’unico modo per cercare di realizzarsi, al netto della grande rinuncia di non poter vivere nella sua terra.

I pregiudizi

A volte la mancanza di opportunità in Calabria è dovuta anche ad un retaggio culturale che impedisce la creazione di una rete pubblica che connetta fra loro individui con le medesime esigenze. Questo è quanto mai vero specialmente quando si parla di benessere psicologico, come spiega la crotonese Martina Gentile: “Ho 24 anni e sono psicologa, ho completato i miei studi fuori in Toscana in Veneto, ma ora sono iscritta all’ordine della Regione Calabria perché volevo tornare.”

“Quando sono tornata però non ho incontrato ostacoli, ho trovato il vuoto.” Racconta Martina “Nessuna struttura mi rispondeva, sono finita nel vuoto, nel silenzio. Eppure, se io mi guardo intorno nel privato la psicologia funziona in Calabria, la gente ha comunque bisogno di benessere psicologico. Allora perché pubblicamente no?”.

Martina affronta la questione partendo dal concetto di “autoefficacia”: “Si tratta della convinzione per cui, se le mie risorse e i miei sforzi mi permettono di ottenere un esito positivo, io mi impegnerò attivamente. Ma se davanti vedo un ostacolo insormontabile cambio strada. Questo è quanto successo a me.” Di fronte all’impossibilità di svolgere il suo lavoro nella sua terra, Martina è infatti tornata a vivere e lavorare a Padova dove, racconta “sono riuscita anche a fare rete in pieno covid e in un posto poco familiare”.

Quando andrai via ti sentirai “Fuori sede in posto e fuori posto in sede” e io vorrei cambiare questa narrazione e sentirmi al posto giusto nella mia terra, perché fuori si impara tantissimo e chi è andato fuori lo sa. Però ciascuno di noi ha il diritto di tornare nella propria terra, e al momento non ce l’abbiamo”.

Quando i luoghi comuni prevalgono sulle competenze

Una sensazione e un sentimento comune anche alla reggina Caterina Casile, impiegata nella pubblica amministrazione, che si è trovata costretta a emigrare al nord a causa della staticità dei concorsi e all’immobilità che ha riscontrato nella sua Regione: “Andando a Milano ho trovato due elementi che qui mi era impossibile trovare, ossia uguaglianza e accessibilità. Io ho cominciato da zero, ho studiato, ho passato il concorso. Qui è tutto fermo, cristallizzato”.

Un’immobilità e una mancanza di accessibilità che si applicano anche alla storia di Emanuele Canino, un 27 enne che lavora nel campo dell’IT e che porta l’esempio di tutte le mete estere che ha raggiunto pur di continuare a specializzarsi nella speranza di poter tornare nella sua terra e mettere a frutto e a servizio del suo territorio le competenze acquisite: “Il problema è che fuori se porto dei contenuti di valore vengo riconosciuto come competente, qui sono il calabrese fuori posto a Milano, mentre nella mia terra non sono nessuno se non sono figlio o nipote di qualcuno”.

Lo stesso mercato del lavoro quando si parla di IT risulta penalizzato in Calabria: “Facendo un sondaggio su linkedin ho fatto una differenza nelle offerte di lavoro fra Calabria e Campania” spiega Emanuele “nel campo dell’innovazione abbiamo 64 offerte in Calabria contro 349 posizioni in Campania, una bella differenza”.

La decisione di tornare: cause e risvolti

Accanto all’esperienza e alla narrazione dei fuori sede, viene presentato anche il rovescio della medaglia che riguarda tutti quei casi in cui i nostri conterranei hanno consapevolmente preso la decisione di tornare, non senza complicazioni e difficoltà di sorta. Com’è accaduto alla biologa Anna Passarelli che, innamorata della ricerca, ha cercato (tornando a Cosenza) di combinare la passione per il suo lavoro al bisogno interiore di recuperare il legame con la sua terra: “Mentre ero a Milano mi sono accorta cosa significasse vivere a 1000km di distanza dalla mia famiglia, mi stavo perdendo tutto. A casa succedevano cose ed io non c’ero”.

La nostalgia, in tal senso, è quel sentimento che accomuna tutti i calabresi che decidono di cercare opportunità di crescita fuori dal territorio ma che a un certo punto avvertono in modo molto netto il richiamo quasi lamentoso della loro Regione, dove hanno lasciato affetti, luoghi, abitudini, le radici.

Tuttavia, spiega Anna “E’ un problema quando rientrando nella tua terra, vieni percepito come un nemico da quelli che fanno il tuo stesso lavoro”. Ma sorge spontanea la domanda comune a tutti gli interlocutori che hanno preso la parola ieri: “Perché per poter lavorare in maniera decente o poter realizzare qualcosa nella mia vita devo per forza andarmene dalla mia terra?”.

Cosa puoi fare per il tuo territorio?

Sono le storie finali di Gaetano Muraca, di Adele Murace e di Giuseppe Rotella a restituire al pubblico una prospettiva e un’interpretazione differente del “ritorno”.

Le loro storie sono fulgidi esempi di come, al di là delle resistenze che si possono incontrare, la voglia di costruire e far crescere la propria terra e le comunità di cui si è parte possa fare la differenza. È appunto il caso di Gaetano che, una volta rientrato da Milano, ha ideato il “Festival del Lamento” a Soveria Mannelli, un paesino della Presila catanzarese. “Tornando – spiega Gaetano – ho scoperto di avere bisogno di cose di cui non sapevo di aver bisogno”. Fare rete, promuovere aggregazione, realizzare qualcosa che convinca altri a restare e non partire, generando non solo soluzioni ma compassione”. È anche il caso di Chiara Condò, che oggi è proprietaria dell’unica libreria presente a Tropea e che è riuscita a far crescere ed evolvere la propria comunità: “Oggi Tropea è una città che legge” spiega Chiara raccontando come abbia deciso di partire dai gruppi di lettura. “Da un solo gruppo siamo arrivati a 5, e da soli 4 partecipanti adolescenti siamo giunti a 40”.

Al contempo Chiara avverte: “Tornare non è semplice, e non è certo un obbligo morale. Bisogna fare una stima attenta, controllare, prevedere i problemi che troverete al vostro ritorno. Quando sono tornata io, 10 anni fa, non c’era nessuno a prepararmi al senso di solitudine che avrei trovato e che sono riuscita a dissolvere solo con grande impegno e dedizione”.

Un finale amaro

Il vuoto e il senso di isolamento e insoddisfazione in terra, la nostalgia e il sentirsi fuori posto in un altro luogo. Il bisogno ancestrale dell’essere umano di conoscere ed esplorare al di fuori dei propri confini, di contro al richiamo che la terra a cui siamo legati esercita su chi vorrebbe tornare ma ha paura di farlo.

Le difficoltà che si incontrano nel creare una rete e una vita fuori, accompagnate agli ostacoli che si ritrovano una volta che decidi di provare a fare qualcosa per contribuire allo sviluppo della tua comunità e del tuo territorio.

Sono questi i drammi generazionali della popolazione calabrese che ieri l’associazione NON ha inteso portare sul palco, trattando queste tematiche da un punto di vista prettamente umano e non scientifico, informale e non istituzionale. Perché ognuno può riconoscersi nelle storie degli altri e vedere riflessi i suoi stessi pensieri, le sue medesime preoccupazioni.

Come ha concluso la stessa Sarah Procopio al termine dell’incontro: “Oggi abbiamo giocato su due aspetti, sul fatto che ‘non ci siamo’ in quanto fuori sede ma al contempo non ci siamo come strategia. È evidente che stiamo sbagliando qualcosa. La maggior parte di quelli che sono qui oggi, fra qualche giorno tornerà a vivere fuori dalla Calabria. Sappiamo che si tratta di un problema secolare al quale, forse, non diamo le giuste risposte e in relazione al quale probabilmente stiamo formulando anche le domande sbagliate”.

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