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Il caso irrisolto di Roberta Lanzino: dopo trentatré anni il volto più buio della Calabria

lanzino-roberta-di Alessia Tripodo – Difficili. Storie come questa risultano difficili da riportare alla memoria. Quella di Roberta Lanzino è sicuramente una storia difficile, condita di tutto quel terribile apparato umano che rende l’orrore più nitido. Violenza, abuso, misoginia, ma anche approssimazioni investigative e, soprattutto, omertà; sono le parole che accompagnano questa triste vicenda iniziata il 26 luglio del 1988.

Roberta Lanzino è una ragazza di 19 anni, vive a Rende con la sua famiglia dove, tra l’altro, frequenta l’Università. Ha una vita normale ma al tempo stesso piena: amici che le vogliono bene, attività extrascolastiche che la tengono impegnata ma soprattutto ha una famiglia che la ama profondamente. Così, quell’estate del ’88, come tante altre estati, la famiglia Lanzino decide di spostarsi dalla calura della città verso un piccolo paese del litorale cosentino, Miccisi, dove posseggono una casa al mare. Ma, Roberta è già grande, è indipendente, dunque pensa di portare con sé il suo motorino, un Piaggio Si di colore blu. La famiglia ne parla, si accorda e decidono: Roberta potrà portarlo fino alla casa al mare ma sotto l’occhio dei genitori che, poco distanti, percorreranno in macchina lo stesso tragitto. Le ultime commissioni vengono sbrigate, Roberta mette in moto il suo motorino e parte. Qui inizia l’incubo.

IL VIAGGIO

Sono circa le 17 quando Roberta si mette in viaggio. Miccisi dista una trentina di chilometri da casa sua, ha già intrapreso quel viaggio innumerevoli volte con i suoi genitori: questa volta, però, sa che non potrà prendere la Strada Statale 107 – che l’avrebbe facilmente portata a destinazione – perché il suo motorino è troppo leggero, troppo instabile per affrontare un percorso di quel tipo. Così decide di percorrere la così detta vecchia strada di Falconara, un percorso che porta sì al mare ma con molte più difficoltà. La strada, infatti, presenta diversi bivi, vie scoscese con costoni alti e profondi. La madre e il padre di Roberta, nel frattempo, si mettono in marcia ma alcuni imprevisti li fanno tardare. Si sentono un po’ in ansia per il viaggio intrapreso dalla figlia, fino a quando, finalmente, giungono alla casa al mare di Miccisi. Sono le 18 e 20 circa quando avviene la prima terribile scoperta: Roberta non è arrivata a casa.

Fin da subito partono le ricerche, dapprima ripercorrendo la strada a ritroso, dopodiché contattando l’ospedale e la stazione dei carabinieri di San Lucido – un paese nelle vicinanze -. Si pensa a un incidente: gruppi di volontari, capeggiati dai familiari e dalle forze dell’ordine iniziano a perlustrare le vie a partire da Miccisi, fino ad allargarsi sui monti soprastanti. Roberta sembra essere sparita, intanto il sole tramonta e le ricerche diventato sempre più complicate.

È ormai notte quando Franco Lanzino – il padre di Roberta – viene allertato del ritrovamento di un motorino, simile a quello di sua figlia. Il motorino si trova in una scarpata, accanto alla strada vecchia, anzi, ad un bivio della stessa. Non c’è dubbio, il motorino è proprio il lucido Piaggio Sì. Sotto il ciglio di quella strada, il corpo senza vita di Roberta Lanzino.

I carabinieri procedono immediatamente, l’area viene circondata, le prove individuate e raccolte, il corpo esaminato. Le domande iniziano a sorgere; prima tra tutte: come ci è finita Roberta in quel luogo?

L’ipotesi più probabile è che la ragazza si fosse dapprima persa. La strada vecchia, infatti, presentava delle biforcazioni mal segnalate: chiunque non conoscesse bene la zona si sarebbe potuto perdere facilmente. A confermare questa ipotesi sono alcune testimonianze che aiuteranno a ricostruire i movimenti di Roberta.

Il primo testimone a dare notizie del suo passaggio è un agricoltore dei monti di Falconara. L’uomo sostiene che verso le 17.45 nota passare da quella stessa strada una ragazza in motorino, la cui descrizione sembra essere molto simile a quella di Roberta. Dopo pochi minuti – alle 18 circa – è un gruppo di fratelli ad avvistare Roberta. Questi, che percorrevano la strada vecchia con un furgoncino bianco, verrebbero da lei fermati per chiedere indicazioni stradali. Roberta – dichiarano – vorrebbe ritrovare la strada per Torremezzo di Falconara (il paese accanto a Miccisi). Loro, vedendola chiaramente smarrita, decidono di aiutarla e l’accompagnano fino al bivio successivo facendole strada col furgone. Poi, si separerebbero dalla ragazza dovendo intraprendere un bivio differente. Le indicano la strada e la salutano. Notano, però, qualcosa di strano: una Fiat 131, guidata da un uomo la starebbe seguendo.

L’ultimo avvistamento risalirebbe alle 18.10 circa. Questa volta Roberta incrocia sulla strada un altro agricoltore, un certo Luigi Frangella, che dichiara di aver visto la ragazza e di averle indicato nuovamente la strada da percorrere per Torremezzo di Falconara. L’ultima testimonianza che colloca Roberta, viva, lungo la strada vecchia è proprio quella di Frangella. Ottocento metri più avanti verrà ritrovato il motorino.

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I FRANGELLA

Luigi Frangella ha 36 anni al momento dei fatti. Fa l’agricoltore e vive con suo fratello Rosario. Luigi, fin da principio, risulterà avere un comportamento contraddittorio nei confronti dei carabinieri. Durante l’interrogatorio, infatti, confermerà di aver visto Roberta lungo la strada vecchia aggiungendo, poi, che un altro veicolo la seguiva: un furgone bianco guidato dal cugino, Giuseppe Frangella. Da questo momento in poi, i tre cugini – Luigi, Rosario, Giuseppe – cominceranno a scaricarsi reciprocamente la colpa, in un susseguirsi di dichiarazioni contraddittorie, confuse e a volte inattendibili. Fermato dalla polizia, Giuseppe Frangella inizierà gli interrogatori negando completamente la sua presenza sul posto. Poi ritratterà, sostenendo che sì, forse si trovava su quella strada ma a un orario diverso rispetto quanto indicato dal cugino. In fine, dichiarerà si essere stato sul luogo dopo le 18.20 e di aver chiaramente visto, ai lati della strada, Rosario correre in forte stato di agitazione, accompagnato da Luigi, anch’egli visibilmente scosso. Uno dei due avrebbe gridato: “Ma cosa hai fatto?!”, ma Giuseppe non sa ricordare chi l’abbia urlato.

Ciò basta – il primo agosto del 1988 – al sostituto procuratore, Domenico Fiordalisi, per far arrestare i due fratelli Frangella con l’accusa di violenza carnale e omicidio; e facendo trattenere Giuseppe per favoreggiamento.

Qualcosa di strano aleggia in questa famiglia, qualcosa di sinistro. È sicuramente ciò che pensano gli inquirenti quando scavano nella vita dei Frangella. Nella vita di Rosario, ad esempio, che si scopre soffrire di schizofrenia da innesto, una patologia che influenzerebbe la sua sfera sessuale, provocandogli anche reazioni violente. Rosario, che qualche mese prima era stato ricoverato a causa di un moto violento e che solo due anni prima, in un raptus inspiegabile, aveva sgozzato venticinque pecore del suo gregge. In quel momento, Rosario, dal carcere proclamava la sua innocenza ribadendo con tenacia che il colpevole per l’omicidio di Roberta fosse il fratello, Luigi.

Gli inquirenti giudicano non del tutto credibili che parole di Rosario; in fondo, con le turbe psichiche che ha, è facile giudicare poco attendibile il suo giudizio. Eppure, continuano a seguire la pista che vede protagonisti del crimine i tre Frangella e scoprono due prove interessanti: da una parte ritrovano dei calzoni appartenenti a Rosario sui quali sembra esserci del sangue umano, dall’altra, a seguito di altri rilevamenti sulla scena del delitto, ritrovano un fazzoletto azzurro, da uomo. Fazzoletto simile a uno ritrovato nell’abitazione di Giuseppe Frangella, la cui posizione diventa sempre più compromettente.

Infatti, alcuni testimoni presenti la sera del ritrovamento del corpo, fanno notare come lì presente ci fosse anche Giuseppe che sul viso aveva strane escoriazioni: lividi e graffi che facevano presumere a una colluttazione. Il Frangella sosterrà di esserseli procurati la sera stessa, durante le azioni di recupero del motorino: i rovi, la vegetazione rude del costone, lo avrebbero ferito proprio mentre si trovava con gli altri volontari. Ma ciò viene subito smentito: nessuno dei presenti ricorda di averlo visto intento a recuperare il motorino; anzi, tra i testimoni vi era anche il padre di Roberta – Franco – che è più che certo di non aver permesso a nessuno di avvicinarsi a quell’area. Men che meno a Giuseppe con il quale ricorda di aver parlato lungamente. Guardando Franco negli occhi, Giuseppe, ribadisce di non aver mai visto Roberta sulla vecchia strada di Falconara albanese.

PRIMO PROCESSO

Il 16 agosto del 1988, il Tribunale del riesame scarcera i tre imputati. Mancanza di prove, si sosterrà, o meglio tutte le prove a loro carico vengono considerate inconcludenti. Innanzitutto, gli avvocati della difesa sosterranno che le dichiarazioni rese da Rosario Frangella sono da ritenersi totalmente nulle proprio a causa dell’instabilità mentale dell’imputato. Poi vengono prese ad esempio le prove indiziarie tra il sangue umano ritrovato sui pantaloni dello stesso Rosario e le escoriazioni che Giuseppe presentava sulle braccia: in nessun modo quel sangue poteva essere ricollegato a Roberta, né quei graffi potevano dare prova di colpevolezza. Inoltre, la difesa sosterrà a più riprese che potevano essere altri i motivi per cui Roberta si trovasse lungo quella strada così impervia. Forse, diranno, aveva dato appuntamento a qualche amico, qualche frequentante che desiderava vedere lontano da occhi indiscreti.

Il 16 agosto del 1989, Domenico Fiordalisi proscioglie gli imputati per assenza di prove. Solo grazie all’intervento del Procuratore generale le indagini proseguiranno fino ad arrivare al 1° ottobre 1991, data in cui inizierà il primo processo. Un lungo, tortuoso processo, dove i Frangella rivedranno totalmente le loro iniziali dichiarazioni. Un processo amaro, che parla di una verità lontana da quella della famiglia Lanzino: la fredda verità del tribunale. I Frangella verranno assolti da tutti i capi d’accusa, e il giudizio confermato sia dalla Corte d’Appello che alla Cassazione. Capitolo chiuso.

LE PROVE

Fino a questo momento i fatti sono stati descritti omettendo ciò che nel racconto di una storia criminale del genere, forse, viene considerato il tassello più importante: come è morta la vittima. Il corpo viene ritrovato supino, in quello spiazzo adiacente la strada vecchia. Roberta è riversa semi nuda, con la maglietta e il reggiseno attorcigliati sopra al petto, mentre i jeans e gli slip vengono ritrovati poco distanti dal corpo, lacerati a metà dal taglio netto di una lama. Su questi indumenti (maglietta, slip, jeans) vengono ritrovate parecchie tracce ematiche nonché tracce di liquido seminale. La scena del crimine, infatti, è ricoperta dal Dna: sia della vittima che del carnefice.

Il corpo di Roberta parla chiaro: ciò che ha dovuto subire prima della morte è indescrivibile, incomunicabile. Il corpo ricoperto di ecchimosi fa presumere che Roberta abbia lottato, fino alla fine. Aveva un ematoma persino sul volto, elemento che farà pensare a un pugno sferratole forse proprio per farle perdere conoscenza. In fine, la morte brutale. Nonostante Roberta fu trovata con un taglio netto all’altezza della carotide, morì per soffocamento. Il responsabile di un atto così efferato, infatti, presumibilmente dopo averle inciso la carotide, le inserì nella gola le spalline della maglietta che Roberta indossava.

Questa, si diceva all’inizio, è una storia difficile. E lo è anche a causa delle indagini scientifiche: lacunose, approssimative.

Infatti, tutte le prove raccolte dai carabinieri vennero considerate inconcludenti a una a una. A partire dalle impronte rilevate sul motorino: i carabinieri – che inizialmente supponevano si trattasse di un incidente stradale – raccolsero il mezzo senza utilizzare i guanti consoni a preservare eventuali impronte digitali. Anche gli altri reperti contenenti tracce di Dna, tra cui alcuni indumenti della vittima contenenti liquido seminale, furono mal conservati. Il 16 settembre ’88, infatti, i reperti furono consegnati al CIS di Roma che il 2 dicembre consegnò gli esiti del tracciamento del Dna. Come prevedibile, gli esiti furono del tutto inconcludenti.

L’ultimo inspiegabile tassello riguarda i vestiti di Roberta che per diverso periodo sembravano essere spariti. Soltanto mesi dopo dall’apertura delle indagini, vennero ritrovati dentro una cassa di zinco, all’interno dell’obitorio. Non tutti gli indumenti però, alcuni, infatti, vennero buttati via.

RIAPERTURA DEL CASO

Nel 2007 la svolta. Dopo diciannove anni, spunta una nuova pista che permette di riaprire il caso. A dare lo slancio per nuove indagini sono le dichiarazioni dell’ex boss Franco Pino che, divenuto ormai collaboratore di giustizia, parla di un una rivelazione che avrebbe ascoltato quando si trovava al 41 bis, nel carcere di Palmi. Pino racconta che Marcello e Romeo Calvano, elementi di spicco delle ‘ndrine di San Lucido, gli avrebbero confessato che ad uccidere Roberta Lanzino fu un pastore, tale Francesco Sansone (di 46 anni all’epoca dei fatti). Sansone che in quel momento si trovava già in carcere a scontare una condanna a 30 anni per avere ucciso la sua fidanzata Rosaria Genovese e un maresciallo della polizia penitenziaria, verrà indagato dal pm Fiordalisi. Oltre che per l’omicidio di Roberta, Sansone verrà indagato anche per la morte dell’altro imputato, Luigi Carbone, ucciso, secondo l’accusa, poiché conosceva troppi dettagli riguardo l’omicidio Lanzino.

A distanza di 27 anni dall’omicidio, anche questa seconda pista cade nel vuoto: nessuna prova contro Sansone, che viene così assolto con formula piena. L’assoluzione immediata si verifica dopo che vengono incredibilmente ritrovate tracce di liquido seminale su reperti mai analizzati. Un campione biologico estratto dal terriccio rinvenuto sotto il collo di Roberta lo scagiona: il profilo genetico non è compatibile con il suo.

Tuttavia, rimangono molte le domande che non hanno ottenuto ancora risposta: innanzitutto, che ruolo ha avuto la Fiat 131 che da più testimoni è stata vista mentre seguiva Roberta? Quanti uomini – dato che l’ipotesi più seguita è che vi fossero minimo due persone – hanno assistito e/o agito in questo crimine? Perché molte delle prove sono giunte in condizioni inadoperabili o, addirittura, sono spuntate all’improvviso come nel 2015? Ma soprattutto, siamo certi che è stato fatto il possibile per trovare un volto e un nome a chi ha avuto la viltà di strappare dalla vita una ragazza di 19 anni?

Cosa ne resta del senso della giustizia dopo un caso di tale portata? Ne resta la voce tenace di mamma Matilde che a proposito delle lungaggini del processo taglia corto e dice: “Non ci voglio pensare, nei due processi si è respirata la paura”.

La paura, sì, di tutte queste inconcludenze. La paura di una terra che non parla: “Dalle carte – dice Matilde Lanzino – è chiara quale fosse la paura della zona. Anche chi sapeva o poteva sapere non ha detto nulla”.

LA FONDAZIONE

Il volto peggiore della Calabria – anzi, dell’umanità – si è mostrato a Roberta Lanzino, una giovane donna bella ed entusiasta; una ragazza con lo stesso sguardo, lo stesso sorriso che possiamo vedere nelle donne più vicine a noi. Nelle donne che, per così dire, sono sopravvissute. Forse proprio per questo motivo, esattamente un anno dopo dalla morte di Roberta, la famiglia Lanzino ha deciso di non restare ferma a osservare tutte le altre ragazze che, come Roberta, dovevano subire un destina infausto solo perché nate donne. Nasce così la Fondazione “Roberta Lanzino”, un incredibile gesto di umanità, una ricchezza che la famiglia Lanzino ha lasciato a noi tutti, ma soprattutto alla Calabria.

La Fondazione, ormai ben nota sul territorio, opera in difesa delle donne e dei bambini: di chi vive la violenza nei modi più cruenti. Matilde Lanzino racconta lungamente del bene che sente sopravvivere grazie alla Fondazione. Tra le case rifugio (dove vengono ospitati donne e bambini) e i centri antiviolenza, un tassellino alla volta il dolore – immenso, il più grande – si è trasformato nell’opportunità di salvare altre vite.

E ciò non sembra bastare ai signori Lanzino che anzi sanno perfettamente dove si genera tutta questa violenza. Bisogna aver il coraggio, sostengono, di agire culturalmente, di estirpare il male alla radice. Ecco perché gran parte della loro attività consiste proprio nel confronto con i più giovani. “Lavoriamo sul linguaggio – racconta la signora Lanzino – perché la parola è l’arte con cui il bambino cresce”.

Forse in queste parole di una madre si nasconde l’unica vera storia che valga la pena continuare a raccontare.

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