di Valeria Guarniera – Qualcuno lo definisce “il volto umano della Procura” e Stefano Musolino a questa definizione resta fedele con i fatti. Magistrato per vocazione – “Ho trovato in questo lavoro il mio spazio” – vive questa dimensione come servizio alla sua terra. Totalmente immerso nella realtà cittadina – “Se non fosse così, non potrei fare bene il mio lavoro” – conosce le trame di un tessuto sociale in cui è facile prendere la strada sbagliata: “Contesti soffocanti che a volte non danno scelta”.
Davanti a lui persone, non “carte di fascicoli qualunque da togliere prima possibile” e vicende umane, pezzi di storie a cui dare importanza. Richiama al senso di responsabilità – “che la ‘ndrangheta ce la portiamo addosso con i nostri atteggiamenti” – e al recupero delle relazioni di fiducia. Parla di speranza, che sembra ormai persa, da alimentare con la voglia di esserci per la propria città, senza alibi – “Colpa del politico corrotto, dell’imprenditore colluso” – andando oltre il proprio microcosmo, “quello dietro la porta, nell’appartamento perfetto all’interno, con i mattoni a vista fuori”. Il senso del bene comune – dice sorridendo – bisognerebbe ripartire da lì…
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Ciò che siamo lo dobbiamo a ciò che abbiamo vissuto. Suo padre – Michele Musolino, indipendente di sinistra, sindaco dimissionario perché incapace di scendere a patti e ostinato ad essere “fuori dal sistema”, mentre sul finire degli anni ’80 la città contava i morti di una terribile guerra di mafia – le ha fatto respirare in casa sin da ragazzo un’aria pulita, densa di impegno e legalità. Lei era un giovane studente, come ha vissuto l’impegno e le vicende legate alla vita politica di suo padre?
Ero molto giovane, inizialmente io ho vissuto l’esperienza di mio padre in termini oppositivi, rispetto alla città. Quando è morto avevo 21 anni, stavo per finire l’università. Un po’ la mia attitudine di allora a fare altro (ero attratto dall’economia e dalla finanza) un po’ la rabbia – una rabbia irrazionale – per quella che era stata l’esperienza di mio padre, pensavo che non valesse la pena sacrificarsi per questa città. Avevo vissuto l’esperienza di mio padre come una sorta di sacrificio, come se avesse dedicato gli ultimi anni della sua vita a questa città, per tentare di cambiare qualche cosa. Lo aveva fatto probabilmente sbagliando in alcune circostanze il metodo (su questo avevo le idee chiare già allora), in una situazione che lui percepiva disastrosa sul piano del rispetto delle regole e della tutela degli interessi pubblici. Non era un discorso puramente formale di rispetto delle regole, ma la sacralità del bene pubblico, della tutela dell’ interesse di tutti che veniva calpestato a favore di pretese individuali o di gruppi di potere: il modo in cui lui aveva reagito a tutto questo è stato secondo me a volte sopra le righe e perciò inefficace. La sensazione finale era una sensazione complessivamente di sconfitta, una sorta di sacrificio inutile. Avevo vissuto personalmente alcuni suoi momenti molto difficili. Perciò nutrivo rabbia e ciò mi proiettava fuori, a fare tutt’altro.
Cosa ricorda di quegli anni?
Ricordo la passione e l’impegno. C’è un episodio – ma è solamente uno dei tanti – che è proprio sintomatico della passione che ci metteva, di quanto mettesse tutto se stesso e credesse nella possibilità di un’esperienza rivoluzionaria di metodo e sistema. Accadde che lui seppe che quel giorno non vi sarebbe stata la raccolta dell’immondizia perché gli avevano comunicato che i camion non potevano raggiungere la strada in una serata di grande pioggia. Lui andò a verificare questa cosa, arrivò con la macchina di un suo amico e quindi riconvocò tutti in piena notte, gli fece fare la raccolta e poi li condusse tutti fino alla discarica. Arrivò a casa all’alba e poco dopo le 7 bussò alla porta un signore di Arghillà che lamentava la chiusura della strada e le difficoltà a muoversi. Lui, inizialmente un po’ scocciato – dopo la nottata che aveva passato – si mise subito a disposizione e andò con lui a verificare la situazione, provando a trovare una soluzione. Ecco, questa sua disponibilità appassionata… è la cosa che maggiormente ricordo.
Voleva andare via, poi ha deciso di restare. Avvocato che poi ha deciso di entrare in magistratura. Quale la molla o gli ideali che l’hanno spinta?
Sono diventato avvocato, sono stato per tantissimo tempo “il figlio di…” e questa cosa mi apriva le porte, era una sorta di garanzia che mi faceva andare avanti. Ho fatto l’avvocato a Reggio per un paio di anni, con maestri molto bravi. La scelta di diventare magistrato era precedente.
A seguito di un’esperienza particolare che ho maturato con i Gesuiti. Era un momento particolare della mia vita. Mi ero reso conto che avevo affidato a mio padre molte delle chiavi del mio futuro… cercavo nuove guide, trovavo risposte nelle canzoni di Giorgio Gaber. Nell’ambito di questa costruzione della mia persona ad un certo punto – per una combinazione particolare legata alla tesi che stavo facendo – scoprii la presenza dei Gesuiti a Reggio Calabria. Vincenzo Silvirio allora era il padre Superiore: persona speciale e di grande spessore. Da ateo – almeno in quel momento – decisi di partecipare a un campo di preghiera e lavoro. E lì – mentre cercavo cosa fare e cosa essere – ho percepito la necessità di stare a Reggio. A quel punto la domanda era: “Ok, resto. Ma che cosa faccio?” e – per gli studi e le competenze che avevo – trovai nella magistratura il mio spazio.
Un mestiere, il suo, che la porta a esercitare quello che Montesquieu definiva “un potere orribile”, quello dell’uomo che decide sulla libertà di un altro uomo. Come vive questa dimensione?
Essenzialmente come un servizio, nella consapevolezza che abbiamo un potere straordinariamente forte e dobbiamo saperlo esercitare, avendo la contezza della nostra fragilità personale, della nostra limitatezza umana. Il processo è un luogo in cui si indaga su un pezzetto di storia di una persona, si prova a capire se quel fatto è veramente verificato, senza grandi eroismi o ricostruzioni enfatiche. Non servono. Bisogna avere una grande e speciale attenzione per le parti deboli del processo, per la tutela dei diritti dei più deboli. Su questo Carlo Verardi è stato un maestro, perché troppo spesso abbiamo la tentazione di curare con meno attenzione i diritti dei più deboli, che rischiano di passarci come carte di fascicoli qualunque da togliere prima possibile, senza cogliere veramente cosa c’è nell’essenza di quella vicenda. Soprattutto quando la parte è debole.
La funzione rieducativa della pena è sancita dalla Costituzione. Ma – le chiedo – è sempre possibile? E nello specifico, avviene realmente?
A volte si, a volte no. Intanto, perché funzioni ci vuole una convinta partecipazione e adesione del detenuto, disposto a fare una autentica rivisitazione di alcune sue scelte e si proponga – attraverso l’esperienza carceraria – in maniera da ristrutturarsi dentro, in vista di una vita fuori che possa partire da altri presupposti, eliminando gli elementi che lo hanno portato a delinquere. Questa è la base. Poi c’è il sistema. E il nostro è un sistema che non sempre funziona. Inutile cadere nel finto buonismo: il carcere deve avere un effetto neutralizzante di un soggetto pericoloso, lo die la Costituzione. Quindi c’è un accertamento di pericolosità di un soggetto che deve essere neutralizzato. Questo in parte funziona, con l’alta sicurezza. Anche se spesso l’alta sicurezza sta in condizioni vergognose. Ma le strutture carcerarie – proprio per come sono costruite e per le mancanza di spazi autenticamente funzionali a garantire possibilità di nuova socializzazione – mancano, e sono fondamentali per un percorso rieducativo. Per come è pensato oggi il diritto penale, il carcere – ad esclusione dei soggetti che sono detenuti per appartenenza alla criminalità organizzata – è il luogo dove viene reclusa tutta la marginalità sociale. Nel processo penale – lo ha detto benissimo Alfredo Sicuro, oggi Presidente di sezione alla Corte d’Appello di Messina – ci sono tre binari. C’è quello della criminalità organizzata, che in qualche maniera va avanti; poi c’è il binario della criminalità da marginalità sociale, che funziona perché li arresti, fai la direttissima e gli fai il processo subito; poi c’è tutto il resto, il diritto penale che è fuori da questi schemi, che resta lì bloccato su un binario morto e non si muove mai. La questione della pena implica una valutazione complessiva di che cosa è il processo, di qual è l’obiettivo che uno Stato democratico oggi si deve porre, in relazione al problema della delinquenza e della criminalità a 360° che, purtroppo, non si ha voglia di affrontare.
Un magistrato non sganciato dalla realtà, che non si astrae dal territorio e cerca di comprenderne dinamiche e difficoltà: come ci si muove su un territorio dove è facile essere contaminati?
Questo è un lavoro che ognuno può fare in molti modi. Il fatto di essere un magistrato reggino può essere una grande risorsa, perché noi siamo un popolo molto particolare. Perciò una prossimità del magistrato alla sua terra e al suo popolo secondo me è una buonissima qualità. Però siamo anche un popolo abituato a relazioni molto vischiose, nebulose, intrise di modalità essenzialmente di scambio. Tutto questo mi ha fatto incontrare molte difficoltà all’inizio. Adele Cambria diceva che secondo lei il reggino del futuro deve essere un viaggiatore. Io ne sono convinto. Dopo aver vinto il concorso – volevo costruire il mio abito di magistrato su basi nuove – ho deciso di fare il mio tirocinio fuori, al tribunale di Bologna dove c’era Carlo Verardi, uno dei più grandi magistrati reggini che ci sia mai stato, figura assolutamente straordinaria e affascinante. Un’esperienza che mi insegnò molto, perché il magistrato a Bologna è – nella percezione sociale – un funzionario pubblico qualunque. Lì ho avuto la possibilità di ritagliarmi il mio abito professionale e di avere una educazione a questo lavoro.
Nascere in certi contesti non è certo una scelta. Decidere di allontanarsi lo può essere, anche se le resistenze sono tante. Da giovane ha giocato a pallone con tante persone poi finite in carcere perchè organiche alla ‘ndrangheta, ha conosciuto dinamiche e situazioni differenti. In questa sorta di doppio binario, cosa porta a scegliere una strada o l’altra?
Molto dipende dal posto da cui vieni, dalle frequentazioni che hai, dalle persone che per un sacco di ragioni diventano il tuo punto di riferimento. La ‘ndrangheta è prima di tutto un fenomeno culturale. Io credo che un sacco di ragazzi che io ho conosciuto prima e che poi sono finiti in questi contesti son persone – e lo posso dire proprio per aver conosciuto da vicino – che avrebbero potuto fare altro nella vita, ma sono state risucchiate da un vortice che non gli ha dato altra scelta. Non è facile, se non hai dei punti di riferimento importanti. C’è gente che aveva e che ha delle straordinarie qualità personali, che potrebbe fare un sacco di cose bellissime, se non fosse dentro questi contesti. Che alla fine sono contesti soffocanti che, una volta che sei dentro, difficilmente riesci ad abbandonare. Perché devi avere una qualità personale tale che ti consente di riciclarti come persona, rinnegare chi sei stato fino a quel momento, per ripartire. Non è una cosa facile.
In questo senso è importante il lavoro che il Tribunale dei Minori di Reggio sta portando avanti per offrire ai figli dei mafiosi un’alternativa. Si parla di decadenza o limitazione della potestà genitoriale. Qual è il suo approccio?
Io sono tra quelli che si sono opposti ad una riunificazione del Tribunale minorile: una riorganizzazione che avrebbe portato ad uno scioglimento, sostanzialmente. E’ un ambito importantissimo che non può essere paragonato o messo insieme a nessun altro, proprio per l’importanza e la delicatezza delle questioni affrontate. Ritengo che ci sia una specializzazione che va assolutamente rispettata. Ho uno straordinario rispetto professionale e personale per il lavoro che si fa alla Procura dei Minori e per le istanze che i colleghi stanno portando avanti. Per questo – proprio perché non è materia di cui mi occupo – ne parlo da profano, da semplice cittadino, non da magistrato: lì ci sono dinamiche delicate che io non conosco. Credo che sia una strada emergenziale che perciò può avere una durata limitata: non può essere la soluzione. Bisogna intervenire nel tessuto culturale di una società, oltre la repressione o l’allontanamento.
Cosa non facile. La ‘ndrangheta una piaga che affligge questa terra e il tessuto sociale ne è impregnata. Allora, da un lato c’è il consenso sociale di cui si nutre: “Sono forti le difficoltà che abbiamo – ha detto – perché siamo immersi in quella che è una cultura essenzialmente mafiosa di cui facciamo fatica a liberarci”…
Bisogna cominciare a prendere sul serio quello che tanti di noi dicono da tempo: non può essere la magistratura la soluzione del problema. Noi facciamo repressione. Lo dico sempre ai ragazzi: se non cessa la domanda di illegalità – che è diffusa, è sociale e sta alla base dell’offerta di illegalità che la ‘ndrangheta è ben capace di dare – non faremo passi in avanti e non andremo da nessuna parte. Da noi c’è una domanda diffusa di illegalità, ed è una delle cose che ci distingue in maniera più evidente dalla società siciliana e da quello che ha vissuto la Sicilia in determinati momenti. Se tutto questo non finisce, noi ne possiamo arrestare anche mille, ma non cambia nulla, perché altri mille ce ne saranno. Allora, o andiamo ad affrontare questo nodo – che è un nodo sociale su cui bisogna assolutamente intervenire – oppure è inutile parlarne. Avremmo bisogno di un grande investimento culturale che porti anche ad andare fuori, per non rimanere ingabbiati nel nostro provincialismo. Qui si tende a normalizzare, a pensare che questo microcosmo sia l’unico possibile e si impara a ritenere gli assurdi comportamenti dei giovani rampolli delle famiglie di ‘ndrangheta – che nulla dovrebbero contare sul piano sociale – come un fatto normale. Ciò è gravissimo, non soltanto per la città. È gravissimo per questi ragazzi, perché alla fine noi stiamo creando le condizioni per cui questi “fessacchiotti” finiscano in carcere, con pene serie.
… dall’altro quel senso di sfiducia atavico che porta a pensare che sia un male impossibile da estirpare. Lei stesso cita spesso Falcone: “Non bisogna mitizzare la mafia, dobbiamo comprenderla per quella che è: un fenomeno umano…”
Io lo dico da reggino ai reggini, perciò con una capacità di percezione di alcune cose molto intensa: noi stiamo sopravvalutando queste persone. La loro capacità di sviluppare un’intimidazione che generi assoggettamento e omertà è fondata sulla nostra pregiudiziale paura, a volte anche infondata. Sono molto meno pericolosi e molto più “fessacchiotti” di quello che ci immaginiamo. Ed è pericoloso, perché è una percezione che poi diventa attesa sociale, significa attribuire loro quel ruolo ed aspettarsi che si comportino di conseguenza. Che un’intera città – gran parte, quantomeno – pensi ancora che se parla De Stefano, Condello, Libri dobbiamo stare tutti zitti, è assurdo oltre che sbagliato.
Spesso parla della necessità di riabilitare relazioni di fiducia. Lo ha detto lei stesso: “Questa è l’essenza culturale fondante il sistema mafioso: la rottura dei vincoli di fiducia relazionali che fanno forti una società”
La ‘ndrangheta si nutre proprio di questo: rompe le relazioni, ne crea altre alimentando la convinzione che l’unico soggetto in grado di garantire diritti sia questo contropotere sociale, alternativo a quello precostituito che si ritiene – e chiaramente non lo è – più efficiente e quindi più affidabile. Però per farlo deve rompere le relazioni sociali. Riabilitare queste relazioni di fiducia è fondamentale. Un ruolo negativo, in questo senso, lo ha avuto anche tutto l’apparato istituzionale di contrasto alla ‘ndrangheta perché – per come stiamo provando a dimostrare nel processo Gotha – c’è stata una significativa ambiguità nelle modalità attraverso cui i rappresentanti dello Stato e i rappresentanti della ‘ndrangheta si sono relazionati nel corso del tempo. Dall’epoca dei sequestri, all’epoca della cattura dei grandi latitanti ci sono state tante cose che non hanno funzionato bene, tanti soldi dello Stato affidati a vari personaggi e tutto questo ha generato quel senso di sfiducia. Non può rappresentare un alibi, però capisco che ci sia.
Pensa che ci si nasconda dietro il senso di sfiducia nei confronti delle Istituzioni? E’ davvero un alibi?
Spesso lo è. Siamo abituati a vivere secondo una logica che pone fuori il problema, tendiamo a dire: “E’ colpa del politico corrotto e dell’amministratore colluso”. Eppure abbiamo a disposizione gli strumenti per cambiare le cose. E’ facile: si va alle elezioni, si candidano persone per bene, disposte a mettersi in gioco. La ‘ndrangheta la vinciamo applicando le dinamiche democratiche.
San Luca in questo senso non è stato un bell’esempio: per il secondo anno consecutivo, i cittadini hanno deciso di non presentare liste per le amministrative…
San Luca è un esempio terribile, ci dice che non c’è speranza. Ma se le persone per bene pensano che le cose possono cambiare mentre loro stanno a casa, beh: si sbagliano di grosso. Questa sfiducia che c’è in città è figlia della rassegnazione e del disimpegno. Noi siamo gli artefici del nostro destino. Se la parte buona della città resta immobile, non si mette in gioco, alla fine rappresenta essa stessa il problema. Noi possiamo sequestrare, arrestare: ma gli spazi che liberiamo, chi li riempie? Se poi non c’è un imprenditore buono che prova a farlo, in maniera nuova, in quel settore. Invece no, non ci si mette in gioco: ci si convince che no, non è possibile, che qualcuno prima o poi tanto busserà a quella porta. Noi stiamo aprendo spazi di relazioni e ricevendo risposte importanti da tanti soggetti che per un po’ di tempo sono stati costretti ad una sorta di ambiguità. Io so che fare l’imprenditore a Reggio Calabria è una delle cose più difficili del mondo, perché sei su un crinale in cui hai da una parte la ‘ndrangheta e da una parte lo Stato. E ci sono stati dei momenti in cui ha fatto comodo stare dalla parte sbagliata. Però io vorrei che la città smettesse di considerare questo ufficio una sorta di falciatrice pazza che rade al suolo qualunque cosa e che trova soluzioni a tutto, mentre gli altri stanno seduti. Non lo siamo, non vogliamo esserlo, non è questo il nostro obiettivo strategico. Quello che vorremmo fare è essere un posto in cui la gente si possa liberare, raccontando le cose in verità. Noi poi abbiamo la capacità, la sensibilità per poter trattare tutto, anche la sua “colpevolezza”, senza aggredire le situazioni. Nessuno pensa che l’unica soluzione per far risorgere questa città sia lanciare una bomba atomica, ma bisogna che ognuno faccia la propria parte.
A proposito di responsabilità: “Reggio è una città senza regole, dove gli amministratori spesso abdicano a poteri e funzioni a vantaggio di gruppi di potere; una città economicamente allo sbando, preda di assurde alleanze e manovre tese a destabilizzarne il precario equilibrio”. Parole pronunciate da suo padre 30 fa che suonano tristemente attuali. Reggio è ancora così?
Direi di no. Ho la percezione di una maggiore disgregazione. Mi pare che ci sia una condizione di grande sbandamento collettivo. Credo che ai tempi in cui mio padre pronunciava questa frase, comunque c’erano personaggi di grande qualità, con una grande intelligenza. La qualità media della politica attuale è molto più scadente. Credo che imbrogli se ne siano sempre fatti, ma c’erano persone realmente appassionate. È finita la qualità politica ed è rimasto solo il piccolo cabotaggio. Molta gente fa politica per vivere, come un semplice mestiere, per percepire lo stipendio. Manca la passione. Mio padre diceva: “Io faccio l’avvocato e continuerò a fare l’avvocato perché i soldi per i miei figli devono venire dalla mia professione, il mio futuro deve venire da quello, perché ciò mi rende più libero”. E’ la libertà che manca. E credo che mio padre, ma anche altri politici importanti della città che hanno provato a fare qualcosa di buono, abbia fatto azioni di contrasto alla ‘ndrangheta nella misura in cui ha provato a fare rispettare alcune regole basiche, semplicemente. Per quella generazione la ‘ndrangheta era una sorta di elemento naturale presente nella società di cui non ci si poteva liberare e che bisognava accettare in qualche maniera, provando a svicolare. E però proprio per questo era considerata qualcosa di estraneo, che si subiva. Quello che è completamente cambiato – e a dirlo sono i processi – è che oggi la ‘ndrangheta è dentro. E’ sistema di potere. È parte della classe dirigente. E questo ha avuto una significativa involuzione nel percorso cittadino. Noi abbiamo vissuto momenti terribili nella guerra di mafia, i morti per strada o le bombe erano normalità, chi ha la mia età lo sa. Però un senso di sfiducia come quello che si respira oggi non si è mai avuto. E questo credo dipenda dal fatto che non si vedono prospettive di futuro. Ma non ci sono prospettive di futuro se qualcuno non si prende il carico di fare qualche cosa. Se non ci si riappropria del senso del bene comune, se non si capisce che il mondo non riguarda solo il microcosmo, quello dietro la porta, nell’appartamento perfetto all’interno, con i mattoni a vista fuori. Il senso del bene comune, bisognerebbe ripartire da lì…