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Reggina: due indizi non fanno una prova, ma impongono una riflessione

di Paolo Ficara – Secondo la superstizione popolare, rompere uno specchio fa scaturire sette anni di guai. Era il giugno del 2016 quando la Reggina Calcio veniva dichiarata fallita dal Tribunale di Reggio Calabria, undici mesi dopo la mancata iscrizione in Serie C. Alcuni ricorderanno la battaglia del Dispaccio per non fare disperdere identità, marchio e storia. In pochi avranno percepito come dietro il tentativo di proseguire con il solo settore giovanile, in collaborazione con la Juventus, si potesse celare un progetto di più ampio respiro.

Dal giugno 2016 al giugno 2023, sono trascorsi sette anni esatti.

Tolto il campionato 2019/20 stravinto in Serie C, con il tandem Gallo-Scipioni alla guida in società ed il reggino Mimmo Toscano straordinario condottiero in panchina, non sono mai mancati patimenti, risultati negativi, momenti bui, fazioni interne ed esterne. Inoltre, le celeberrime difficoltà oggettive – riferite al tema economico – si sono trasformate in patologie croniche.

La parola “Calcio” non è sparita solo dalla denominazione sociale. Si è smarrito il principale filo conduttore, che dovrebbe essere presente in tutti i club professionistici e non. La produzione di calciatori, risultata vitale per trenta lunghi anni, con punte di qualità rappresentate dal campione del mondo Simone Perrotta e dal fresco campione d’Italia Giovanni Di Lorenzo, si è spenta come se fosse collegata ad un interruttore.

Solo chi non vuole trovare – o riparare – l’interruttore, può sostenere sia guasto.

Tra quasi duecento giocatori ingaggiati a vario titolo per la prima squadra, al netto degli spiccioli incassati per De Francesco e Porcino, è stato venduto il solo Bianchimano per la cifra tutt’altro che esorbitante di 300.000 euro. Ed era il gennaio del 2018. Poi, solo acquisti e debiti.

L’unico giocatore prodotto in casa ad aver fatto una comparsata in prima squadra, in gare ufficiali di campionato, è stato il centrocampista Danilo Amato. Per il resto, dal settore giovanile e per sette lunghi anni, si segnala solo l’attaccante Alessandro Provazza, autore – quest’anno in C a Pesaro – del primo gol professionistico segnato da un ragazzo cresciuto al Sant’Agata nell’era post-Foti.

E lo abbiamo dunque nominato al settimo capoverso. Già, perché la maniera migliore per parlare di Lillo Foti, è illustrare – anche se ci vorrebbe un libro – ciò di cui si è reso protagonista. Circa il livello della sua utilità, nella storia – passata, presente e futura – del calcio a Reggio, ci sono due forti indizi.

Il primo è rappresentato dai trent’anni di Reggina Calcio, di cui la metà da presidente. Nove campionati in una Serie A mai assaggiata né prima né dopo quell’epopea, e solo sfiorata dalla triade Granillo-Dolfin-Maestrelli nel 1966. Brand valorizzato su scala mondiale. Idea vincente, realizzata da Pino Benedetto e risultata vitale già da subito, di costruire un centro sportivo e puntare sul settore giovanile: discorso poi elevato all’ennesima potenza sotto la gestione Foti, con decine di calciatori arrivati al professionismo.

Il secondo indizio è presto svelato, proprio dagli ultimi sette anni. Senza una figura dirigenziale di forte carisma, presente sul posto, che si alza al mattino col pensiero di far funzionare ogni attività al Sant’Agata. Fungendo da esempio e da stimolo a tutti, dalla prima squadra al personale. Alla Reggina è mancata questo tipo di presenza, ancor prima delle idee. Non c’è stato e forse non ci può essere un erede di Lillo Foti, non come proprietario bensì come leader.

Il terzo indizio costituirà una prova, solo nel momento in cui si attuerà. Se a Reggio Calabria esiste una sola persona che può portare la Reggina ad un certo livello, o comunque con un’organizzazione tale da non andare in sofferenza anche senza immediati salti di categoria, lo scopriremo se e quando a Lillo Foti verranno restituite le chiavi del Sant’Agata. Quel Sant’Agata di cui era stato privato, mentre stava solo tentando di riparare l’interruttore.

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