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“Cumulo sacro”, il dolore per la terra che brucia. L’opera di Marò d’Agostino e il concetto di contemporaneo nell’arte

«In un tempo immanente, dove la dimensione creativa e sociale si intrecciano, ogni opera si dilata in maniera imponderabile nel proprio contesto culturale, non necessariamente coincidente con quello geografico che la contiene o la ispira. I segni della contemporaneità non sono univoci; si moltiplicano in forme e significati, invitando a esplorare differenze e convergenze. Non importa quali e quante lingue/linguaggi essa esprima, l’arte, per essere viva, deve agire stimolando un processo inclusivo, condiviso e, pertanto, un superamento del limite con cui si rappresenta. Su questa linea, “Cumulo sacro” intreccia elementi fisici ed emotivi ed istanze etiche del tema uomo-natura che a me sembra, più che mai, un medium imprescindibile di arte». Così Marò d’Agostino, artista che precorre i tempi e le idee, nella “Giornata del contemporaneo”, sviscera il concetto di contemporaneità e ci parla dell’opera site specific con cui ha partecipato al Festival Locrian Department, con la direzione artistica di Tommaso Marletta, un progetto che ha coinvolto grandi musicisti della scena contemporanea internazionale, tra i quali la violoncellista Frances Marie Uitti, il mese scorso a Roccella Jonica (RC).

L’arte di Marò d’Agostino ha intrecciato il proprio linguaggio con quello della musica sperimentale interagendo su un livello multisensoriale compreso quello sonoro ed acustico. «”Cumulo sacro” non è un apparato scenografico dentro uno spazio scenico; è una composizione naturalmente caotica di ramaglie secche: erbe altissime e dorate che ho raccolto personalmente nel giardino arso dalla siccità e che l’esposizione solare ha fissato in una bellezza assoluta e commovente. L’opera appare nello spazio visivo e mentale come una concentrazione di materia, non si sa esattamente quale, quanto pesi, da dove provenga e dove sia destinata a finire. La sua presenza è il soggetto; ogni azione, ogni narrazione che la riguardino sono assolutamente secondari. La sacralità quindi è implicita nella forma – dice ancora Marò d’Agostino –. Ecco, questa forma esprime la complessità di una condizione che attraversa, infliggendovi ferite, la mia sfera personale, quella del territorio calabrese in cui vivo e delle persone con cui mi relaziono, quella del nostro pianeta. L’estate 2024 ha segnato, con l’arsura e la siccità, come un punto critico di rottura nel vigoroso ma fragile equilibrio che abbiamo contratto con la natura».

E conclude: «Ho accettato con interesse l’invito degli amici della direzione artistica di Locrian Department, perché la musica contemporanea colta e l’improvvisazione musicale hanno avuto un ruolo fondamentale nella mia vita, anzi, posso dire che ne hanno definito il linguaggio di formazione giovanile. Sono entrata in modo concreto in relazione con l’esperienza artistica roccellese attraverso un’opera che sintetizza la complessità della mia ricerca e per l’opportunità di portare su una scena dichiaratamente contemporanea un grido di dolore che al contempo è una manifestazione della bellezza di un paesaggio che stiamo rischiando di perdere. Le nostre esistenze sono provate dalla coscienza di questo pericolo, non possiamo far finta di nulla e costruire eventi ed opere strutturate per rappresentare un tempo falso. Ugualmente, se vogliamo partecipare alla relazione tra arte e bellezza, non possiamo negare un valore politico alla bellezza».

Marò d’Agostino, dalla metà degli anni ’70 e per l’intero arco degli ’80, ha vissuto il proprio percorso professionale e artistico a Roma, prima sostenendo esperienze laboratoriali e formative d’avanguardia e poi facendone parte. Ha poi scelto di tornare a Locri, sua città natale, aprendo il territorio a nuove e incisive esperienze culturali: dal laboratorio teatrale “Zaleuco” allo Studio Galleria Arké che, negli anni, ha visto passare le più importanti espressioni del contemporaneo (il meglio del design internazionale d’autore, arti visive, musica e un ricercato artigianato locale). Oggi è la custode della Casa delle Erbe della Locride, ad Antonimina. Del “giardino calabrese” ha fatto il luogo di convergenza di relazioni, di teorie e pratiche di architettura, arte e biodiversità attraverso incessante ricerca progettuale, lavoro fisico e passione civile.

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