di Gaia Serena Ferrara- Anche la città di Catanzaro si unisce al grido di protesta che sta attraversando l’Italia dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin. Non un caso isolato, anzi l’ennesimo (più precisamente il 100esimo dall’inizio del 2023 in Italia), ma forse il primo a sconvolgere così profondamente le coscienze collettive fino a risvegliarle da quella sorta di torpore figlio della reiterata indifferenza che pervade la violenza di genere.
Proprio qualche giorno fa, nel Capoluogo, la fiamma è partita dal basso e l’indignazione del singolo è diventata il motore propulsivo di un’aggregazione spontanea che si è tradotta oggi in una manifestazione molto significativa, sia per la sua natura non istituzionalizzata, sia in quanto la prima (se non l’unica) delle poche reazioni registrate in Calabria.
“Domenica mattina mi sono svegliata con un pugno allo stomaco, soprattutto perché mentre nelle altre città italiane si stavano muovendo per organizzare qualcosa, in Calabria era tutto silente” spiega Miriam Belpanno, fautrice dell’iniziativa. “Mi sono sentita impotente ma non avevo intenzione di restare indifferente. Così, ho iniziato a contattare persone a me vicine e associazioni di categoria, e una volta fatto il primo passo si è aperto un mare”.
Le adesioni spontanee al corteo di quest’oggi sono state numerosissime: studenti, professori, assessori, senza distinzione di genere, lavoratori e lavoratrici di tutte le età. Padri, madri con bambini piccoli, femministe e non, fino a coinvolgere anche gente di passaggio. Tutti motivati, mossi e spinti dallo stesso sentimento e dalla stessa identica intenzione: quella di dire “basta”.
“Alzerò le mani solo per applaudire”, “Abortiamo il patriarcato”, “Quando esco voglio essere libera, non coraggiosa”, dal corteo che ha invaso le strade del Capoluogo si sono alzate urla forti pregne di indignazione, di rabbia e frustrazione per un fenomeno che sembra sfuggire sempre più ad ogni sorta di controllo o gestione. In questo senso un aiuto importante, come spiega Miriam, è arrivato anche dall’alto: “Senza l’intercessione della consigliera comunale Daniela Palaia non sarebbe stato possibile ottenere i permessi necessari nei tempi previsti e tutto sarebbe sfumato”.
Prima ancora che l’evento entri nel vivo, è già possibile avvertire e riconoscere fra i manifestanti tutta l’urgenza della necessità di prestare la propria voce per denunciare una realtà quotidiana fatta di prevaricazioni, violenze, disuguaglianze e diritti fondamentali negati, alcuni dei quali per sempre.
“Credo che questo sia uno di quei momenti di spicco in cui tutti ci sentiamo parte di un movimento. Serve dire basta non solo sui social, bisogna scendere in piazza e gridare il nostro sdegno contro questa società che ci sta opprimendo” sono le affermazioni di Francesca Tropea, una delle tante donne che ha preso parte al raduno. Così come ha fatto anche Adele Murace, di “Riprendiamoci i consultori”, che ha colto l’occasione per rivolgere anche un appello circa la riapertura e anzi il potenziamento di questi presidi fondamentali.
Mentre il corteo sfila per le strade del Corso Mazzini, dietro lo striscione che reca la scritta “E on vidistuvu ancora nenta” (Non avete ancora visto niente), al megafono si susseguono i nomi di tutte le donne che hanno perso la vita nell’ultimo anno per mano dell’uomo che avevano accanto, o che avevano lasciato, o già denunciato.
A fare da sfondo a quell’agghiacciante elenco di nomi, ci sono gli applausi, i fischi, le grida, il rumore assordante delle chiavi che tutti i partecipanti tengono in mano mentre continuano a camminare per raggiungere Piazza Prefettura, dove microfono e cassa attendono chiunque voglia prendere la parola.
Una volta riunitosi in piazza, il corteo non si divide ma resta compatto ad ascoltare gli interventi più disparati: dalle poesie, alle denunce, da citazioni famose a pensieri personali e soggettivi. Le reazioni non mancano. Si toccano tutte le tematiche, dal femminicidio alla violenza economica, dal femminismo al patriarcato, dalle ingiustizie sul posto di lavoro ai luoghi comuni che si fa fatica a sradicare, fino a giungere alla constatazione che avere una donna alla Presidenza del Consiglio non è, da sola, garanzia sufficiente di qualsivoglia parità di genere né di incolumità per la propria vita, nè tantomeno di una società più equa ed evoluta.
Come elemento costante e comune resta, comunque, la disarmante consapevolezza che si debba lottare per ottenere il riconoscimento, l’attribuzione e la tutela di un diritto che sarebbe già costituzionalmente garantito e per il quale non bisognerebbe dover lottare.