“Se avete preso per buone le «verità» della televisione, / anche se allora vi siete assolti / siete lo stesso coinvolti” - Fabrizio DeAndrè, Canzone del maggio, n.° 2
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Delitti e castighi

di Mariagrazia Costantino* – Mentre scrivo e voi leggete (si spera), una donna di 69 anni si trova in una remota località del circolo polare artico russo in cerca della salma del figlio, morto in circostanze più o meno misteriose.

Come in quelle situazioni assurde che oggi chiamiamo kafkiane – perché Kafka era così bravo a concepirle e descriverle, ispirandosi liberamente alla realtà, la donna viene rimbalzata da un obitorio all’altro. Ma questa salma non si trova.

Il cadavere di cui parlo è quello del politico dissidente Alexei Navalny, morto il 16 febbraio nella colonia penale IK-3, nella cittadina di Kharp.

Sento “colonia penale” e penso a Dostojevski, che in una colonia penale (a Omsk, in Siberia) ci era finito per una condanna a morte convertita in extremis e ci aveva mandato anche Raskolnikov, il protagonista del suo capolavoro; penso a Solgenitsin e alla sua esperienza in un Gulag sovietico.

Anche Navalny si trovava, concettualmente, in un Gulag, perché il suo reato era ideologico. Ma come Dostojevski e Solgenitsin, Navalny sembrava vivere “bene” (per quanto possibile) la sua prigionia. Forse perché, avendo sfiorato la morte come loro, sapeva quanto fosse preziosa la vita, anche in condizioni di disagio estremo e in una gelida cella d’isolamento. Forse, come Giovanni Falcone, preferiva morire una volta sola e non di continuo, come fanno quelli che per paura abbassano la testa.

Alexei Navalny sapeva che scappare dalla Russia lo avrebbe condannato all’irrilevanza politica, dunque alla (vera) morte. E lui continua a essere vivo (molto più vivo dei più) anche da morto. È così vivo, e il suo corpo ancora così pericoloso per il regime di Putin, che è stato fatto sparire, per nascondere al mondo quello che ha dovuto subire e per timore che intorno a esso – potente aggregatore di memoria – possa riunirsi la dissidenza, o nascerne una nuova, a un mese dalla farsa delle prossime elezioni.

 

Continuano a espandersi gli anelli concentrici che la sua azione ha provocato, come un grosso sasso gettato in un gigantesco lago. Il sasso che turba la quiete della superficie crea interferenze di verità, alla quale siamo disabituati al punto da volerla scansare a tutti i costi. Con il risultato che quando qualcosa è talmente evidente da risultare ovvia – come il fatto che Navalny sia stato fatto fuori dopo essere stato seppellito vivo al Polo Nord – viene liquidato come improbabile. Mentre è tutto un fioccare di teorie inverosimili che servono proprio a distrarre dalla presenza ingombrante della verità, a due passi da noi.

Eppure in questo momento, alcuni – inutile specificare simpatizzanti di chi – invitano “alla cautela” sulle effettive cause della morte di Navalny (le autorità russe, molto caute, parlano di un’attendibilissima “sindrome da morte improvvisa”), una scelta linguistica talmente surreale da non meritare alcun commento. Altri, in una disperata ricerca di attenzioni, si fanno in quattro per screditarlo, tirando fuori vecchie dichiarazioni, foto (molte delle quali chiaramente fake), filmati in cui partecipa a parate naziste o sfila con cortei xenofobi, mette il ketchup sulla pasta e simili amenità. Gli stessi ci ammoniscono con sussiego, sentendosi forse investiti di una missione divina (e dall’alto di una presunta superiorità morale), e mettono in guardia dai pericoli insiti nel santificarlo, dicendo con involontario umorismo che uno così non lo vorrebbero come vicino di casa, figuriamoci come presidente della Russia. Pensano di spiegarci quello che sappiamo già, che sono loro a non sapere e a non capire. Non sanno per prima cosa che la santità non esiste, almeno non come la si intende comunemente, ovvero come perfezione. Nessun santo è veramente, completamente santo; anzi a dire il vero i santi più amati sono quelli che nella vita precedente erano stati dei grandissimi mascalzoni. Navalny, per sua fortuna, non era un santo: era un essere umano pieno di contraddizioni e di notevoli virtù. La virtù, a sua volta, deriva dalla volontà di cambiamento (in meglio) per sè e per gli altri. E per cambiare ci vuole coraggio. Più coraggio che per sfidare uno come Putin.

Navalny aveva una nonna ucraina: da bambino passava le estati a nuotare nel fiume Pripyat, che scorreva nei pressi di Cernobyl e che divenne radioattivo nel 1986, quando Alexei aveva 10 anni. Niente più bagni per lui, niente più vacanze. Crescere nella Russia che preferì immolare migliaia di vite umane pur di non perdere la faccia, mentendo spudoratamente e sacrificando persone per non fare brutta figura con l’Occidente, deve averlo segnato a tal punto da farlo diventare, per un breve stupido momento, simpatizzante del nazismo. Ma si deve fare lo sforzo di capire che, come nel caso di molti altri russi, cinesi e di chiunque abbia conosciuto l’orrore dei regimi comunisti, quello è un nazismo posticcio, di reazione, una specie di posa adolescenziale che mira a infastidire l’autorità fingendosi amici della nemesi storica di quella stessa autorità.

Può darsi che in passato Navalny abbia davvero abbracciato posizioni razziste e nazionaliste, ma non credo sia particolarmente rilevante. Quello che deve interessare è che Navalny ha avuto il coraggio fuori dal comune di mostrare a tutti, ma soprattutto ai russi, la ridicola iniquità di un potere talmente corrotto da essere definito una “cleptocrazia”. Ha additato la nudità di un re mediocre, pieno di tic, ossessioni e paranoie: uno che ha bisogno di nascondere il vuoto di un’infanzia senza amore dietro orpelli lussuosi quanto inutili, come uno scopino per il WC in oro 24k.

Alexei continua a mostrare e dimostrare anche da morto: dimostra che la Russia è ancora ferma a Cernobyl, e ha più che mai bisogno di occultare, mentire, nascondere, mistificare.

Di fronte al coraggio di sfidare apertamente la mostruosità sbiadisce tutto tranne, sembra, il rancore di chi lo stesso coraggio non ha, e da quello si sente minacciato.

Mi sorge però il sospetto che più che il peccato sia il peccatore a fare la differenza: così, mentre si è pronti ad additare le colpe di chi è percepito come fragile e isolato, chissà perché si tende a essere molto più indulgenti con i grandi peccatori. I peccatori seriali e potenti. Come dimostra anche l’usanza assurda, tutta italiana, di fare sconti di diversi milioni ai grandi evasori fiscali.

D’altra parte ai grandi si perdona (quasi) tutto.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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