Piccolo, dalle dita troppo corte per suonare il piano, lontano da ogni stereotipo di perfezione. Eppure un genio che ha lasciato un’impronta eterna nella musica d’autore italiana. Parliamo di Lucio Dalla, che stasera (1 dicembre 2023 alle ore 21:00) lo spettacolo prodotto da Scena Verticale, “Aspettiamo senza avere paura, domani – Canzoni e disquisizioni su Lucio D.” tributerà all’Auditorium De Gasperi di Reggio Calabria, nell’ambito del festival Balenando in burrasca.
Uno spettacolo di e con Sasà Calabrese, Daniele Moraca e Dario De Luca, una delle voci più iconiche del teatro calabrese, colui che ha portato il teatro contemporaneo in Calabria decidendo tenacemente e follemente di restare e con cui “Il diritto quotidiano Studiocataldi.it” ha fatto una piacevole chiacchierata … aspettando senza avere paura, stasera.
Dario De Luca, il tuo percorso si identifica con quello di Scena Verticale fondata a Castrovillari ormai più di 30 anni fa insieme a Saverio La Ruina. Qual è l’impegno della compagnia?
«Volevamo provare a rimanere in Calabria e partendo dalla nostra Calabria invadere l’Italia! Tenere come luogo privilegiato, anche di ricerca, il nostro territorio e la nostra lingua, e, con i nostri strumenti e con queste armi provare a raccontare un angolo di società e un angolo di terra poco conosciuta e poco battuta a livello teatrale. Infatti, molti lavori di Scena Verticale hanno utilizzato il dialetto anche in tempi non sospetti dagli anni ’90 in poi e tante volte abbiamo provato a dire la nostra su tematiche importanti partendo dai nostri luoghi d’origine. Ad esempio, abbiamo fatto spettacoli sulla transessualità (dove c’erano transessuali calabresi) negli anni ’90, io ho fatto un lavoro sull’Alzheimer e uno sul fine vita, Saverio ha lavorato anche su tematiche di violenza sulle donne, da “Dissonorata” a “Polvere” a La Borto. Tra l’altro, sempre, mi permetto di dirlo, un attimo prima che la società la vivesse poi come urgenza. In un momento in cui ci ponevamo delle questioni, senza mai pensare alla tematica ma sentendo il bisogno di costruire delle storie intorno a delle dinamiche che noi sentivamo urgenti».
Cosa significa fare teatro in Calabria? L’hai definita “una terra ostile”, eppure sei rimasto e la racconti… E’ un modo per combattere e vincere quest’ostilità?
«A distanza di tanti anni ribadisco che è una terra ostile, anche senza mezzi termini, senza rabbia. È una terra madre che non ama, che non aiuta i suoi figli. Ma la volontà e il bisogno di restare nascono da tante motivazioni, dalla speranza che qualcosa succeda, che ci sia un’attenzione maggiore. Insomma, un modo per combattere quanto meno quest’ostilità più che vincerla. Non so mai, infatti, chi è più coraggioso (o vigliacco), tra chi è andato via e chi è rimasto. Però se sei rimasto devi fare qualcosa per provare a cambiare questa terra, sennò è meglio andare fuori e dimenticartela. D’altra parte è una terra che ti dà tanto, in termini di “sguardo”. Aveva ragione Cassano quando teorizzava il “pensiero meridiano”, io penso che il nostro sguardo sia diverso, uno sguardo che parte dai borghi e guarda verso il centro e chi ce l’ha penso sia più illuminato degli altri, vede delle cose che gli altri non vedono».
Una “follia” quella di restare che vi ha portato ad ideare nel 1999 anche un festival, “Primavera dei teatri”, peraltro insignito del premio speciale Ubu. Cosa c’è dietro quest’impresa?
«In realtà, c’è la stessa volontà di fare nella nostra terra. Il teatro contemporaneo non arrivava in Calabria e noi abbiamo provato a dare un luogo alla Calabria dove potesse arrivare l’ultima generazione teatrale, la nuova drammaturgia, i linguaggi teatrali che utilizza il contemporaneo. Il festival coinvolge compagnie da tutta Italia e da qualche anno abbiamo iniziato ad avere uno sguardo sull’internazionale, proprio per dare la possibilità a tutti, compresi i nostri figli, di avere le stesse opportunità di visione che hanno i giovani a Bologna piuttosto che a Milano o a Parigi».
Nella tua carriera hai fatto anche cinema, tra cui “La vera leggenda di Tony Vilar” e “Boris”. Cosa hanno rappresentato queste esperienze per te?
«Il cinema è ancora un terreno abbastanza fertile per me. Mi è capitato di stare in produzioni importanti, di nicchia ma che hanno un valore, alcune produzioni particolari che il cinema italiano ha messo in campo. Sono state delle belle esperienze assolutamente che continuerei a fare. Il cinema ha un’altra modalità di produzione e anche l’essere attore ha due modalità diverse, l’attore teatrale ha un modo di stare nel qui e ora visto che va in scena tutte le sere che l’attore di cinema non ha. Ma è una modalità che mi interesserebbe continuare. Tra l’altro, sono convinto che in alcuni progetti, non in tutti ovviamente, gli attori di teatro prestati al cinema siano straordinari. Hanno un modo eccezionale di gestire i sentimenti dei personaggi perché vengono appunto da una gavetta di palcoscenico che gli attori che hanno fatto solo cinema non hanno. Ritengo che quando gli attori teatrali approdano al cinema ci lasciano sempre delle pietre miliari».
Fai tante attività anche nel campo del sociale per soggetti svantaggiati e ragazzi con disabilità. Me ne parli?
«Lavoro con l’associazione Famiglie Disabili (FD) a Castrovillari. È un lavoro che porto avanti dal 1999, per cui sono tantissimi anni. Si tratta di laboratori di teatro e di espressività teatrale che continuo a portare avanti perché pur non essendo un terapeuta, il lavoro che faccio con il teatro per loro è terapeutico. Soprattutto dopo la pandemia, pur avendo fermato un po’ gli altri percorsi laboratoriali, nelle carceri (a Rossano e a Castrovillari) e nelle scuole, ho voluto proseguire coi laboratori con la disabilità perché ne sentivo il bisogno, perché dopo la pandemia loro sono stati i soggetti più danneggiati, sono più fragili e avevo voglia di farli tornare fuori di casa e fargli fare un’attività che potesse piacergli».
Passiamo ai progetti di teatro-canzone che ormai porti avanti da molti anni, in cosa consistono?
«La musica è uno strumento che utilizzo molto spesso per andare in scena, vengo dalla prosa ma mi piace che la musica sia presente, sia parte espressiva del mio stare sul palco. Con Giuseppe Vincenzi ho fatto un percorso di teatro-canzone, intendendo la modalità inventata da Gaber e da Luporini, di utilizzare la forma canzone e i monologhi per raccontare delle cose. Così con Giuseppe che è autore di canzoni abbiamo fatto degli spettacoli di teatro-canzone intorno alla società, uno, ad esempio, racconta del bisogno che la nostra società ha di mantenere giovani tutti per non dargli mai posti di potere, e si intitola “Morir sì giovane e in andropausa”, l’altro è un ragionamento sul nostro rapporto con i social, col lavoro interinale, che si intitola “Va pensiero che io ti copro le spalle”. Ora abbiamo in mente di fare un terzo progetto per chiudere la trilogia sul lavoro».
Anche lo spettacolo di stasera “Aspettiamo senza avere paura domani” si innesta nel teatro-canzone…
«Esatto. Con altri fratelli musicisti, Sasà Calabrese e Daniele Moraca, durante la pandemia c’era venuta voglia di ragionare intorno al mondo poetico di Lucio Dalla. E abbiamo iniziato a lavorare a questo spettacolo che si intitola “Aspettiamo senza avere paura domani”. Un titolo prepandemico, perché abbiamo iniziato a lavorarci prima della pandemia, ma che è stato profetico. Dovevamo debuttare infatti il 7 o l’8 marzo del 2020 e poi ci hanno chiuso, quindi è diventato premonitore ma anche un titolo di speranza nel momento in cui tutti siamo usciti anche questo spettacolo è stato proposto al pubblico. Si tratta di un percorso molto musicale, si suona e si canta tanto intorno a Lucio Dalla, con monologhi che raccontano il suo percorso poetico e di vita, ci sono anche dei video poco conosciuti che accompagnano tutto lo spettacolo. L’atteggiamento, nel momento in cui ci siamo messi a fare questo spettacolo, è quello di tre autori (due compositori/cantautori e un autore di prosa) che guardano all’autorialità di questo grande maestro che è stato Lucio Dalla».