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Quello che la magistratura non ha imparato (e che non imparerà mai) dal caso Palamara

di Claudio Cordova – Difficile ricordare in età contemporanea un momento storico in cui la magistratura abbia passato un periodo meno fulgido e circondato da maggiore sospetto e circospezione rispetto a quello odierno. Parliamo, in termini generali di quello che, da sempre, è uno dei poteri dello Stato su cui i cittadini (quelli onesti, s’intende) hanno riposto maggiori speranze e aspettative.

Da qualche anno a questa parte, tuttavia, non è più così. Per una serie di motivi.

In primis perché, come in ogni ambito della vita pubblica e negli ambienti della classe dirigente (si pensi alla politica) nel corso degli anni si è progressivamente e sensibilmente abbassato il livello qualitativo. Sono morti, sono andati in pensione, hanno optato per altre carriere, alcuni togati di assoluto livello. E il ricambio generazionale non è stato all’altezza. Ma, soprattutto, perché succede che la gente perda la fiducia non tanto quando si incappa in un problema, anche in uno scandalo. Può succedere a tutti, o quasi. Ma, soprattutto, quando da quegli errori o da quegli scandali, appunto, non solo non ci si riprende, ma non si opera mai, effettivamente, un mea culpa, evidentemente prodromico a quello che dovrebbe essere un cambio di rotta.

Ebbene, tutto questo, dopo lo scandalo (sicuramente morale e, in forma minore, anche penale) del caso Palamara, la magistratura non l’ha fatto.

Quegli anni ci hanno consegnato – sotto il profilo sociale – un contesto in cui contava (e parecchio) appartenere all’una o all’altra corrente interna alle toghe per fare carriera. E, ancor di più, contava essere amici o essere nelle grazie proprio di Luca Palamara, l’ex ras delle toghe, una sorta di Luciano Moggi del Consiglio Superiore della Magistratura, cui ci si rivolgeva per circostanze interne ed esterne. Quello scandalo, anche nei saggi richiami del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, doveva segnare una svolta radicale nel modo di intendere la politica giudiziaria da parte delle toghe.

Ma così non è stato.

Non solo perché dei soggetti coinvolti, a livello relazionale, nella galassia di Palamara quasi nessuno ha pagato. Molti, invece, hanno fatto pure carriera. Ma anche perché, soprattutto nella percezione che può avere il cittadino, poco o nulla sembra essere cambiato nelle logiche che regolano nomine e carriere in seno alla magistratura.

L’ultimo caso riguarda, manco a dirlo, la Calabria. E, manco a dirlo, Reggio Calabria.

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La nomina di Caterina Chiaravalloti, figlia dell’ex presidente di centrodestra della Giunta Regionale della Calabria, Giuseppe Chiaravalloti, a presidente della Corte d’Appello di Reggio Calabria. Si badi bene, non si vuole entrare nel merito della professionalità del magistrato, né, tanto meno, in dinamiche di natura tecnica che sfuggono a chi scrive e ai più.

Ma, cosa ancor più rilevante, che non importano nulla, a chi scrive e ai più.

Ciò che conta è il messaggio che, ancora una volta, passa alla cittadinanza, alla popolazione che poi, spesso, affida al propria vita alla decisione di un tribunale. La nomina di Chiaravalloti, di misura su un giudice come Olga Tarzia ha scatenato la levata di scudi di Magistratura Democratica, di cui Tarzia è una autorevole rappresentante. E, ancora una volta, sempre agli occhi e alle orecchie di chi non è mai entrato all’interno del Consiglio Superiore della Magistratura e di chi non sa nemmeno dove si trovi Palazzo dei Marescialli a Roma, il messaggio che passa è quello di una nomina che, se non è una nomina politica, poco ci manca. E, purtroppo, il danno è fatto a prescindere o meno dalla veridicità della questione.

Sicuramente, a detta della piccata nota di Md, di una nomina che non rispecchierebbe criteri oggettivi.

Proprio quei criteri oggettivi che i cittadini vorrebbero, quando si parla di ruoli così delicati, quando si parla di persone che, quasi come un medico, possono decidere se e come cambiare (e, a volte, letteralmente salvare) la vita di un cittadino che chiede giustizia.

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E, invece, il quadro che fuoriesce è, ancora una volta, di un sistema correntizio. In cui Magistratura Democratica, la corrente di sinistra delle toghe, difende (legittimamente e tutto sommato in maniera scontata) la propria rappresentante, accusando, viceversa, il vicepresidente del Csm, l’avvocato leghista Fabio Pinelli, di mancanza di terzietà, dato che sarebbe stato proprio il suo voto a spostare l’ago della bilancia a favore di Chiaravalloti.

Le parole di Md sono condivisibili in termini generali: “La magistratura deve rivendicare con fermezza un esercizio della discrezionalità consiliare basato su regole chiare e trasparenti, riscontrate dalla motivazione, non orientato dalle maggioranze e dalle appartenenze, o dalle interferenze politiche”. Ma a Magistratura Democratica, come a ogni altra corrente, i cittadini chiederebbero (e avrebbero chiesto) prese di posizione altrettanto decise in termini generali, per una questione di salute e di igiene interna alla magistratura.

Non solo un intervento duro quando si è parte in causa. Perché anche le frasi condivisibili, quando c’è di mezzo un “interesse” (nel termine più neutro possibile) perdono di efficacia.

E, invece, la magistratura avrebbe bisogno di tanta, tantissima, efficacia. Ovunque. Ma soprattutto in territori complessi come quello calabrese e quello reggino. Dove spesso si chiede ai cittadini di fare scelte drastiche, difficili, di affidare la propria vita a una Istituzione.

Ma se questa Istituzione è ai minimi storici di credibilità, è dura.

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