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I problemi dell’accoglienza in Calabria: non solo una questione di numeri

di Alessia Tripodo – Secondo l’ultimo aggiornamento della Protezione Civile Calabria, risultano essere 4000 i profughi ucraini regolarmente registrati nelle questure regionali. Già pochi giorni dopo lo scoppio della guerra, il Presidente della Regione, Roberto Occhiuto, annunciava misure straordinarie volte a garantire una corretta accoglienza. Così il 5 marzo la Giunta ha approvato due delibere per un totale di circa 5 milioni di euro (4 messi a disposizione dei Comuni per la rifunzionalizzazione delle abitazioni da destinare all’accoglienza e 1,2 per le prime spese) direttamente attinti dai fondi del POR che – come spiega lo stesso Occhiuto – non sempre la Calabria riesce a spendere in maniera produttiva. Ergo, non sempre riesce a spendere. Con l’eccedenza dei fondi UE e la crisi umanitaria alle porte dell’Europa, la Regione si è dunque spesa nella facilitazione dei programmi di accoglienza largamente attesi e richiesti da diversi sindaci delle provincie calabre.

La veloce predisposizione delle delibere si è ottenuta anche a seguito dei contatti che il Governatore ha stabilito con il console ucraino. La Calabria – spiega Occhiuto – è tra le regioni d’Italia con il maggior numero di presenze di cittadini ucraini. Nonostante ciò, l’ultimo dato registrato dalla Protezione Civile relativo ai flussi migratori è fermo al 21 aprile. Non sono tuttavia mancate iniziative di solidarietà a capo della società civile e non solo: nella gran corsa alla solidarietà le istituzioni hanno tagliato il traguardo.

LE DIRETTIVE DEL GOVERNO

Gli ultimi giorni di marzo il capo del Dipartimento della Protezione Civile, Fabrizio Curcio, ha firmato un’ordinanza che stabilisce modalità e misure per la gestione di chi scappa dalla guerra. L’ordinanza sancisce che nel caso l’interessato scegliesse di richiedere una “protezione temporanea” (un permesso di soggiorno speciale autorizzato dal Consiglio dell’Unione Europea) ha diritto a un contributo di sostentamento pari a 300 euro mensili pro capite per la durata massima di tre mesi decorrenti dalla data d’ingresso in Italia. Nel caso vi siano minori, viene riconosciuto un plus di 150 euro su ogni familiare al di sotto dei 18 anni. Se i profughi trovassero un lavoro, dice ancora l’ordinanza, “il beneficiario può continuare a fruire della misura in godimento per un periodo massimo di 60 giorni”. Il bonus, naturalmente, non è cumulativo con altre forme di assistenza, tuttavia è da contare l’aiuto che il Governo fornisce alle regioni con un rimborso forfettario di 1.520 euro per ogni persona accolta, per un massimo di 100 mila unità. Inoltre, la Regione Calabria ha stipulato un accordo con Federalberghi Calabria, affinché questa metta sul mercato le strutture alberghiere destinate all’accoglienza dei profughi. L’accordo, stipulato il 18 marzo, prevede un pagamento delle camere occupate dai 50 ai 60 euro in su a persona, sulla base dei servizi richiesti. Una organizzazione, quella che si occupa dell’accoglienza degli ucraini, che non ammette crepe.

PROFUGHI SÍ, MA DI QUALE GUERRA?

Non è dato sapere se le iniziative promosse dai vari enti siano a beneficio di coloro che scappano dalla guerra in Ucraina o di coloro che scappano dalla guerra con passaporto ucraino. Il dubbio persiste dopo mesi, anche se, in alcuni casi, si ottiene una risposta ovvia. Ne è esempio il comunicato di MarinoBus, la società di trasporti pugliese, che ha promosso viaggi gratuiti a tutti i profughi – con passaporto ucraino – che necessitano di raggiungere le varie regioni italiane. O le testimonianze documentate nei primi giorni seguenti lo scoppio della guerra, quando i paesi confinanti con l’Ucraina iniziarono un distinguo su chi potesse lasciare il paese e chi no. In base al proprio documento, o forse in base ad altro. E se queste distinzioni avvengono in un concentrato di attenzione e solidarietà che il conflitto in Ucraina ha attirato, non possiamo sorprenderci se altri fenomeni emergenziali e di accoglienza vengono percepiti e raccontati in maniera differente.

Le coste calabresi non hanno conosciuto riposo durante questo anno, perfino in pieno inverno le attività di soccorso della Guardia Costiera si sono mantenute vigili. Ma questa emergenza – pur sempre umanitaria – viene più facilmente derubricata a “sbarco”, e il profugo in fuga dai conflitti della Siria, Afghanistan, Iraq, Palestina o qualunque altro paese in crisi che sia, diviene “migrante”. Se in apparenza la nomenclatura sembra questione da poco, l’importanza che ha si riscontra nelle località che affrontano in primo piano l’emergenza migratoria, come Roccella Jonica. Vittorio Zito, sindaco della città della provincia reggina, ha più volte ribadito come il carico che il comune si trova ad affrontare sia insostenibile. Un carico – afferma il sindaco – che l’amministrazione fronteggia da sola, grazie al prezioso lavoro di volontari della Croce Rossa e della Protezione Civile. Non solo le strutture (che non sono ministeriali) non possono più rispettare le normali condizioni igieniche-sanitarie a causa dell’aumento dei posti, anche il personale è sottoposto a turni che il primo cittadino definisce “massacranti”. Senza poi trascurare che molte delle persone in arrivo sulle coste calabresi provengono da paesi per cui sarebbe possibile riconoscere una qualche forma di protezione internazionale – salvo lo studio dei singoli casi di cui si occupa la Commissione Territoriale -. Ciononostante, la regione Calabria non sente la necessità di applicare dei piani straordinari o di attingere a dei fondi extra come tuttavia avvenuto nel caso degli ucraini e come è possibile documentare non solo tramite le parole di quei sindaci che sentono di essere sprovvisti del necessario aiuto, ma anche tramite lo stesso portale della regione, nel quale non appaiono recenti finanziamenti a fronteggiare questa emergenza. Un timido accenno riguarda un recente accordo firmato con l’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli (Adm) e i comuni maggiormente interessati agli sbarchi (come Roccella) per procedere con l’alaggio delle imbarcazioni dei migranti affidate dall’Autorità giudiziaria a Adm dopo il dissequestro ai fini della loro demolizione. E anche una consegna speciale della Adm al comune di Crotone di un relitto, che per la cittadina diviene monumento in memoria delle vittime delle traversate in mare. Una celebrazione dovuta ma non sufficiente a far parlare il cimiteriale spazio del Mar Mediterraneo né la memoria di chi sopravvive.

C’è allora da chiedersi che valore le istituzioni attribuiscano alla persona e quanto valga la vicinanza geografica e culturale di un conflitto sulle strategie politiche di accoglienza.

QUELLI CHE VANNO, QUELLI CHE RESTANO

Due appunti sono necessari: in primo luogo, non abbiamo contezza di quante persone, una volta arrivate in Calabria, decidano di restarci. Sappiamo, però, che il numero è esiguo rispetto agli arrivi. Una volta registrato l’ingresso e sottoposto alle normali visite sanitarie – tra cui anche il tampone per il Covid – il migrante viene “smistato” in un centro di accoglienza che non necessariamente si trova in Calabria. Le Prefetture italiane, che coordinano le attività di accoglienza, sulla base degli accordi tra comuni e centri specializzati, si occupano di organizzare i trasferimenti. Più in generale, però, sono pochi i migranti che scelgono di fermarsi in Calabria e più generalmente in Italia. La loro meta, il più delle volte, li indirizza verso il Nord-Europa. Un’altra considerazione necessaria riguarda le famiglie ucraine giunte in Calabria. Nella stessa nota della Protezione Civile, si legge come molte delle persone accolte abbiano trovato sistemazione autonomamente. Anche in questo caso sono poche le persone che scelgono di restare, nell’augurio che la violenza nel loro paese cessi il prima possibile.

Sulle sorti dei migranti – quelli dei barconi – che decidono o si trovano a dover restare, invece, si potrebbe parlare lungamente. Per quanto non sia facile calcolare il dato umano, possiamo suddividere le realtà di accoglienza in: centri Cas o Sai (ex Siproimi), cooperative e alloggi autonomi. Nell’ultimo Dossier statistico Immigrazione 2021 realizzato dal Centro studi e ricerche Idos, si legge che a fine giugno 2021 gli immigrati ospitati nei vari centri di accoglienza in Calabria erano 3.895. Sommariamente il dato sarebbe pari al 4,9% rispetto quelli accolti in Italia. E chi resta, lo fa a suo rischio e pericolo.

Potrebbe ritrovarsi confinato tra le maglie del caporalato e dello strabismo statale, come nel caso delle baraccopoli di San Ferdinando. Un intricato problema dal quale sembra difficile trovare un’uscita. Innanzitutto, nel caso dei migranti della Piana, si parla per lo più di lavoratori stagionali impiegati in lavori agricoli. A differenza, però, del primo soccorso, ciò che rende complicata la situazione del rosarnese è lo status del migrante. Ancora una nomenclatura, sì, a dimostrare come il percorso verso l’accoglienza è pura semantica. Infatti, i braccianti della piana sono principalmente questo, cioè, lavoratori e dunque richiedenti di regolare permesso di soggiorno per motivi di lavoro. Essendo che il lavoro loro sottoposto a fatica può chiamarsi tale (sono note le denunce di sfruttamento e le irregolarità), è altrettanto faticoso ottenere i documenti. A fine 2021, l’organizzazione MEDU (Medici per i Diritti Umani) denunciava non solo le gravi condizioni di vita all’interno della baraccopoli ma anche la difficoltà di ottenere dei permessi regolari: “Delle 1.550 domande presentate in Calabria dai lavoratori – di cui solo 200 provenienti dalla provincia di Reggio Calabria – solo il 15% è stato completamente evaso un anno dopo e meno oltre il 5% delle richieste è stato accettato”.

Tendopoli di San Ferdinando

La tendopoli ha, inoltre, superato la capienza massima dei 300 posti. Che già a dirlo, di un luogo che viola la dignità umana, suona fastidiosamente pleonastico. Pochi e fatiscenti servizi igienici, accampamenti di fortuna tra lamiere roventi nella calura estiva e legno marcito per l’umido e il freddo invernale; sono in troppi ad essere morti a causa di queste sistemazioni. Prima tre morti (Moussa Ba, di 29 anni, Becky Moses, di 26, e Surawa Jaith nemmeno diciottenne) nella “vecchia” tendopoli, gestita dal comune, poi un ennesimo in quella poco distante della Caritas dove nel 2019 un 32enne, Sylla Noumo, ha perso la vita a causa di un incendio. Rischio più che possibile tra i cavi scoperti e i pochi elettrodomestici che servono a scaldarsi d’inverno. Dopo i primi tre casi, il Governo ha agito proponendo uno sgombero e abilitando una nuova tendopoli “non abusiva”. Con posti letto troppo pochi rispetto le persone sgomberate e un controllo che viene dichiarato tale ma che nasconde una polveriera pronta a esplodere, come ricordano gli scontri del 2011 a Rosarno.

Anche la nuova Giunta parla della situazione come di un “problema da risolvere”, come spiega lo stesso Roberto Occhiuto commentando la decisione del Prefetto di Reggio Calabria, Massimo Mariani, di procedere con lo smantellamento della tendopoli. E in alternativa sovviene il tavolo tra regione, prefettura di Reggio Calabria e i comuni di Gioia Tauro, San Ferdinando e Rosarno che a voce dall’Assessore Regionale alle Politiche sociali, Tilde Minasi, dichiarano pronto il progetto per il Villaggio Eco-Solidale. Il Villaggio dovrebbe sorgere nell’ex opificio di Gioia Tauro, di proprietà della regione e sarebbe finanziato in parte con i fondi regionali e in parte chiedendo ai comuni interessati di evolvere un compenso dei fondi del Pnrr per l’immigrazione. Un progetto, però, che lascia più dubbi che risposte e che la stessa MEDU aveva criticato chiedendo perché non si riesca a pensare a delle soluzioni abitative stabili, considerando anche lo stato di abbandono di alcuni edifici del reggino. La Minasi, però, specifica che a compimento del Villaggio verranno chiamati a collaborare anche gli imprenditori locali perché, dice, loro utilizzano questa “forza lavoro preziosissima” ed è dunque importante “offrire un servizio alle aziende, che dei lavoratori stagionali stranieri hanno assoluto bisogno per la loro produzione”.

Assolutamente bisogno di lavoratori stagionali stranieri. Per fortuna che a dirlo è l’assessore alle Politiche sociali, altrimenti il rimarco su “lavoratore straniero” sarebbe parso ironico.

ASPETTANDO L’ESTATE

Il caldo preannuncia il via vai di operatori sanitari, volontari e tutto quel compartimento che lavora per garantire alle persone di essere trattate come tali, al di là del passaporto. Ma dopo il Covid e con una vicina guerra in corso, il capitale umano rischia di cedere sotto le statistiche che attualmente contano, da inizio 2022, più di 30 imbarcazioni arrivate sulle coste calabresi e circa 3.300 persone accolte. Nessun piano di emergenza è fin ora stato elaborato ma è certo che la situazione non tenderà a migliorare. Eppure, tra tutte le risorse utilizzabili e non, gli impieghi e i Villaggi Eco-Solidali, ci si chiede come sia possibile che una regione che vive un grave problema di calo demografico nonché spopolamento non abbia le risorse per gestire in maniera ottimale dei percorsi di accoglienza. Riuscendo, magari, a riconvertire gli spazi abbandonati che devastano i panorami cittadini e considerando che chi deciderà di rimanere lo può fare sotto il titolo della legge, e non sotto il titolo un caporale o peggio. Una regione che ha messo a disposizione tante risorse umane e finanziarie per gli amici ucraini potrebbe, dunque, pensare di farlo anche con altri? Ma forse è solo una questione di nomenclatura.

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