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A Cosenza “La prigione e la piazza”: torture, violenze e diritti negati raccontati nella tappa calabrese della mostra-mercato itinerante sul carcere

di Roberta Mazzuca – Un tema impegnativo, forte, scomodo. Un tema di cui si parla troppo poco spesso, di cui ci si dimentica, relegandolo a materia a noi estranea e lontana. Un tema che suscita paura, sgomento, a volte rifiuto. Un tema entrato prepotentemente nella nostra vita quotidiana allo scoppio del covid, e poi ripiombato nell’ombra. Un tema che le associazioni “Napoli Monitor” e “Yairaiha Onlus” hanno coraggiosamente portato nelle piazze italiane, partendo da Napoli, fino a Bari, passando per Roma e Pitigliano, ed arrivando, nella settimana appena trascorsa, nelle città di Cosenza e Rende, per sollevare l’attenzione sull’inefficacia del sistema carcerario italiano e la violenza che lo contraddistingue.

“La prigione e la piazza” il nome della lodevole iniziativa: una mostra-mercato itinerante di libri da e sul carcere. Parole, narrazioni, interventi, dossier, denunce, aventi come oggetto il tema della prigionia, portati tra la gente, nelle piazze, per suscitare una riflessione e una sensibilizzazione rispetto a un argomento “che potrebbe e dovrebbe toccare tutti noi”. Il carcere inteso come il più estremo dei luoghi estremi, “un’istituzione totale all’interno della quale le persone vengono ricollocate in quanto socialmente indesiderate”. Al centro del dibattito, poi, anche i centri per il rimpatrio, altro “buco nero” di cui poco si parla e poco si sa. Un insieme di tematiche, insomma, tutte legate ai diritti, alla libertà, soprattutto alla civiltà: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” – diceva Voltaire.

Presente alla piazza tematica del 13 settembre anche il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, per la presentazione del suo libro “Carcere” in cui racconta la difficile realtà della detenzione.

“Cos’è il carcere”: la “discarica sociale” dove buttare dentro un po’ di tutto

Un mondo fatto di mortificazioni, violenze, torture, violazioni di diritti, si racconta in Piazza Valdesi a Cosenza, nell’incontro denominato “Cos’è il carcere”. Ciò che viene fuori è, non troppo incredibilmente, l’immagine di una “discarica sociale dove buttare dentro un po’ di tutto”. Un luogo inaccessibile ed ignoto che si pensa non appartenga alla comunità dei “normali”, ma che rappresenta, invece, lo specchio più devastante e devastato della società in cui viviamo.

“L’obiettivo di questa scommessa è di portare all’attenzione la questione carceraria, intesa anche come CPT (Centri di Permanenza Temporanea). Anche quelli sono luoghi di privazione della libertà, se vogliamo, più aberranti del carcere perché non c’è a monte un reato vero e proprio” – esordisce Sandra Berardi, presidente dell’associazione “Yairaiha”, da tempo impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti. “Il carcere è un argomento di nicchia, non interessa tutti, ma noi abbiamo voluto scommettere portandolo fuori dall’ambito degli addetti ai lavori, per cercare di rompere quel muro di giustizialismo che vedo sempre più difficile rompere”.
“Speriamo che di carcere se ne parli” – continua – “non perché dobbiamo diventare come i Testimoni di Geova andando a bussare porta per porta, ma perché ogni tanto, nella nostra solitudine, come associazione o come persone interessate al destino di chi sta chiuso all’interno delle patrie galere, ci sentiamo un po’ come i Testimoni di Geova. Il carcere non è un luogo dove rinchiudere le persone e dimenticarsene, perché quelle persone sono parte del tessuto sociale, e dal carcere usciranno sicuramente peggiori”. “Se noi ce ne dimentichiamo”, – conclude la presidente – “oltre alla privazione della libertà, credo che ci restituiranno in qualche modo anche una forma di astio e di odio per l’indifferenza che abbiamo dimostrato loro. Non sono casi, sono persone in carne e ossa, che oggi stanno lì e domani ritorneranno insieme a noi, e dovremmo cercare di costruire una rete di società pronta ad accoglierli. Per un mondo senza galere”.

Difficile dire se concordare o meno con la frase di chiusura. Un mondo senza galere è, forse, auspicabile, ma impensabile, un’utopia che spaventa non poco se non accompagnata da un valido sistema alternativo. In una società ancora fortemente devastata dal fenomeno sempre presente delle mafie che, per prime, della dignità, della libertà e, spesso, della vita privano l’essere umano, terrorizza pensare di dover lasciar loro la libertà di restare impuniti.

Certo è, però, che il sistema carcerario, così com’è oggi, e così come evidenziato con grande sensibilità dalle diverse personalità intervenute nel corso del dibattito, presenta sicuramente delle problematiche di non poco conto. Certo è che gli individui che occupano quei luoghi e che dovrebbero godere del diritto ad essere rieducati e reimmessi nella società migliori e con migliori consapevolezze, ne escono nella maggior parte dei casi devastati e peggiori, pronti a tornare alla stessa vita che avevano lasciato. Certo è che l’isolamento, la reclusione totale, la mancanza di ogni diritto e ogni identità, non privano soltanto loro della propria umanità, ma privano anche tutti noi della nostra. Certo è che affrontare il tema e ripensare al sistema del carcere come qualcosa che ci rappresenta piuttosto che qualcosa estraneo da noi, sarebbe non solo auspicabile, ma estremamente necessario. “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”, diceva il padre della non violenza Mahatma Gandhi. E allora, forse, se qualcuno ci fa sentire impauriti, non al sicuro, minacciati, privati della libertà di poter vivere serenamente le nostre giornate, restituirgli quella stessa paura, quello stesso smarrimento, anzi amplificarlo fino a renderlo tortura e privazione di ogni umanità, è davvero la strada giusta da percorrere?

In queste riflessioni ci si è ritrovati a navigare durante il lungo ed illuminante dibattito, che ha preso il via con l’intervento di suor Nicoletta Vessoni e il suo libro “Fasciati dalla luce. Storie dal carcere”: “Il carcere non contiene solo detenuti. C’è il corpo di polizia penitenziaria, gli impiegati, i volontari, gli insegnanti, c’è tutto un mondo. ‘Fasciati dalla luce’ è stato il motivo che mi è venuto a cuore pensando ai detenuti della pandemia, e il mio libro nasce proprio in quel periodo, chiedendo ai detenuti di esprimere cosa pensassero della loro esperienza in carcere. La loro risposta mi ha molto stupito, ed è qui che nasce la storia del ‘nostro’ libro”. La voce dei volontari, della direttrice, dei detenuti, del cappellano, e di suor Nicoletta stessa, che raccontano di un “mondo dentro” e “un mondo fuori” nella casa circondariale di Catanzaro. Un mondo dentro come piccola città, la popolazione carceraria stessa; un mondo fuori dal contesto urbano, come se la società non volesse guardare in quella direzione. Il carcere, dunque, come luogo irraggiungibile, pesante, “una discarica dove buttare dentro un po’ di tutto”.

“Un universo di acciaio e di cemento. Vita quotidiana nell’istituzione totale carceraria” di William Frediani, che ha vissuto sulla propria pelle la carcerazione (arrestato nel 2004 per propaganda sovversiva e condannato nel 2009 per associazione eversiva) racconta, invece, i processi di disculturazione e di perdita di identità a cui i prigionieri vengono sottoposti. Un insieme di dispositivi mortificanti e infantilizzanti che mirano a raggiungere la docilità della massa incarcerata. “La visione che ha il detenuto della realtà è che vive in una torsione dello spazio e del tempo, che è già quella una forma di violenza e di tortura” – afferma Frediani. “Una forma di tortura accettata e giusta all’interno del penitenziario. Questa torsione dello spazio-tempo è, però, un annullamento dell’individuo, perché la persona non è più in grado di decidere sul proprio quotidiano, e da qui l’infantilizzazione”.

Il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: “Una società che mette in carcere un quattordicenne o un quindicenne è una società malata che sta giudicando se stessa”

A dialogare con Samuele Ciambriello l’avvocato Alessandra Adamo che, dopo aver portato i saluti del presidente della Camera Penale bruzia Roberto Le Pere, afferma: “Parlare continuamente di carcere è necessario, perché è una realtà che tocca tutti quanti. Se la funzione della pena è quella di rieducare, come l’educazione dei giovani è una necessità per tutta la popolazione, così lo è la rieducazione carceraria. Quando pensiamo ad educare un figlio, pensiamo che debba stare in un ambiente salubre, all’aria aperta, e allora dico: se nel carcere il confronto è annientato, la salubrità è annientata, la dignità umana è sgretolata, questo non è un problema di tutti?”.

“Ringrazio Sandra Berardi, che fa questi dibattiti nelle piazze di Napoli e non mi invita, però mi fa fare l’extracomunitario qui” – esordisce simpaticamente Ciambriello, per poi farsi subito serio. “Senza voler fare nessuna battaglia ideologica sul carcere, io vorrei continuare a battermi con i giustizialisti, con l’ex ‘ministro dell’inferno’, su questo luogo del carcere. Se non ci fossero state quelle immagini di Santa Maria Capua Vetere, il 70% degli italiani era per la pena di morte, di che parliamo? Qualcosa si è incrinato”.

“Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare se stessi, rispettando i diritti delle persone”. È questo lo slogan di Samuele Ciambriello, giornalista, scrittore, professore, attivamente impegnato da quarant’anni nella lotta per i diritti delle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale. Il suo libro “Carcere, idee, proposte e riflessioni” nasce dall’esigenza di trattare del complesso sistema penitenziario, ma soprattutto delle esperienze di vita vissuta in esso annidate, di diritti negati, di affettività, attraverso attività di monitoraggio, osservazioni, colloqui, sopralluoghi, progetti. Il tutto rifacendosi all’art. 27 della Costituzione, che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

“Ma dopo vent’anni da Genova, che cosa è successo in Italia?” – tuona Ciambriello nella piazza bruzia. “Negli ultimi vent’anni 25.000 cittadini italiani, anche calabresi, hanno avuto 810 milioni di euro come risarcimento danni per un’ingiusta detenzione. Io sono amareggiato e incazzato. Cinque anni fa per Poggioreale sono stati messi a disposizione 12 milioni, per abbattere, ricostruire, e ammodernare quattro padiglioni: stanze da due, con le docce, aree della socialità, cucine. Sono cinque anni e ‘sti lavori non partono. Ma in che Italia viviamo? La battaglia non è sul carcere a livello ideologico, è di umanità”. Tuona con i giustizialisti: “Sento parlare di legalità, sostituiamo questa parola con responsabilità”.

“E allora, l’anagramma di carcere è ‘cercare’, o per noi cittadini italiani carcere viene dall’ebraico ‘carcar’, tumulare sotto terra, dove io ho trovato i primi detenuti politici negli anni ‘80?”.

“Sono convinto che una società che mette in carcere un quattordicenne o un quindicenne dopo averlo giudicato, è una società malata che sta giudicando se stessa, la propria malattia. I ragazzi dell’epoca, che rubavano lo stereo, alla domanda perché lo fai, rispondevano ‘devo comprare il motorino’, ‘voglio andare al mare’. Paradossalmente, in quella devianza diventata poi criminalità c’era una risposta che recuperava un concetto di uguaglianza. Adesso sono con la morte dentro. Se tu gli chiedi perché hai ucciso, rispondono ‘mi ha guardato storto’, ‘ha dato un giudizio negativo della mia fidanzata’. Questo ci deve far riflettere. Dalle periferie, dalle diseguaglianze, da questi adolescenti a metà dobbiamo ripartire, per evitare che vadano a riempire le prigioni e poi ritornino a delinquere”. In Italia, secondo i dati messi in evidenza dallo stesso Ciambriello, esiste infatti un tasso di recidiva del 70%. 59 persone si sono suicidate dall’inizio dell’anno, di cui 3 in Calabria. Centinaia hanno provato a impiccarsi. 12 istituti penitenziari in Calabria, con 2.200 detenuti, l’equivalente di Poggioreale. Mancano educatori, psicologi, medici, e psichiatri.

“Il malato di mente o il tossicodipendente, è un fallimento di noi liberi. Quei poveracci a chi si sono rivolti? A tutti e nessuno ha risposto. Tutti noi, allora, dobbiamo diventare artisti. Parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte. Io vi ringrazio perché siete stati oggi artisti”.

La storia di Wissem Ben Abdel Latif e la tortura dei più deboli

L’ultima parte del dibattito è stata, invece, dedicata ai centri per il rimpatrio, con il racconto della storia di Wissem Ben Abdel Latif, ragazzo appena ventenne deceduto in strane circostanze. “Tutte le persone che arrivano sono uomini, donne e bambini ‘combattenti di frontiera’, che decidono che il mondo deve essere uguale per tutti abbattendo i muri, abbattendo le frontiere appunto” – afferma Yasmine Accardo di “LasciateCIEntrare”, una delle organizzazioni che hanno contribuito a creare il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”. “Combattenti di frontiera che torturiamo, violentiamo nei loro percorsi, ammazziamo in mare utilizzando il braccio armato dell’Unione Europea, ‘Frontex’, che li riconsegna ai libici”. Abdel Latif aveva 26 anni, era sano, cittadino tunisino arrivato via mare a Lampedusa il 2 ottobre. Muore, legato ai polsi, il 28 novembre, contenuto nel reparto psichiatrico dell’ospedale “San Camillo” di Roma.

“Il sistema l’ha ucciso, non permettendogli di accedere a nessun diritto. Dalle carte mediche è sempre stato sedato, non ha mai incontrato un mediatore, non è mai stato ascoltato. Non sappiamo quello che è accaduto, ma sappiamo che troppe persone che arrivano qui sane, non ricevendo adeguata assistenza, adeguati diritti, impazziscono, e noi non abbiamo un sistema che sia in grado di tutelarle mai”. Wissem è allora una morte esemplare, che racconta come si muove il sistema, racconta di morti che potevano essere evitate, racconta di indifferenza, violenza e privazione. Racconta, semplicemente, di detenzione.

Un argomento vasto ma accomunato, insomma, dall’essere un tabù, da un carattere di violenza e tortura, che richiama alla memoria pratiche medioevali. Basti pensare alle immagini di Abu Ghraib che tutti conosciamo. Ma, più recentemente, i casi di Stefano Cucchi o Giuseppe Uva. “Ricordo la testimonianza da parte di un ragazzo di fede musulmana che raccontava di essere stato bloccato contro il muro da quattro carabinieri – afferma Emilia Corea dell’associazione “LasciateCIEntrare” – ed essere stato costretto a ingoiare pezzi di carne cruda di maiale ficcati in gola con forza con un manganello”. La derisione, l’umiliazione, uno degli scopi principali della tortura, al fine di distruggere la personalità del detenuto e creare un muro di silenzio tra il torturato e la società circostante. La tortura è praticata in ben 104 paesi nel mondo, nonostante sia espressamente vietata da numerose convenzioni internazionali, prima fra tutte la dichiarazione universale per i diritti umani del 1984.

Il Protocollo di Instanbul, come ricorda Emilia Corea, distingue i maltrattamenti in tre categorie: tortura fisica, tortura sessuale e tortura psicologica. Tra le varie forme di tortura nel mondo, la più praticata è la battitura sotto le piante dei piedi con frustini di legno o bastoni, che provoca degli ematomi e quindi l’impossibilità di camminare e, di conseguenza, di evadere dai centri di detenzione. Molto praticata, soprattutto in Libia, è anche la tortura da sospensione: si viene sospesi a una trave o a un gancio a testa in giù. Così come assai diffusa, tra le torture da ustione, una forma particolare consistente nel costringere il detenuto a spogliarsi e a far cadere sul suo corpo plastica fusa. Infine, la più classica delle torture sessuali, ossia la violenza sessuale praticata su tutte le donne detenute nei centri libici e, non di rado, anche nei confronti dei minori. Pratiche che non sembrano quasi appartenere a un’epoca così “evoluta” come crediamo sia quella di oggi, ma che ancora esistono, riducendo l’essere umano a un oggetto da possedere da alcuni ed essere ignorato da altri, privandolo finanche della propria anima.

A conclusione della piazza tematica Ernesto Orrico, Silvio Stellato, e Manolo Muoio hanno regalato ai presenti un momento toccante, recitando alcune poesie scritte dai detenuti Sante Notarnicola e Giovanni Farina avente ad oggetto la realtà carceraria.

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