“Carissime maturande e carissimi maturandi,
anche quest’anno, con l’approssimarsi degli esami di Stato, voglio rivolgervi il mio sincero augurio.
Con alcuni di voi già lo scorso anno – con il supporto degli Uffici diocesani di pastorale giovanile e vocazionale che hanno svolto incontri preparatori nei vostri Istituti – abbiamo avuto modo di riflettere, presso l’Auditorium della S. Benedetto, sul tema della visione della vita, precisamente del “sogno” (Avremo sogni come fari). Con un altro nutrito e motivato gruppo di alcuni di voi ci siamo confrontati, costruttivamente, su alcune “Parole per la vita”, indicate liberamente in un primo incontro organizzativo. Si è trattato di parole “fondative” (Coraggio/determinazione – Fisico o corpo? – Amore – Forza/gentilezza – Accoglienza) e di un’esperienza da ripetere. Mi piace pensare che già sappiamo come ragioniamo. Sulla base di ciò il mio augurio ha come pretesto la vostra imminente prova, ma vuole abbracciare tutta la vostra vita.
Ho pensato – con un ritorno attualizzante all’universalità dei classici – di recuperare, da un mio studio di qualche anno fa, il tema del viaggio interpretato da Ulisse nella rilettura del sommo poeta, Dante, che ancora oggi ci dà occasione di riflettere. Lo faccio, pensando a voi, nella consapevolezza che il vivere può essere rappresentato certamente come un viaggiare il cui percorso non è sempre semplice, scontato o sicuro. Tra le mille occasioni di conoscenza, non solo teoriche, ma soprattutto relazionali, si nascondono tante insidie che, come sirene assordanti, cercano di farci tuffare illusoriamente nei flutti agitati dell’esistenza. A tale proposito, c’è un testo “didattico” della Bibbia nel quale viene data la facoltà di parlare alla stoltezza; questa, rivolgendosi ai giovani e agli “inesperti”, con moine seducenti dice: «Le acque furtive sono dolci, il pane preso di nascosto è gustoso» (Proverbi 9,17). Le insidie sono sempre in agguato e spesso ci attraggono, rendendo vani gli sforzi di coloro che hanno a cuore la nostra vita e il nostro avvenire. Così ho pensato di racchiudere in un’unica immagine – che vuole richiamare evocazioni e simboli “sempiterni” – il servizio dei docenti, delle famiglie, degli educatori, degli amici ed evidentemente quello di tutti noi.
L’augurio lo consegno attraverso una interpretazione attualizzata del Canto XXVI dell’Inferno. Qui, come accennavo, il tema del viaggio è impiegato come metafora e come possibilità di approfondimento del cammino intellettuale e sapienziale, fatto di conoscenza, di desiderio, di aspirazioni, di limiti e di provocazioni. Il personaggio è quello di Ulisse che compie un itinerario come uomo mai sazio delle conquiste e delle esperienze («ma misi me per l’alto mare aperto», si legge al v. 100). Questa porzione di universo comunicativo forse rivela, celandolo, un modo usato da Dante per segnalare l’ambivalenza del suo viaggio ultraterreno, costellato tuttavia da molti soggetti legati alla terra. C’è certamente in Ulisse, e forse anche in Dante (in esilio in quel periodo), la nostalgia del ritorno alla «petrosa Itaca» (per dirla col Foscolo), e vi è nel Poeta la paventata voglia di giungere – ancora una volta e nonostante tutto – all’irriconoscibile Firenze (cfr. i versi iniziali da 1 a 12 del Canto XXVI). Il pellegrinare – presentato come occasione di conoscenze e di sfide –, nella visione occidentale è visto come un cerchio, ispirato dal nòstos (la nostalgia): l’uomo si arricchisce cercando di superare sé stesso e, carico di un grande bagaglio, torna alle relazioni originarie: Penelope, Telemaco, Argo. Ma Dante, mentre recupera questo tema, infrange lo schema propriamente occidentale ed esasperatamente razionale della conoscenza: orienta l’itinerario e la scalata verso l’oltre (cfr. il carro di Elia al v. 35), fosse pure ciò che si scopre al di là delle colonne d’Ercole, «di retro al sol, del mondo sanza gente» (v. 117), verso un punto posto all’orizzonte che si allontana sempre di più mentre ci si avvicina. Dante, così, guarda l’esistenza umana da un’altra prospettiva e la considera a partire dalla fine e, anche, dal suo fine.
L’invito a voi ragazzi e ragazze, che è anche un augurio, è quello di non accontentarvi di un possesso delle cose, della realtà e della conoscenza (la quale, fra l’altro, consente di fare “esperienza” del limite umano), ma di osare a muovervi verso «l’amor che move il sole e le altre stelle» (Paradiso XXXIII, 145), a cogliere nel limite la potenzialità e la grandezza del suo stesso superamento. Questo è il senso del viaggio, reso molto bene nella rilettura poetica di Konstantinos Kavafis che, in un passaggio, recita:
«Itaca ti ha dato il bel viaggio,
senza di lei mai ti saresti messo
in viaggio: che cos’altro ti aspetti?
E se la trovi povera,
non per questo Itaca ti avrà deluso.
Fatto ormai savio,
con tutta la tua esperienza addosso
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare».
Proprio toccando il tema della conoscenza che vale la pena conquistare, Ulisse aveva caricato i suoi, ormai vecchi, per spronarli «con… orazion picciola» (v. 122) alla partenza: «Considerate la vostra semenza: / fatti non foste a viver come bruti, / ma per seguir virtute e canoscenza» (vv. 118-120). Ma, sembra dir Dante col suo stesso peregrinare: non bisogna fermarsi alla terra, l’«aiuola che ci fa tanto feroci» (Paradiso XXII, 151), ma anelare a ciò che manca: è questo il “de-siderio” (secondo l’etimo: “mancanza di stelle”). Se “nostalgia” deve ispirare il nostro viaggio, sia almeno “nostalgia di futuro”. Auguri a tutti”.
Così il vescovo Serafino Parisi.