di Roberta Mazzuca – Dall’idea delle associazioni “Napoli Monitor” e “Yairaiha Onlus”, nasce la mostra-mercato itinerante “La prigione e la piazza”, un modo alternativo di raccontare il carcere svelandone malfunzionamenti e contraddizioni. Dopo l’intenso e partecipato dibattito svoltosi a Piazza Valdesi, nel cuore storico di Cosenza, la seconda tappa dell’appuntamento calabrese ha preso vita a Rende, presso il Museo del Presente, dove l’attenzione si è principalmente focalizzata sulla relazione tra Covid e carcere. Spostare l’argomento dalla nicchia degli addetti ai lavori l’obiettivo dell’iniziativa, che si propone di riportare sentimenti di umanità ed empatia anche in un territorio minato come quello degli istituti penitenziari.
“Tutta la società guarda al carcere come qualcosa che non ci appartiene” – afferma in apertura Francesca De Carolis, giornalista che da tempo si occupa del tema. “È, invece, importantissimo raccontare storie, fare nomi, cognomi, perché il problema più grosso è proprio l’indifferenza”. Il carcere come luogo di sospensione del diritto tra l’indifferenza generale: così lo descrive De Carolis, mettendo in evidenza come gli eventi verificatisi durante la pandemia abbiano svelato le contraddizioni del sistema carcerario, mostrando come non sia affatto luogo di recupero e rieducazione, bensì di controllo e repressione. “Carcere e Covid” di Sandra Berardi, o “La settimana santa. Potere e violenza nelle carceri italiane” di Luigi Romano sono solo alcuni dei titoli che spiegano come repressione e violenza siano ormai normalità nella vita in prigione.
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“Nulla sarà più come prima” ripetevamo durante la pandemia, stremati e spaventati da un nemico ignoto e impossibile da sconfiggere. Eppure, usciti da quel tunnel di oscurità e morte che pensavamo potesse renderci migliori, cosa è veramente cambiato? Nulla nella sanità, nulla nella società, e nulla nel carcere, che rimane la “discarica sociale” di cui nessuno intende occuparsi. In questo, come fa notare la stessa Francesca De Carolis, un ruolo determinante hanno avuto proprio i mezzi di informazione, che non affrontano mai realmente il tema, o ne costruiscono falsi racconti. In particolare, la giornalista fa riferimento alle morti avvenute nel carcere di Modena, per le quali si è accolta senza batter ciglio la spiegazione dell’overdose: “Sfido chiunque a trovare normale che delle persone, nel mezzo di una battaglia in un posto dove si sa da che parte è la forza, non trovino di meglio da fare che imbottirsi di metadone fino a morire”.
“Ma l’informazione non ha fatto solo questo, ha costruito anche delle notizie falsate che hanno portato poi a delle decisioni politiche non di poco conto” – prosegue. “Mi riferisco alla notizia dei 300 boss che sarebbero usciti grazie al Covid, persone che erano fuori, invece, legittimamente perché gravemente malate. O, ancora, la notizia secondo cui le rivolte sarebbero state manovrate dalla mafia: ebbene, un’indagine interna ha dichiarato che le organizzazioni criminali non c’entrano nulla”. E allora, la riflessione finale è proprio sulla forza e l’importanza delle parole, che sono in grado di mistificare la realtà. “Tutto questo racconta come il carcere, inteso come struttura, è in sé violenza. Il risultato di questa violenza sono tutte le persone che continuano a suicidarsi”.
È notizia di ieri, infatti, quella di un detenuto giunto nella casa circondariale di Crotone, con problemi psichici e che aveva già tentato il suicidio in libertà, impiccatosi al letto della cella nella quale era rinchiuso utilizzando i lacci delle scarpe. L’ennesima vittima di un sistema che, per quanto si possa pensare lontano e a noi estraneo, parla della società di cui facciamo parte, racconta di chi siamo, evidenzia il nostro grado di civiltà e la nostra capacità di diventare speranza e ritrovo per chi si è perso. Ad oggi, il carcere rappresenta un luogo nel quale sbarazzarsi di ciò che ci spaventa, di ciò che ci ferisce, di ciò che non capiamo, indistintamente da gravità di reato, da condizioni psicologiche, da retaggi culturali e motivazioni che affondano le radici in povertà e degrado. Ciò che sempre più spesso siamo portati a pensare è che il carcere non ci riguardi, che sia il giusto luogo dove chiunque, indifferentemente, debba pagare il giusto prezzo. Un caro prezzo, che a volte è la vita stessa. Rieducare alla socialità, al rispetto delle regole, all’umanità stessa, non può passare, allora, attraverso isolamento, disumanizzazione e scarso rispetto dell’essere umano. Un sistema che uccide coloro che lo abitano è esso stesso un sistema malato, di cui tutti sono responsabili. E una morte è pur sempre una morte, e dovrebbe toccare tutti, che essa avvenga nel più degradato dei luoghi o nella maestosità di un palazzo reale. “Mi ha colpito molto la storia di una persona che era dentro per aver rubato un telefonino e un portafoglio che sono poi stati restituiti” – racconta Francesca De Carolis. “Una persona che aveva problemi psichiatrici. Il suicidio è qualcosa prodotto da tanti fattori, ma tutti questi suicidi dimostrano quanta violenza esista in un sistema che soffoca anche la personalità stessa dell’individuo”.
Il Covid nelle carceri raccontato nel libro-denuncia di Sandra Berardi
“In ‘Carcere e Covid’ restituisco sostanzialmente il lavoro che facciamo in associazione che, per quanto piccola, riesce ad essere presente in molte delle carceri d’Italia” – prende poi la parola l’autrice nonché presidente di “Yairaiha Onlus” Sandra Berardi, che continua: “Quello che noi prevalentemente trattiamo sono denunce connesse alla violazione del diritto alla salute. Per fortuna, morti di Covid in carcere non ce ne sono stati tanti, ma grazie al buon senso dei detenuti che, da più di due anni, sono quasi completamente isolati. È come se ci fosse stata un’estensione del 41bis dal minorile al 41bis effettivo”. “Al governo Conte, al ministro Bonafede, di occuparsi di quella fetta di popolazione, a prescindere se fosse condannata o in attesa di giudizio, poco è importato”. Uniche misure previste per il carcere nel primo DPCM, infatti, la chiusura dei colloqui e la sospensione di tutte le attività. In un secondo momento l’aumento delle telefonate.
Il lavoro di Sandra Berardi consta, sostanzialmente, di tre parti: le condizioni carcerarie prima del Covid, un’analisi di quello che è successo con l’ingresso del virus, e quindi lo scoppio delle rivolte, che da Salerno, con l’interruzione dei colloqui, ha provocato un effetto domino in tutte le carceri d’Italia. Fino a Modena, dove la rivolta è stata repressa nella maniera più brutale. 14 i morti del marzo 2020 nelle carceri italiane, di cui 9 solo a Modena, “una strage di Stato” la definisce Sandra: “Non ho mai creduto che queste persone abbiano assaltato l’infermeria, e ci ho creduto ancora meno quando man mano sono state ricostruite le loro storie. Molti di loro non avevano neanche un passato da tossicodipendenti, per cui non avrebbero mai pensato di ingerire metadone tanto da morirne”. Un libro-denuncia, insomma, “per non dimenticare quello che è successo nelle carceri a partire dai giorni delle rivolte, i motivi che le hanno prodotte, l’inaccettabile trattamento subito spesso dai detenuti”. Un testo che evidenzia come l’emergenza Covid abbia fatto esplodere le contraddizioni delle condizioni che vivono i detenuti, ma anche come ancora una volta, tranne che per poche eccezioni, l’informazione abbia subito steso un velo su quanto accaduto.
“La disattenzione sociale verso quello che è il pianeta carcere ci ha colti totalmente impreparati. Non giriamoci dall’altra parte” – conclude Sandra, aggiungendo qualche parola in merito all’operazione “Reset”, che ha colpito anche il sindaco di Rende Marcello Manna: “Ho letto un po’ di nomi che stanno in questa inchiesta. Se è vero o non è vero non lo so, se Manna è colpevole o innocente lo stabilirà la magistratura. Però ho letto tanti nomi, e alcuni di questi li conosco da quando erano ragazzini, e penso che su di loro penda una spada di Damocle, che può essere il cognome che portano. Sono persone che si stavano rifacendo una vita, e sulle quali metterei la mano sul fuoco sulla loro innocenza”.
Un argomento su cui andare cauti, perché diversa è la criminalità esercitata da qualcuno con problemi psichiatrici o proveniente da situazioni socio-economiche disagiate, rispetto a quella di una vera e propria organizzazione mafiosa quale è la ‘ndrangheta, vero e proprio virus che, ancor prima della pandemia e più di essa, distrugge vite e diffonde terrore, rappresentando da sempre una delle più grandi piaghe del nostro territorio. Le indagini faranno il proprio corso, chiarendo colpe e discolpe. Certo è che, sull’argomento, ascoltare la vicinanza di amministrazioni e soggetti istituzionali che, anche in queste settimane, hanno manifestato accorata solidarietà agli indagati, certi (non si sa secondo quali prove) della loro innocenza, fa un po’ accapponare la pelle, accentuando quel senso di paura e di totale sfiducia nella giustizia che associazioni come quella di Sandra tentano costantemente di eliminare. Non si può essere certi della loro colpevolezza, così come, però, rispetto a certi temi, non si può essere certi della loro innocenza. E allora, essere solidali con chi è presumibilmente coinvolto con quella “peste calabrese” che è la mafia, mette in evidenza una mentalità, invece, troppo poco attenta al fenomeno, troppo superficiale rispetto al fenomeno, troppo indifferente rispetto alla gravità del fenomeno.
“Fogli dal carcere” di Nicoletta Dosio: il corpo come denuncia alla repressione del movimento No Tav
“Fogli dal carcere. Il diario della prigionia di una militante No Tav” di Nicoletta Dosio nasce, invece, dentro il percorso delle lotte valsusine, spiega Domenico Bilotti, contro il progetto dell’Alta Velocità. “Nicoletta rinuncia alle misure alternative e va in carcere. Il suo corpo è la più grande denuncia possibile alla repressione del movimento No Tav. Ci insegna, ci fa vedere, ci mostra, ci fotografa, il carcere del corpo rimosso, mutilato, nascosto. Il carcere degli anziani, il carcere delle donne”. In collegamento anche la stessa Nicoletta Dosio, che mette ancora in evidenza “l’invivibilità del carcere, non solo come luogo degradato, ma come istituzione. I suicidi sono un modo per i detenuti di liberarsi, e sono il segno di una grande desolazione. Che il carcere non sia un luogo dove è possibile migliorare, dovrebbe essere chiaro a tutti. È, invece, una discarica sociale dove vengono rinchiusi i più poveri”.
“Se i politici portano avanti un silenzio colpevole rispetto al carcere” – prosegue Nicoletta – è anche perché la parte della società, che magari è fatta anch’essa di poveri, dovrebbe insorgere contro l’ingiustizia, dovrebbe sentire sulla propria guancia lo schiaffo dato a chiunque da qualsiasi parte del mondo. E questo, purtroppo, non sta avvenendo”. E si propone, infine, un’alternativa al carcere, rappresentata dalla giustizia sociale, “che non è veramente tale se continueranno ad esserci luoghi di dolore, di sofferenza profonda, se continuerà ad esserci il 41bis, l’ergastolo ostativo. Insegnare ad essere liberi non può che passare attraverso la libertà” – conclude.
I morti di Modena e Santa Maria Capua Vetere
In rappresentanza di “Napoli Monitor”, Riccardo Rosa racconta il lavoro portato avanti dall’associazione. Nel 2020, la pubblicazione del libro di Luigi Romano “La settimana santa”, che si concentra sugli eventi verificatisi a Santa Maria Capua Vetere: “Il libro è arrivato dopo un lavoro d’inchiesta fatto durante i giorni di lockdown. Abbiamo dato vita a una sorta di aggiornamento permanente rispetto a quanto stava accadendo. Dalle carceri di tutta Italia arrivavano notizie sconcertanti, e c’era una confusione e una sproporzione tra forza delle rivolte e forza delle repressioni da parte della polizia. Attraverso questo racconto, siamo riusciti a lavorare insieme a una serie di realtà in Italia e a costruire un collegamento che, in quel momento, si è rivelato una rete di diffusione di notizie abbastanza efficace”.
Poi, la collaborazione con il Comitato verità e giustizia sui morti del S. Anna di Modena, che ha prodotto due dossier. Siamo all’8 marzo del 2020, la pandemia da Covid-19 è ancora sconosciuta e mette paura. Siamo alla vigilia del primo lockdown nazionale con il DPCM del 9 marzo 2020 firmato da Giuseppe Conte che stabilisce una sorta di serrata del paese. Nelle carceri di tutta Italia scoppiano rivolte legate soprattutto alla paura dei contagi e alla decisione di sospendere i colloqui con i familiari a tempo indeterminato. Solamente nel carcere Sant’Anna di Modena, alla fine di quelle giornate, si conteranno 9 morti, 13 in tutta Italia, uno a Bologna e tre a Rieti. “È la più grave strage carceraria italiana dal dopoguerra, un fatto che non avrà paragoni in nessun’altro paese europeo. Morti di cui non parlerà nessuno. Tredici morti che peseranno come piume in un paese che, fin dalle prime ore, si era affrettato a smacchiarsi la coscienza parlando di overdose di metadone. ‘Perlopiù per overdose di metadone’ le poche parole esatte a loro dedicate in parlamento dall’allora ministro della giustizia Alfonso Bonafede”.
La parola poi all’avvocato del foro di Benevento e presidente di “Antigone Campania” Luigi Romano, che racconta della “mattanza di Santa Maria Capua Vetere”: “A differenza di altri processi, questo ha una schizofrenia interna, cioè qualcosa che non avviene altrove, che è il ruolo della magistratura di sorveglianza. Una magistratura molto silente, contigua ai poteri che sono più strutturati all’interno di quel mondo, che sono quelli della polizia penitenziaria. Strutturati perché nel tempo sono stati avvicinati in un luogo istituzionale, che è il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, e costruiscono le linee politiche della gestione quotidiana del carcere. Hanno dei luoghi di condivisione ed elaborazione delle linee politiche, che sono i sindacati, referenti principali dal ‘92 in poi di questo luogo istituzionale che è il Dipartimento”. La magistratura di sorveglianza, insomma, assorbita da questo potere. “Il carcere si fonda sulla violenza, produce dolore ed è fatto per produrre dolore” – continua ancora Romano. “Il dolore lo si può produrre in molti modi ma, quando i numeri sono così massicci, l’equilibrio del penitenziario lo si può ottenere solo con la violenza”. E allora, ciò su cui pone l’attenzione l’avvocato, è un problema fondamentale che produce questa quotidianità, ossia il funzionamento dei corpi di polizia, che si basa sugli arresti. Un elemento non di scarsa rilevanza, perché è da lì che hanno vita gli scatti di carriera, ed è lì che, quindi, che il sistema si inceppa. “Questo la dice lunga sul funzionamento della macchina, perché io più arresto, più riesco ad andare avanti. E la dice lunga anche sulla pressione che gli uffici delle forze dell’ordine fanno sulle Procure, perché chiaramente se un commissariato non arresta tanto, non può avere degli scatti di carriera o dei riavvicinamenti”. Un aspetto interessante, scarsamente considerato, e che invece rende molto più chiare le dinamiche all’interno del quale il “mondo carcere” si inserisce.
“Noi abbiamo su carta un sistema democratico che è partorito dalla Resistenza, chiaramente. Gli equilibri costituzionali sono completamente ribaltati, perché è chiaro che magistratura e polizia adesso devono contenere un mondo molto più difficile da contenere, per le molteplici tensioni. E Santa Maria Capua Vetere racconta questo, come ad un certo punto si debba compiere una spedizione punitiva per ristabilire l’ordine interno e recuperare il regime a celle chiuse, molto più facile da controllare sotto il profilo quotidiano”. Ci dice molto, insomma, sull’esplosione del nostro ordine pubblico interno alle carceri, ma ci racconta anche molto del funzionamento dei corpi di polizia. Il nostro ordinamento penitenziario, nel 1985, aveva 25.000 detenuti, spiega ancora Romano. Negli anni ‘90 cambia però l’approccio verso la tossicodipendenza, che prima veniva gestita all’interno dei circuiti comunitari. “Quando è stato disincentivato l’intervento sanitario sulla tossicodipendenza, ed è stato invece incentivato quello penale, da 25.000 detenuti il sistema penitenziario è passato a 45.000. Il che significa che dobbiamo discutere su cosa vogliamo dal carcere, perché attualmente è abbastanza chiaro che il carcere serve solo ad una cosa, al controllo della povertà. È il più grande investimento dello Stato per il controllo della povertà e della marginalità”.
Il teatro nel carcere e il ruolo del “prigioniero”
In conclusione un’interessante parentesi sul teatro nelle carceri, messa in campo dalla sociologa e operatrice teatrale Anna Pisciotta con il suo “Reinterpretare la reclusione dopo il Covid”. Un campo di studi sul carcere frammentato, “un arcipelago difficile da catturare nella sua interezza”, descrive innanzitutto, mettendo in evidenza anche la diversità di trattamento a seconda delle carceri: “Quando parliamo dello Stato che emana leggi per garantire il diritto all’uguaglianza su tutto il territorio nazionale, ecco, sappiamo che il carcere presenta questo primo grosso problema di diseguaglianza”. Lo scoppio della pandemia ha acuito ovviamente queste criticità: il problema della condizione igienico-sanitaria, la sospensione di tutti i micro-contatti con il mondo esterno, un”isolamento nell’isolamento, una prigione nella prigione, una marginalizzazione nella marginalizzazione”. Tra l’8 e il 9 marzo 2020, su 190 istituti presenti in Italia, in ben 49 strutture scoppiavano le rivolte. E le forze di polizia si sono trovate a reprimerle con un sottodimensionamento di 5.000 unità rispetto a quelle previste per legge. Il problema poi di sovrappopolamento di 10.000 unità di detenuti. Il Covid ha portato pro e contro, con misure alternative alla carcerazione, e la riduzione del sovraffollamento dei detenuti di ben 8.000 unità.
Dal punto di vista della questione rieducativa, Anna Pisciotta evidenzia come la routinizzazione di ogni aspetto della vita quotidiana riducano l’essere umano ad un unico ruolo possibile all’interno della prigione, che è quello di prigioniero. Come si può rieducarli alla socialità attraverso l’isolamento? Come si può rieducarli alla pluralità dei ruoli nella società quando li si condanna ad un’identità unica e spersonalizzante?
Non esiste, riguardo all’attività teatrale in carcere, che spesso non viene neanche retribuita, un quadro normativo chiaro, delle linee guida, una regolamentazione. “A volte diventa semplicemente un momento performativo, lo spettacolino di fine anno, e poi nulla. E per i detenuti questo è un trauma nel trauma, perché li priva di una relazione faticosamente costruita con gli operatori teatrali”.
A terminare questo, ancora una volta, illuminante dibattito, un reading di poesie di Sante Notarnicola e Giovanni Farina da parte dell’associazione “Teatro idee movimento” che ha lavorato nel carcere femminile di Castrovillari, e un reading di testimonianze inedite dei detenuti di Rossano della compagnia “Emergenti Visioni” di Anna Pisciotta, messe in scena da Francesco La Rocca e Lorenzo Cristiano.
“Fatti pochi passi, arrivo subito al muro e devo girarmi, ieri mi hanno comunicato che sto per avere il primo colloquio con i miei genitori. Sono impaziente di vederli, ma anche tanto agitato. Aspetto già da un po’, e ancora non mi hanno chiamato. Sarà successo qualcosa, non posso fare altro che aspettare. Per distrarmi guardo le varie forme che ha assunto il muschio sul muro. Da quando mi hanno informato della visita dei miei genitori non ho visto assolutamente nessuno. Per far passare il tempo conto le tacche che ho fatto giorno dopo giorno sul muro. So bene quante sono, ma ripetere il conteggio mi riempie di orgoglio. Sono 108 tacche, 108 giorni di isolamento. Al momento giusto si presentò un poliziotto: “non aspettare più, il colloquio è stato annullato…”.