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La Terza Isola, il voto e la Cina

di Mariagrazia Costantino* – Nelle ultime settimane, Diego Bianchi, conduttore televisivo e giornalista noto per lo stile confidenziale dei suoi reportage, è tornato in Calabria per fare un bilancio pre-elettorale.

È già stato qui diverse volte, per seguire le vicissitudini di Riace, della sanità commissariata, delle periferie disastrate, della Locride, San Luca e i paesi lungo la Statale 106. Tutte le volte, la sensazione che ne trae chi guarda da fuori è che la Calabria sia un mondo a parte, la terra di un cupo carnevale perenne in cui valgono regole che dall’esterno appaiono assurde. Questo sì, un mondo al contrario.
Per citare il titolo di una mostra fotografica tenutasi alla Triennale di Milano nel 2015, la Calabria è la “Third Island” italiana, o forse la prima, per l’isolamento che si è autoimposta e che le è stato imposto.

Da dove deriva questo isolamento? Come fa notare Anna Sergi nel suo bel pezzo sul paese di fantasia (ma non troppo) di Mambrici, il divario – compreso quello criminoso e criminogeno – è una questione di gesti e pensieri quotidiani che si trasformano in abitudine, e di abitudini condivise che diventano mentalità. Un’impercettibile traslazione quotidiana. La devianza che diventa sopravvivenza, e viceversa.
Intendiamoci, la Calabria è pur sempre in Italia e di questa emanazione e riflesso, ma un riflesso distorto, che amplifica alcuni dettagli e rimpicciolisce altri, dando vita a un’immagine confusa e ingannevole che molti, troppi, prendono per buona. Forse perché è l’unica che riescono a vedere.

Infatti colpisce sempre, nel sentir parlare certi (tanti) calabresi, il senso di alterità che diventa facilmente alterigia; un latente complesso di inferiorità che si traduce in ostilità o sfiducia. Molti calabresi, e tra questi tantissimi reggini – Reggio è l’isola nell’isola – non si abituano alla vita fuori, troppo rigidi per adattarsi alle regole imposte da un mondo che percepiscono estraneo e nemico. Tempo fa sentivo un ragazzo parlare con un gruppo di coetanei di un’esperienza lavorativa all’estero: si lamentava di quanto fossero “strani” i suoi colleghi, del fatto che non capiva quello che gli dicevano, che doveva fare tutto da solo e che nessuno sembrava ben disposto nei suoi confronti; si diceva contento di essere tornato nel paesello dove tutti lo capiscono e parlano la sua lingua, tornato dalle gonnelle di mammà, probabilmente ancora più felice di lui… o forse no, se è una buona madre. Dietro la spavalderia avvertivo un’incrinatura, un’inclinazione a giustificarsi che sapeva di sconfitta. Avrei voluto dirgli che in realtà, semplicemente, non voleva mettersi in gioco e darsi la possibilità di crescere e migliorare, che aveva solo avuto paura; ma non avrebbe capito e si sarebbe offeso, perché avrebbe interpretato le mie parole come un insulto.
Difatti, un altro problema serio è la permalosità patologica, l’incapacità di guardarsi in modo critico o anche solo oggettivo. Il culto dell’“io” qui è inattaccabile dato che la comunità non esiste più. Indulgenza verso se stessi, mancanza di ambizione e pigrizia: leggo tutto questo in tanti giovani e meno giovani calabresi. E anche i segni di un trauma non riconosciuto e liquidato troppo in fretta, perché non appena il disagio psicologico si manifesta, si tramuta immediatamente in rancore, per paura di soccombere al senso d’ingiustizia. Quella di Reggio Calabria e provincia è una società violenta in modo latente, modellata sull’abuso e sul sopruso diluiti nel quotidiano, come l’arsenico che se ne assumi poco alla volta poi ne puoi prendere sempre di più, solo che alla fine diventi tu arsenico. Lo impara presto un bambino a scuola, quando si accorge che certi compagni prendono i suoi stessi voti, anche se studiano poco e capiscono ancora meno. Il motivo è talmente scontato che non serve esplicitarlo: basti solo notare che nell’economia complessiva di rapporti sociali utilitaristici, modellati sulle esigenze e sui valori di una criminalità ripulita e “presentabile”, donne e bambini non hanno un valore intrinseco, ma uno acquisito per contiguità e parentela. Allora la lezione terribile che troppi ragazzini imparano senza neanche accorgersene, è che impegnarsi per migliorare non serve a niente: è così che si gettano le basi di una società capovolta e si costruiscono le fondamenta del carnevale cronicizzato di un ambiente in cui sono i mediocri e i disonesti a primeggiare. Reggio Calabria è ormai un significante (un po’ come la cittadina di Derry in It), un toponimo che rimanda a una serie di significati molti dei quali non del tutto lusinghieri. E di questo i suoi abitanti sono insieme responsabili e vittime.

La Calabria è l’anomalia fatta territorio: bagnata dal mare su tre lati, eppure arroccata verso l’interno. Anche la nuova mitologia pubblicitaria creata per vendere il brand (inesistente) CALABRIA come territorio incontaminato, è in realtà una trovata propagandistica: perché di incontaminato qui c’è ben poco, poco nei mari, nelle foreste, nell’aria, nel cibo e nelle menti. Propaggine peninsulare che dovrebbe fungere da connettore tra Nord e Sud, ma che di fatto è il binario morto d’Europa. Da qui partono ogni giorno decine di giovani, ma sono pochi quelli disposti ad ammetterlo e ancora meno quelli che s’impegnano per trovare una soluzione. Forse ad alcuni fa persino comodo: vuol dire che ci saranno meno oppositori potenziali, perché chiunque non sta dalla tua parte, diventa automaticamente nemico.

Un fenomeno di cui si parla poco è la strana immigrazione di pensionati e famiglie provenienti da altre regioni. Si trasferiscono in Calabria in cerca di un costo della vita più basso (peccato che i prezzi al dettaglio siano tra i più alti d’Italia, per mancanza di concorrenza), ma soprattutto in fuga da contesti che li fanno sentire inadeguati: sono novax, nostalgici e negazionisti di qualsiasi genere, gente che disprezza le regole e si fa portavoce di un eccezionalismo ottuso e paracriminale. Complottisti di tutto il mondo unitevi e accorrete numerosi: la Calabria vi aspetta a braccia aperte. Si esportano talenti e si importa disagio (eppure, guardando l’America di Trump, viene da chiedersi se la Calabria non sia così indietro da essere, in realtà, già molto avanti).

La Calabria mi ricorda la Cina, un altro posto che conosco bene. Per prima cosa, come la Calabria, anche la Cina appare sempre più isolata dal resto del mondo, dopo un inizio di millennio che era parso assai promettente, con l’ingresso del Paese nel WTO e l’assegnazione dei XXIX Giochi Olimpici.

Oltre ad avere in comune la passione per il peperoncino, i due popoli sono contraddistinti da uno spiccato pragmatismo: l’ha detto anche Occhiuto a Bianchi, “come disse Mao Zedong [in realtà era Deng Xiaoping], non importa se il gatto è nero o bianco, l’importante è che prenda i topi.”

È possibile paragonare un territorio apparentemente marginale e insignificante alla nazione più grande del mondo? Certo che lo è, se il tipo di potere su cui entrambi si reggono è simile, e basato sulle stesse premesse. Infatti, anche in Cina, gli unici a protestare sono di solito quelli che non hanno niente da perdere, cioè gli anziani. Però a volte il Governo per punirli se la prende con i loro familiari (vi ricorda qualcosa?), in spregio alla nozione di responsabilità individuale. Perché anche in Cina, come in Calabria, la famiglia è quella cosa che ti stritola e ti protegge. O ti stritola mentre ti protegge. In Cina come in Calabria tanti non educano i propri figli in modo sano perché sono a loro volta immaturi, bloccati da una società che non incoraggia l’autonomia di pensiero; altri sono semplicemente troppo distratti, dalla paura e da un ambiente circostante che percepiscono (a ragione) minaccioso.

La censura cinese e quella calabrese funzionano nello stesso identico modo: basta non fare nomi, come sanno bene i giornalisti che per aver fatto nomi, vivono quotidianamente nel terrore.
Ci sono traffici visibili e altri meno invisibili tra Cina e Calabria: di alcuni sono testimonianza i container del porto di Gioia Tauro, filo diretto tra due culture e due modi simili di concepire i rapporti sociali, con un’interpretazione spesso troppo arbitraria di ciò che è moralmente lecito. E di ciò che è legale. Questo forse perché un’altra cosa che accomuna Cina e Calabria è la compulsione alla menzogna. I tanti pinocchi calabresi mentono perché pensano – o meglio s’illudono – che così facendo avranno un vantaggio sugli altri. Nascondere, omettere e mentire (si fa su tutto: sulle parentele, i patrimoni, persino i cognomi) per proteggersi e al tempo stesso imporsi, non rendendosi conto che le menzogne non solo hanno le gambe corte, ma che alla lunga creano una foresta labirintica in cui finisce per perdersi anche colui che l’ha creata, quella foresta.
Ma più che la propensione a mentire, quello che contraddistingue molti cinesi e calabresi è il disprezzo per la verità. Certo “verità” è una parola impegnativa, il cui uso presuppone un rapporto intimo con essa (e chi sono io per illudermi di avere in pugno la verità?), allora forse sarebbe meglio usare il termine “evidenza” – ciò che è innegabile. Ma il calabrese medio, così come il cinese, riesce a negare anche l’evidenza, anzi sembra quasi costretto a farlo, e se credo di sapere quali siano le motivazioni che spingono i cinesi a farlo, meno chiare sono quelle dei calabresi, i quali negano, sempre e comunque. Negano che non funzioni quasi niente, negano la sporcizia che loro stessi contribuiscono a creare, negano il clientelismo e l’assenza di meritocrazia, negano persino la negazione, e poi negano di aver negato di negare. Gli chiedi perché, se qui si sta così bene, l’esodo dal territorio continua senza cedimenti: ma i loro parenti non sono scappati, semplicemente avevano da fare fuori. Sono sempre gli altri, mai loro.

Il grande classico è sempre lo stesso: negare l’esistenza della mafia. Chi lo fa (tanti, troppi), sottolinea che la fantomatica ‘Ndrangheta è un’invenzione per diffamare la Calabria: che se ci pensate è un capolavoro di psicosi persecutoria, perché presuppone che il Governo abbia interesse a creare un problema che non esiste, o a prendersela con i calabresi in quanto tali (Fantozzi scansate). Anche in questa forma di pensiero paranoico, i calabresi ricordano un po’ i cinesi, che si sentono cronicamente vittime di un racconto falso e tendenzioso di nemici esterni che li dipingono brutti, sporchi e cattivi, e li calunniano con l’accusa di calpestare i diritti umani. Si avverte, in Cina e in Calabria, il tentativo disperato e un po’ ridicolo di controllare una narrazione e di conseguenza l’opinione pubblica, non tollerando niente di diverso dalla celebrazione dei successi, l’esaltazione delle bellezze, l’encomio ai suoi figli eccezionali.

L’ultima parte del reportage di Bianchi in Calabria è stata girata a San Luca, considerata culla della ‘ndrangheta della costa jonica, una delle più feroci, mandante dei rapimenti con i quali si è finanziata, e della più recente strage di Duisburg. Nel paese campeggiano manifesti che inneggiano alla legalità; anche le scuole e altri luoghi di aggregazione hanno le bacheche ricoperte di slogan antimafia. Tutto molto encomiabile, ma non si può non pensare che gli slogan servano soprattutto a mettersi al riparo da accuse e mostrare una buona volontà che però poi non si traduce nei fatti. Anzi, a dire il vero nemmeno nelle parole, perché lì alla ‘ndrangheta (la parola viene pronunciata sempre tra “virgolette”, come se fosse un’invenzione di qualcuno o una trovata pubblicitaria) si fa accenno solo per prenderne le distanze. Negare e rimuovere, sempre e comunque. Si rimuovono le cause e non gli effetti, cui fa accenno la signora Fortunata, unica sanluchese a prendere la parola in occasione della riunione consuntiva convocata dal sindaco uscente Bruno Bartolo. Fortunata ha la gestualità aggraziata e piena di retorica della gente di altri tempi, gente i cui pensieri e azioni sono inquadrati sin dall’infanzia in una disciplina interiorizzata. Fortunata dice con enfasi che il problema è il lavoro, che i giovani vivono sulle spalle dei genitori e dei nonni; si scusa “se ha parlato male”, ma anche questa è retorica, perché sa di avere ragione. Vorrei chiedere a Fortunata di cosa o di chi è la colpa se manca il lavoro. Chi o cosa tiene il territorio, e la Calabria tutta, sotto un coperchio di sottosviluppo? Perché quasi nessuno sceglie di fare impresa in Calabria? La risposta che viene data è una sola, invariabile e ostinata: le istituzioni (le stesse del tormentone “dove sono le istituzioni?!”). È una risposta di comodo, anche un po’ vile, perché se è vero che le fantomatiche istituzioni non fanno abbastanza e soprattutto non sembrano interessate a estirpare davvero la mafia, è dal territorio che deve nascere l’impulso alla ribellione contro una certa mentalità e il suo modus operandi. Ma come farlo senza smantellare quella forma di economia parallela, zoppa e disfunzionale, che si è venuta a creare giorno per giorno, connivenza dopo connivenza?

Fortunata è coraggiosa, ma non abbastanza. E chissà cosa pensano tutti veramente, dietro quegli sguardi antichi e impenetrabili, come li definisce Filippo Ceccarelli. Fortunata mi ricorda certe anziane cinesi che non sono state educate alla libertà, ma che (ri)conoscono la verità e la rispettano. E i giovani cinesi? Sono scoraggiati quanto quelli calabresi, perché sentono di non essere padroni del loro destino, che fili invisibili li tengono legati: l’unico modo che hanno, per opporsi a questi fili, è stare fermi. Non a caso l’espressione cinese più in voga e più rappresentativa degli ultimi anni è stata 躺平, tang ping, letteralmente “giacere piatti” (cioè stare stesi), che definisce una nuova filosofia dell’inazione nata dalla sensazione d’impotenza.

I cinesi non votano, ma che valore ha il voto in Calabria? Cina e Calabria sono terre di grande pragmatismo e flessibilità (che non è sinonimo di elasticità), la stessa che porta molti veterani del seggio a candidarsi ora per l’una, ora per l’altra coalizione o partito: tanto non importano i colori, l’importante sono i topi, i topi che portano soldi e con essi la possibilità di comprare altri voti, in un’eterna caccia.

A pochi giorni da un voto che riguarderà tutti i cittadini europei, mi piacerebbe che chi si reca ai seggi, si rendesse conto del privilegio immenso che ha nel poter scegliere i propri rappresentanti. Sarebbe bello che si votasse con coscienza e non per conoscenza. Per merito e non per vicinanza.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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