di Gaia Serena Ferrara – “Quando qualcosa va in pezzi si perde l’armonia dell’insieme, ma resta il fatto che dei limiti si può fare una possibilità, dando potere all’immaginazione.”
Fare con quello che si ha e prendersene cura.
E’ questo il centro gravitazionale più intimo ed essenziale intorno al quale ha orbitato la performance di Vinicio Capossela che ieri, a Catanzaro, ha intrattenuto il pubblico del teatro Politeama portando sul palco il suo ultimo album dal titolo “Tredici canzoni urgenti”.
Fra melodie sdentate, scale pentatoniche, motivetti al sapore di spaghetti western alla Sergio Leone, intramezzati da citazioni di spessore con richiami ad Ariosto, a Dante, a Fenoglio, una semplice intenzione alla base: denunciare.
“Per cambiare le cose, e non farsi cambiare dallo stato delle cose, e dalla memoria prendere gli esempi”.
Le canzoni urgenti, spiega il cantautore, nascono infatti da una reazione: perché “quando la politica diventa spettacolo spesso incivile allora lo spettacolo deve tentare di diventare politico e civile”.
Ed ecco che dunque l’allestimento del concerto risulta essenziale, con una struttura semi circolare di lampadine che avvolge la band sul palco, in assenza di video proiezioni o grandi effetti scenici.
E’ sufficiente l’estrosità di Capossela a catalizzare, come sempre, l’attenzione.
Forse perché l’essenzialità è il mezzo migliore per stimolare un pensiero critico circa la realtà in cui siamo immersi e, al contempo, celebrare i diversi volti della fragilità umana.
I corpi offesi dall’amore tossico, la cattiva educazione come piaga generazionale, la guerra e le sue vittime, la malinconia di una rosa in un bicchiere, l’incoerenza della politica, la nostra sedentarietà e il disimpegno, il disinteresse, l’annichilimento. Sono innumerevoli, alcune particolarmente controverse, le tematiche che l’autore decide di affrontare ora con gravità, ora con ironia, ora con ilarità.
Ai diversi tempi dello spettacolo corrispondono look differenti, come se ogni canzone avesse una personalità a sé rappresentata dall’entrata in scena di un nuovo cappello sulla testa del cantautore, che si destreggia fra diversi strumenti e registri vocali.
Camaleontico ed eccentrico, Capossela si veste e si sveste di tutto, mutando continuamente. E’ la sincera dedizione al pubblico a rimanere una costante.
Capossela, infatti, si rivolge alla platea in maniera informale, come fosse un amico di vecchia data, quel tipo di amico che riesce ad animare una serata all’improvviso iniziando a giocare con un gonfiabile a forma di luna, come un bambino.
Sul palco si diverte, porta sé stesso e poi trascende.
Va avanti e torna indietro, dalla violenza all’innocenza, e il pubblico lo segue: ora siamo adulti abbandonati sul divano davanti alla televisione, un momento dopo siamo bambini che saltano ancora nelle pozzanghere. Così facendo, il cantautore riesce nell’esperimento di condurre lo spettatore in una specie di viaggio interiore, fatto di alti e bassi, che si compone di tutto: amore, malinconia, morte, vita, follia.
Dal divertimento, alla riflessione, dalla necessità di esorcizzare i mali di oggi a quella complementare di sentirli sulla nostra pelle e affrontarli, guardandoli in faccia.
A concludere e chiudere la performance, il monito “Siete vivi” urlato verso l’intera platea prima di presentare l’ultima delle Tredici canzoni urgenti “Con i tasti che c’abbiamo” che Capossela introduce portando con sé sul palco i tasti di un pianoforte, quelli bianchi, che non sa se tenere in mano, in tasca, sotto la giacca. L’ultima delle tredici, è stata infatti composta e cantata, suonando esclusivamente i tasti “neri” del pianoforte, (quelli che da soli risultano incompleti, inadatti), facendo quindi di un limite, un’opportunità.