“Ecco che cosa ho pensato: affinché l'avvenimento più comune divenga un'avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo” - Jean-Paul Sartre
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“Confusa e (in)felice nella Cara Catastrofe attuale e senza poter godere nemmeno di questa Maledetta Primavera”

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Apro gli occhi. Guardo il calendario attaccato al muro. Ho strappato via i giorni di marzo così violentemente da averne lasciato il pezzo superiore del foglio, proprio quello che ne riporta il nome: ecco che mi ritrovo nel mese di marzile. Sono confusa e (in)felice nella Cara Catastrofe attuale e senza poter godere nemmeno di questa Maledetta Primavera.

“C’è grossa crisi”, già.

È un altro giorno di quarantena, ho i raggi del sole sulla pancia, scoperta, a causa di un altro sogno o di un altro incubo? Non me lo ricordo, ma so di aver mangiato male. Lo dico sempre al mio coinquilino, unico essere umano con cui ho un contatto altrettanto umano, che «i sogni dipendono da quello che mangiamo». Lui mi prende in giro dicendo che, anche se viene da Avellino, io sono sempre più meridionale di lui, anche nell’animo. Ho dentro il folklore e le storie dei vecchi di paese calabresi e lei, la mia regione, prende anche queste forme nei suoi figli. Oltre a quella di piedone dell’Italia intera, che attende da anni di indossare una scarpa per potersi finalmente muovere.

La mia routine mattutina è molto basic: vado in bagno, do da mangiare ai pesciolini rossi che fanno tantissima cacca nella loro piccola vaschetta, metto su il caffè: lavoro in Smart Working e rispetto gli orari di ufficio, che ormai è il mio letto. Stropicciato, disordinato, vuoto.
Mentre preparo lo yogurt con 50 gr di Muesli che credevo al cioccolato ed invece contiene uvetta, penso che forse non sarà facile riabituarsi a non fare colazione con calma. Si sa, finisce sempre che ci si abitua anche alle prigionie più rigide: forse avrò paura di tornare in quel loop del “scappa a lavoro, scappa a casa, scappa a mangiare, scappa a prendere il tram, scappa dalle relazioni giuste, scappa dalla tua terra”.
Una serie di fughe che a pensarci adesso mi sembrano più irreali che restare qui chiusa in casa per colpa di un’epidemia mondiale. E non c’ho neanche un balcone per dire “Ce la faremo”.

Verso il caffè nella tazzina e riconosco che dell’aroma originale non è rimasto niente. Il mio coinquilino, quello di prima meno meridionale di me, ha mischiato il mio caffé “di giù” con qualcuno preso qui a Torino in qualche supermercato. Quando me lo ha ammesso giorni fa, mi è sembrato di dover accettare obbligatoriamente di svegliarmi male per il resto della quarantena. Non volevo rinunciare al sapore del caffè calabrese, ma essere adulte significa accettare anche nuove contaminazioni. E non si può pretendere da sé stessi di restare la persona che si voleva essere da adolescenti. Qualcosa ad un certo punto si rompe. E si cambia direzione.

«Che schifo l’uvetta e accidenti allo zucchero, che è buono». Giro il caffè e con lo stesso cucchiaino cospargo nocciole e cereali di yogurt: si apre la prima chat di lavoro su Telegram. Mancano ancora tre minuti alle nove. Sorseggio il caffè, si attiva Whatsapp. «Ho sperato che almeno questa fosse un pezzetto di cioccolata» e vado sull’Ansa.

News di un giorno qualunque: la strada che è il mio corridoio, oggi è poco trafficata; le rotaie del tram che sono le mie ciabatte, sembrano garantire il servizio di trasporto pubblico; la mia scrivania in ufficio è adesso un morbido materasso su cui adagiarsi.
Ho avuto il tempo di lavarmi la faccia e i denti, questi ultimi prontamente perché temo le macchie di caffè. Non sarò bella per sempre fuori, lo accetto. Ma i denti macchiati, no.

Mi siedo alla mia postazione, poggio la schiena sul mio cuscino: ho le mani a pochi millimetri dai tasti, possiamo cominciare.

Guardo l’orologio. È ora di pranzo.
Controllo Instagram. È tempo di fare merenda, pur di prendermi una pausa da questo schermo. Ho voglia di una birra: sono finalmente le sette. Aperitivo e sguardo fisso nel vuoto.

«Guarda tu che microcircolazione da cani, ho le gambe che sembrano la cartina geografica che usava mio padre quando partivamo in macchina assieme a tutta la famiglia. Queste vene sembrano il Po e la Dora e questa pelle secca la Pianura Padana» Ci penso e me lo dico, mi guardo e mi compatisco mentre mi rimetto a letto, di nuovo. Stavolta in posizione supina per sentirmi più protetta.

«Chissà, forse sarebbe stato meglio scendere giù e mettermi in quarantena nella mia campagna. Dopo i giorni precauzionali, sarei stata libera di stare con i miei fratelli e molto più nel verde. No, ma che dico! Accidenti a me, non lo avrei mai fatto eppure nella mia testa scapperei di qua, subito, adesso. Sono un’irresponsabile molto responsabile.»

Concedermi pensieri “sciocchi e fragili” non era mai stato semplice. Essere nata spigolosa e rigida mi faceva sembrare più il perimetro di una caserma che la dolce e sinuosa onda del mare che volevo. C’avevo lavorato tanto in passato, ma in me comunque insorgevano due parti opposte: la bambina capricciosa e la madre severa.

«Sarà che sono dei Gemelli, o forse sono solo una stronza. Con me. Ma non voglio vergognarmi di fronte al giudice Melissa, di aver paura anch’io di tutto questo. Mi è concesso anche se non sono più piccola? Mi perdonerò?». Mentre pronuncio con le labbra silenziose della mia mente questa frase, mi viene in mente una canzone di De André, la mia preferita: “Senza la mia paura mi fido poco”, canta Fabrizio ne La bomba in testa. La decontestualizzo e me la abbraccio tutta, con tutte le sillabe, con tutti i suoi significati, di Genova e miei.

Poggio il telefono sul comodino e spengo la luce. Mi addormento presto in attesa di rivedere il sole addosso.

di Melissa Salerno

 

 

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