di Mariagrazia Costantino* – In una delle ultime sedute di laurea cui ho assistito, la studentessa che discuteva la tesi parlava di mafia e ha detto una cosa che ha lasciato indifferenti tutti i presenti tranne me. La ragazza sosteneva con grande naturalezza e con il compiacimento di chi ha studiato poco e male – ma che comunque il pezzo di carta se lo porta a casa –, che la mafia in Calabria ha attecchito perché agli albori – non è dato sapere quali – si poneva come sostituto dello Stato e aiutava la popolazione laddove lo Stato, appunto, era assente. Una vulgata trita ma non per questo meno preoccupante, carica di retorica banale e al tempo stesso insidiosa.
Ripeto, nessuno ha trovato niente da ridire. Forse neanche l’hanno notato, troppo presi da bomboniere e imminente rinfresco. Non l’hanno notato perché questa è la versione che accettano senza rendersene conto. Una finestra di Overton spalancata. Io, dopo aver recuperato il sopracciglio schizzato fino al soffitto, ho obiettato definendo una simile interpretazione inopportuna e storicamente scorretta. No, la mafia non ha mai aiutato o fatto beneficenza a nessuno, non senza un ritorno e anche molto alto (si chiama strozzinaggio, o bieco affarismo nella migliore delle ipotesi). Questo prezzo coincide con la vita delle persone “aiutate”: vita monitorata nei minimi dettagli, disciplinata e terminata nei casi più estremi. Perché la mafia, compresa la ‘Ndrangheta, anzi soprattutto quella, sono rivendicazione di potere e proprietà. Anche laddove quest’ultima è estorta, strappata a forza. Rubata. Quello che la ‘Ndrangheta vuole la ‘Ndrangheta si piglia.
Come spiega bene Claudio Cordova nell’ottimo Criminalità Socializzata, la necessità di conquistare i cuori delle persone in questo quadro non è un optional, ma un dettaglio fondamentale. Il mafioso ha bisogno di far credere alle persone che assoggetta che non si può vivere senza di lui. Che la vita senza di lui (di loro) non valga nemmeno la pena di essere vissuta.
D’altra parte, se la mafia è così nociva e pervasiva, è anche perché riesce a portare all’esterno e all’estremo le peggiori dinamiche familiari, facendole diventare la norma e cristallizzandole in un eterno presente. Ossessione, dipendenza, attaccamento morboso, ma anche senso di impotenza e bisogno. Paura e ansia cronica. Sono questi gli ingredienti perfetti di quella famiglia allargata che è la società mafiosa. Ma come Cordova racconta in modo appassionante, quella attuale non è più solo la mafia della “famigghia”, dei legami di sangue estesi ai non-consanguinei attraverso riti di affiliazione e fedeltà giurata: la mafia di oggi è nelle mani di rampolli “smart” e ripuliti; è la “mafinfluence” che presenta un modello di vita desiderabile. Vincente persino.
“Le parole non dette” e “Le parole rubate” sono a mio avviso i paragrafi più brillanti del libro, e descrivono con estrema lucidità il modo in cui la mafia colonizza il mondo a partire dalle parole. In fondo in principio era pur sempre il verbo, e i primi “beni” su cui si possono e si devono mettere le mani per acquisire potere sono proprio le parole. Sono le parole a descrivere, e dunque costruire, il mondo delle persone. Quello in cui ci muoviamo. In questo mondo le parole sono tutto, specie quelle non dette, quelle negate, quelle sottratte.
Nel gergo psicanalitico popolarizzato, il silence treatment è quanto di più tossico possa esserci, dentro e fuori una famiglia. Io smetto di parlare con te quando tu, per me, smetti di esistere. Il modo migliore per negare la dignità a qualcuno (e così ucciderlo socialmente) è proprio negargli la parola. È una forma di violenza che denota anche grande immaturità emotiva. E a pensarci bene il mafioso ha tante cose in comune con i bambini: come loro impone le proprie esigenze, e come i bambini si aspetta di poter essere prepotente e restare impunito. Il mutismo selettivo, che insieme alla maldicenza gratuita – e più o meno immotivata – sembra essere il passatempo preferito in tante aree della Magna Grecia, serve a impedire l’accesso al proprio “mondo”, ma anche a prendere tempo per inquadrare meglio l’interlocutore. E allora anticamera per eccellenza della mafia è la diffidenza che la parola negata implica e sottende. La cosa affascinante da un punto di vista comportamentale e antropologico, è che questa diffidenza si applica a tutto e a tutti in modo indiscriminato: non si rivelano agli altri i propri “dati sensibili” – comprese le cose più banali, a volte anche solo l’età o il cognome – perché potrebbero essere usati come arma. Ma da chi e a che scopo? Non importa: non sei mai (davanti a) una persona sicura. Potresti tradirmi per interesse. Come nella tedesca DDR, o durante la Rivoluzione Culturale cinese, non ci si può/deve fidare di nessuno. Anche i muri hanno le orecchie: letteralmente, come nel caso della Repubblica Democratica Tedesca, o metaforicamente, perché sotto i regimi totalitari – compreso quello fascista – non ci si può fidare nemmeno dei familiari. Se non sei un buon rivoluzionario, o un buon fascista, i tuoi parenti stretti, figli compresi, potrebbero denunciarti al partito, ovvero l’autorità suprema. Anche nelle terre di mafia, dove la fiducia e la protezione verso la famiglia sono apparentemente inattaccabili, vige qualcosa di simile: ovvero, sei “dei nostri” finché non lo sei più. Finché non sgarri. La cultura dello “sgarro” meriterebbe uno studio a sé, ma voglio tornare alle parole puntuali di Cordova e a quanto possano risuonare in chi, come me e come tanti altri, è cresciuto in ambienti imbevuti di cultura mafiosa proprio come la città di Reggio Calabria.
Se un’appendice ideale può essere aggiunta a questo libro così completo e necessario (tanto che andrebbe inserito nei programmi scolastici e anche in quelli universitari), è forse una considerazione sulla sfera personale, sul riverbero che la descrizione dei comportamenti e dei linguaggi dei mafiosi ha nell’esperienza individuale di chi è nato in territori di mafia; sul riconoscimento di come questi, diluiti e percolati nella quotidianità, in quella che viene erroneamente chiamata “cultura” (non c’è proprio niente di culturale nella mafia), influiscano in modo deleterio sull’esistenza di chiunque ne sia stato toccato. E allora diventa chiaro che, parafrasando Gaber, bisognerà partire dalla “mafia che è in me”, guardarsi allo specchio e fare quello che Jung chiamava shadow work, il lavoro sull’ombra… e a proposito di Jung, nelle terre di mafia, di cui Reggio Calabria rappresenta il laboratorio perfetto, perfino gli studi medici possono diventare terreno di applicazione del codice mafioso: il che – capirete bene – è aberrante oltre che contrario a qualsiasi codice deontologico, e dunque sommamente dannoso per il paziente, che verrà trattato meglio o peggio quanto più coincide con l’idea mafiosa o para mafiosa che il “professionista” in questione avrà della persona degna (di un trattamento di favore, o anche solo umano).
Se il mafioso è l’influencer per eccellenza, la mafia è l’influenza che circola e si insedia ovunque: nelle scuole, negli uffici, nelle famiglie, comprese quelle “per bene.” No, non dirò “la mafia siamo noi” neanche fossi un Umberto Tozzi qualunque; sicuramente però la mafia è anche in noi, come e più di maschilismo, razzismo e classismo. Bisogna stanarli partendo dall’uomo e dalla donna allo specchio (altra citazione non proprio colta) questi malanni dell’anima e della società.
Una presenza viscida e subdola come la ‘Ndrangheta agisce prima di tutto al livello dell’inconscio. È lì che bisogna cercarla. Per farlo occorre considerare alcuni fatti della propria storia personale e rileggerli sotto una nuova luce: bisogna ammettere che quella mentalità schifosa è riuscita ad attecchire anche nelle nostre case, dove una figlia femmina “garbata” è il miglior biglietto da visita per un capofamiglia che impone la sua disciplina sulle donne di casa; ci si deve poi ricordare di quegli “amici” che ci hanno voltato le spalle non perché non fossimo abbastanza per loro, ma perché non eravamo abbastanza mafiosi per le famiglie. Così molti preferiscono esserlo o sembrarlo anche per essere più integrati. Finché il confine tra l’essere e l’apparire diventa sempre meno netto.
Lavorare sul vissuto e sulle ombre del passato, comprese le proprie (soprattutto le proprie), non è una passeggiata e non è per tutti. Anzi ve lo sconsiglio proprio. È come un Truman Show più squallido e senza qualcuno che faccia il tifo per noi; è come rinascere, ma senza la mamma che ti consola. Un mondo di certo più ostile, ma sicuramente più vero.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica