di Maria Antonella Gozzi – Alla frase appena conclusa non aveva messo il punto. Ma non era stato per dimenticanza. Fra tutta la punteggiatura le piaceva tanto il punto e lo stava per scrivere di nuovo prima di andare a capo.
Non se ne dimenticò, dicemmo. Successe qualcosa che le impedì di farlo. Elisabetta fu interrotta da un suono. Si affacciò alla finestra che dava sul piccolo giardino, era un poco buio quel pomeriggio e non riuscì a vedere bene, ma le parve di sentire un canto.
Mancava pochissimo al Natale e non si era preoccupata ancora dei regali da comprare e, lì, all’improvviso si rese conto di quanto fosse difficile mettere il naso fuori dalla porta di casa. Era freddo, era grigio e non la vedeva mai nessuno mentre sorrideva camminando.
«Perché uscire?»
Si era sempre chiesta come mai la gente si imponesse di non vedere. Lei non poteva farne a meno, per esempio.
«E va bene così, non importa».
In cuor suo sperava di non dover uscire neanche in giardino quel pomeriggio perché la paura del freddo e del grigio poteva crescere ancora un poco e farle davvero male.
Però il canto si faceva più vicino e ancora più insistentemente bello:
“(…) Strisce e cascate di capelli d’angelo
e castelli fatti di gelato nell’aria
e canyon fatti di piume per ogni dove
Io vedevo in questo modo le nuvole”
«No, dai…non chiedermi dei soldi. Non è così che vorrei aiutarti»
“(…) Ma ora stanno solo oscurando il sole
fanno cadere pioggia e neve su tutti noi
Così tante cose vorrei aver fatto
ma le nuvole si sono messe sulla mia strada
Ormai ho guardato le nuvole da entrambi i lati
da sotto e da sopra e ancora in qualche altro modo
Sono le illusioni delle nuvole ciò che ricordo
In realtà non conosco affatto le nuvole
Lune di giugno e ruote panoramiche
il ritmo vorticoso e danzante che senti tuo
quando ogni fiaba diventa realtà
In questo modo vedevo l’amore
Ma ora è tutto un altro spettacolo
lì lasci ridere quando te ne vai
E se ti interessa, non farglielo sapere
Non (devi) dar via te stessa”
Elisabetta non aveva imparato ancora a camminare, quando avvertì l’urto di vivere per essere vista.
A ripensarci fu la prima violazione che si inflisse. E non parlava ancora.
Infatti cadde, così piccola. Il colpo fu reale, tanto duro che la raccolsero in braccio priva di sensi.
Ora voleva tornare in camera a scriverlo. «Così vediamo» – diceva – «vediamo se imparo a guardare avanti, invece che cercare lo sguardo di mamma per farmi dire: brava!»
Quel suono, là, in giardino…dietro la porta non finiva mai. Era stanca.
“(…) Ormai ho guardato l’amore da entrambi i lati
prendere lasciare e ancora in qualche altro modo
Sono le illusioni dell’amore ciò che ricordo
In realtà non conosco affatto l’amore
Lacrime e paure e sentirsi orgogliosi
Dire decisi “Ti amo” ad alta voce
Sogni e progetti e folle da circo
Ho guardato alla vita in quel modo”
Ora capiva che non era un canto tipico del Natale, ma non si preoccupava neanche di capire perché qualcuno cantasse dell’altro in quel periodo dell’anno.
«In fondo, chi si sarebbe mai aspettato di vedere qualcuno in giardino. Diciamo che la scelta del brano era la sola cosa meno strana che stava accadendo».
Pensò un attimo alla forma con cui prendeva vita quel dialogo sconosciuto. Ricordò che la gente è strana, ma che ancora di più lo era lei stessa, il modo in cui perdeva del tempo a chiedersi perché mai un personaggio indefinito cercasse di comunicare senza presentarsi…e addirittura cantando.
«Che ti canti? Parla!»
Ormai non c’era più tempo per finire il racconto di quella sera. Doveva mangiare, doveva dormire.
«Tanto non apro, non esco, non ti faccio entrare».
“Oh, ma ora i vecchi amici si comportano in modo strano
E scuotono la testa, dicono che sono cambiata
Beh, qualcosa è andato perso, ma qualcosa si è guadagnato nel vivere ogni giorno
Ormai ho guardato la vita da entrambi i lati
vincere o perdere e ancora in qualche altro modo
Sono le illusioni della vita ciò che ricordo
In realtà non conosco affatto la vita
Sono le illusioni della vita ciò che ricordo
In realtà non conosco la vita
In realtà non conosco affatto la vita”
«Entri tu o esco io? Se esco io prendo freddo ma, forse, se entri tu puoi riscaldarti”.
«Ti va di leggere o vuoi cantare? Mi insegni a cantare? Avrei voluto tanto imparare a cantare».
«Come dici? Vuoi solo guardarmi? Non vuoi che io prepari un thè, un caffè?»
«Ho capito, non parli. Mi “vedi” soltanto».
Grazie.
Joni Mitchell aveva da poco compiuto 25 anni quando ha scritto questa canzone, nei primi mesi del 1969, ma la sua sensibilità e le molte, diverse e non sempre felici esperienze nella California di quegli anni le hanno dato l’ispirazione per scrivere questa canzone, uno dei momenti più alti (e celebrati) della sua opera di musicista. Musicalmente intrigante nelle sue invenzioni melodiche e ritmiche in una cornice folk apparentemente semplice, ma soprattutto sorprendente per maturità e sintesi nel testo. Con la metafora delle nuvole Joni ci offre la sua disincantata ma realistica visione della difficoltà di trovare un senso e una formula, tra momenti felici e non, tra vittorie e sconfitte, per la nostra vita, per l’amore per e con gli altri. E soprattutto su cosa governa la nostra vita: il caso. Le nuvole sempre mutevoli lo rappresentano, e cercare di darne un senso o credere che le nostre azioni possano incidere più di tanto sul nostro percorso, è un’illusione.
