“La libertà, Sancio, è uno dei doni più preziosi che i cieli dettero agli uomini… Quindi per la libertà come per l’onore si può e si deve rischiar la vita” - Cervantes – “Don Chisciotte”
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“Voce del verbo restare”. Daniele Castrizio

castriziodaniele600di Valeria Guarniera – Severo, irriverente, appassionato. Daniele Castrizio è tutto questo, e molto di più. Da sei anni parroco della Chiesa di San Paolo dei Greci – prima parrocchia ortodossa, situata nel quartiere di Sbarre, zona Sud della città – vive con i reggini un rapporto conflittuale, tra amore e odio, perchè: se da un lato ci sono bagliori di luce che fanno sperare – “Mi rincuora vedere tanti ragazzi impegnati a prendersi cura della loro vita” – dall’altro il cuore nero di Reggio fatica a sbiadire – “Qui prevale la legge della giungla, la ragione del più forte ed il controllo statale è completamente assente. Viviamo una deriva culturale in cui prevale il completo disprezzo delle leggi dello Stato e persino di quelle universali dell’Umanità”. Uomo di grande cultura, specializzato in archeologia classica e medievale ed esperto di numismatica, di Reggio conosce la storia. La racconta, senza stancarsi mai: come una missione da compiere, un libro aperto in cui trovare le risposte: “Perchè nella consapevolezza di ciò che eravamo possiamo riscoprire la nostra vera natura”. Arrabbiato per quel “Darwinismo al contrario che ha spogliato la nostra terra riducendola all’ignoranza e all’anarchia sociale”; ma mai rassegnato, “Ché i semi che piantiamo ora sapranno dare buoni frutti”, cerca la via d’uscita, trovandola: “Bisognerebbe puntare sull’onestà e sulla correttezza, allora le cose inizierebbero a funzionare. Il potere dirompente che ha l’onestà, ci penso spesso..”. E intanto resta, Daniele Castrizio, nella sua Reggio “Perchè un giacimento così bello e ricco non esiste in nessun’altra parte al mondo”. 

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Incendi, danneggiamenti, atti vandalici: spesso si è trovato a fare i conti con una certa ostilità. Non sono atti intimidatori, questo lo sottolinea sempre. Allora come li interpreta?

Sono parroco della Chiesa di San Paolo dei Greci, prima parrocchia ortodossa a Reggio dopo mille anni di schiavitù e di olocausto culturale dei Greci di Calabria, da circa sei anni. E posso dire che sin dall’inizio il disappunto di tanti per la nostra presenza, si è mostrato con il suo volto arrogante e presuntuoso: come una sorta di assedio per farci andare via da lì. Mi son sentito preda, possessore indegno di qualcosa non mio. Per spiegare la sensazione che ho provato – e che provo tutt’ora – devo tornare qualche anno indietro nel tempo, a quando sono andato per la prima volta a scavare in Egitto. Eravamo al Cairo, chiesi al mio capo missione di andare a vedere le Piramidi. Mi portarono a vederle. Ricordo bene: attraversavo questa strada piena di negozi e, in quel momento – era un periodo in cui non c’era molta gente – ero l’unico occidentale. Camminavo e sentivo su di me uno sguardo pesante: vedevo che mi guardavano come il leone guarda la zebra: per la prima volta in vita mia mi sono sentito preda. E questo è quello che sta succedendo qui: quella chiesa non viene riconosciuta come chiesa cattolica – probabilmente molti pensano pure che siamo musulmani – e la guardano con gli occhi indagatori, come a chiedersi: “Da lì, cosa posso prendere?”. E’ la tendenza – tipica reggina – a credere che tutto ciò che è pubblico sia di nessuno. Non ho mai letto quei gesti come atti intimidatori in effetti. Piuttosto come un volersi riappropriare di qualcosa: quello era luogo di spaccio e bivacco notturno, evidentemente abbiamo “rubato” il posto a qualcuno.

Ha sentito il sostegno delle varie rappresentanze istituzionali in quelle occasioni?

No. Assolutamente no. In troppe occasioni, ad esempio quando hanno bruciato la Chiesa, il silenzio da parte delle Istituzioni è stato pesante. Nessuno si è esposto. Eppure era stata bruciata una chiesa, cos’altro serve per indignarsi? Ho avuto parole di solidarietà dai parroci del quartiere, dalla gente di Sbarre . Ho sentito la vicinanza della chiesa di san Francesco. E anzi con loro c’è un legame stretto, che ci porta ad una contaminazione positiva: abbiamo terminato il mese mariano cattolico con una celebrazione ortodossa nella mia Chiesa. In seguito al furto delle campane, sono venuti i ragazzi ad aiutarci a ripulire, a sostituire gli oggetti rubati o danneggiati. E’ stato bello vedere questo scambio, guardare tanti giovani rimboccarsi le maniche.

Quei giovani sempre oggetto di giudizi severi e negativi, hanno saputo dare una grande lezione di civiltà

Sì, generalizzare non va mai bene: i giovani sono un altro discorso, bisogna conoscerli prima di parlare, vederli all’opera. Ce ne sono tanti impegnati in varie forme di associazionismo, pieni di passioni che portano avanti e di sani interessi – ragazzi che si prendono cura della propria vita – a cui faremmo un torto se generalizzassimo. E’ troppo facile dare la colpa ai giovani. E il mio quartiere è pieno di ragazzi che tutte le volte che vengono a trovarci sono fonte di grandissima gioia e speranza. Il problema grosso è rappresentato dalla generazione ignorante dei loro padri e dei loro nonni – completamente andati allo sbando – figli di un altro mondo: una società clientelare che ancora oggi riesce a far danni.

Giudica spesso severamente l’apparato politico, amministrativo della città. Lamenta la totale assenza di una classe dirigente che sia credibile. “Reggio – ha detto più volte – è in preda all’ignoranza e all’anarchia sociale, esperimento in cui vige una sorta di Darwinismo all’incontrario”, che seleziona e porta avanti sempre il peggiore, quello che si adatta meglio al clientelismo selvaggio”

E’ così, ne sono fermamente convinto. Mi chiedo: abbiamo una classe dirigente a Reggio? Mi rispondo da solo e dico no. Politici, imprenditori… ce ne sono alcuni che stimo tantissimo e con cui collaboro. Però qui c’è scarsità di valore. Mi arrabbio perché se guardiamo l’Italia vediamo che tanti esponenti della classe dirigente sono calabresi, reggini che ricoprono ruoli importantissimi. Quando parlo di “darwinismo al contrario” intendo proprio questo. In sostanza, ci siamo tenuti i peggiori. Qui prevale la legge della giungla, la ragione del più forte ed il controllo statale è completamente assente. Viviamo una deriva culturale in cui prevale il completo disprezzo delle leggi dello Stato e persino di quelle universali dell’Umanità. E’ un continuo “chiedere all’amico”, cercare la scorciatoia. E quando vedo che qualcuno che vale riesce ad andare avanti, resto sorpreso. Bisognerebbe puntare sull’onestà e sulla correttezza, allora le cose inizierebbero a funzionare. Il potere dirompente che ha l’onestà, ci penso spesso… quando un’amministrazione decide di fare un concorso pulito: è lì vengono fuori i talenti veri, le eccellenze, si riescono a scovare persone bellissime e appassionate che con un concorso truccato non riuscirebbero mai ad emergere. Non ci dobbiamo inventare niente, per aggiustare le cose bisognerebbe semplicemente affidarsi all’onestà. Questa terra produce eccellenze. Le maltrattiamo e poi le mandiamo via.

Ha mai pensato di mettersi in gioco? Se le chiedessero di fare l’assessore alla cultura o addirittura di candidarsi a sindaco cosa risponderebbe?

Risponderei di no, io non sono fatto per la politica: non c’è niente da fare. Sono stato cresciuto “civilmente” dall’on. Battaglia. Ho avuto il piacere di imparare la politica dalle sue parole. Ma non ho voglia di fare politica, intanto perché penso che un sacerdote non debba, e poi perchè sono convinto che il miglior contributo che una persona libera può dare è quello di progetti e di idee, di stimolo. Perché questa città ne ha bisogno. Però per farlo bisogna conoscerne i meccanismi e le sfumature. La nostra è una cultura peculiare che se vieni da fuori difficilmente puoi comprendere fino in fondo. Allora puoi restare affascinato dalle cose sbagliate, puoi cedere all’inganno senza rendertene conto. Vedo quelli che vengono da fuori e cercano di restare per costruire qualcosa: restano sempre emarginati. Perché chi non è nato qua, chi non conosce le consorterie che qui comandano, rischia di restare fregato. Qui a volte è difficile capire chi hai davanti ed io, per mia natura, quando non so, non collaboro. Sono diffidente. La storia delle persone parla ed io – avendo vissuto, a 53 anni, tante stagioni e collaborazioni, presuntuosamente (tanto la presunzione è una mia caratteristica che non ho mai negato e che, anzi, spesso risulta fin troppo evidente) dico di saperle riconoscere. Perché è semplice: se all’improvviso, ad una certa età, arrivi a ricoprire un determinato ruolo, senza mai esserti messo in gioco prima, mi chiedo: ma dov’eri fin ora? Che battaglie hai portato avanti? Perché ora sei qui? E per chi? La storia delle persone ti dice chi hai di fronte ed io sono quello che sono oggi grazie al mio vissuto: il giornale, fondato da giovanissimo, in cui raccontavamo le vicende del condominio; la compagnia teatrale con altri amici… a 17 anni recitavamo Moliere; e poi il 1982: l’assassinio di Gennaro Musella, la prima manifestazione antimafia, la lotta per non farla strumentalizzare dai politici che volevano salire sul palco ed il racconto – bellissimo e mai dimenticato – del preside D’Africa che in un’assemblea d’istituto ci spiegò la ‘ndrangheta. In quell’occasione ci disse una frase che mi ricorderò sempre: “Voi lottate, urlate e fate bene. Ma non sapete che tra quelli che vi battevano le mani, c’erano loro”. L’antimafia di facciata, già nel 1982. La prima manifestazione nazionale antimafia a Reggio Calabria e per questo intellettuale, che vedeva veramente nel futuro e che ci spiegava le cose da padre, era già sorpassata. Lo Stato ha permesso negli ultimi trent’anni che la ‘ndrangheta prendesse le redini economiche. E questo è il danno irreparabile. Per conquistare un paese non c’è bisogno dell’esercito, basta controllarne l’economia. Lo dico da insegnante e studioso della storia ed economia della moneta, è sempre stato così. Il problema è che adesso è tardi per ripartire perché il cuore nero della città è veramente nero.

In una terra come la nostra – luogo di arrivi, soste, partenze, passaggi, transiti, scontri e incontri di popolazioni diverse – esiste un’identità calabrese?

Non esiste un’identità calabrese. Non può esistere, siamo figli di culture e popolazioni diverse. I cosentini e i catanzaresi sono longobardi, noi reggini siamo greci di Calabria. Come potremmo mai avere una comune identità? La Grecìa e la Longobardìa avevano due approcci assolutamente diversi, ad esempio, nel modo di risolvere i problemi. Nella Grecìa si tenterà sempre di trovare la situazione accontentando tutti. Il “promoveatur ut amoveatur” è tipico bizantino e greco: promuovere qualcuno per rimuoverlo da un incarico, significa accontentare tutti in qualche modo. Nella Longobardìa, invece, uno sarà distrutto e l’altro sarà portato avanti. Visioni che hanno permeato le nostre culture e che ancora oggi ritroviamo. E la visione dei barbari – quella dell’io e nessun altro – gli appartiene, così hanno fatto e così continuano a fare. Lo vediamo, ad esempio, nella vicenda dell’aeroporto di Lamezia: ce l’avete, bene. E’ un aeroporto importante, benissimo. Ma perché dovete distruggere il nostro? Atteggiamento tipico longobardo. Per cui esistono più identità calabresi, impossibile definirne una. La nostra è un’identità non di razza ma di cultura da cui dovremmo imparare molto. C’è un primato a cui tengo molto: le leggi di Caronda, fatte a Reggio, imponevano di girare in città senza armi. Noi siamo stati i primi a toglierci le armi di dosso. Il grande senso di civiltà che ci appartiene, dovremmo riscoprirlo. Un uomo che usa la violenza non è più un uomo.

Partire/Restare sono parole che appartengono al nostro dna: la Calabria terra inquieta che nel viaggio trova la sua essenza: restare, tornare, sbarcare. Emigrare… l’accoglienza, vita e morte insieme

C’è un un’altra cosa di cui vado fiero, un insegnamento che ci ha lasciato la storia e che vale la pena ricordare: noi non abbiamo mai fatto crociate. Possiamo andare ovunque in Medio Oriente a testa alta perché il nostro essere calabresi racconta una storia priva di conflitti. Allora ci sarebbe bisogno di cambiare gli assetti, cominciando ad usare in senso positivo questo movimento di migranti. Persone che si spostano per necessità, che hanno perso la bussola e che noi possiamo aiutare. E quando dico “noi” non mi riferisco ad un “noi italiani” – ché l’Italia è colonialista come tutti gli altri paesi barbarici – parlo di noi come calabresi e siciliani. Siamo noi gli amici che loro cercano. Abbiamo quella credibilità e quella capacità di comunicare con loro, per continuare a fare l’occidente dell’oriente. E’ la storia a parlare: ad esempio, abbiamo il più antico castello in pietra europeo: il castello di San Niceto, costruito nella prima metà dell’XI secolo sulla cima di un’altura rocciosa, nei pressi di Motta San Giovanni (RC). Ed è integro. Abbiamo la possibilità di vedere com’era una fortificazione bizantina a mezz’ora di macchina. Dico ai miei studenti di andare a vedere com’era una fortezza bizantina e di fare il confronto con il castello feudale: la fortezza bizantina è vuota dentro perché deve accogliere le persone; il castello feudale è la residenza di una famiglia nobiliare, che si deve difendere prima dalla sua gente e poi dai nemici. La differenza è sostanziale. Il “castron” – il castello greco-bizantino – è una cosa di tutti. La motta – castello feudale, – è della famiglia che comanda e che sfrutta le persone. Quindi noi abbiamo due modelli completamente diversi: uno cooperativo, greco-bizantino; e un modello feudale. Quale vogliamo seguire?

Ricchezze storiche che non vengono valorizzate. Quello che si pratica qui – ha detto – è un turismo culturale basato sul nulla

Dovremmo vivere secondo le regole nostre e preservare la grande cultura di cui siamo eredi. Invece scimmiottiamo i grandi Paesi, siamo malati di provincialismo. Organizzare un’iniziativa e definirla con un nome inglese non fa altro che dimostrare quanto siamo vuoti. Immemori di ciò che siamo stati e che potremmo sfruttare a nostro vantaggio. Abbiamo un patrimonio culturale che noi stessi sconosciamo e che però prima o poi ci potrà salvare, ne sono convinto. Prima o poi qualcuno lo capirà. Dobbiamo accogliere e fare in modo che il turista resti: quindi, non solo i bronzi. Ma provare a valorizzare e allargare la nostra offerta culturale che è davvero ricchissima. La cultura è ricerca, valorizzazione e tutela. Se non si fanno queste tre cose, non c’è niente da fare. Il problema lo risolviamo se cominciamo a studiare se cominciamo a studiare. E se quello che studiamo lo divulghiamo.

Prima di tutto però i turisti dobbiamo farli arrivare e a volte quelli per la Calabria sono veri e propri viaggi della speranza…

Non ho mai fatto una campagna politica, ma su questo farei volentieri un’eccezione: io vorrei i nomi di coloro che hanno voluto la A3 rinnovata. Perché c’era un progetto alternativo che voleva che la nuova A3 venisse fatta seguendo l’antica via Annia/Popilia – la cd via Capua-Regium – importantissima strada che permetteva a romani di partire da Reggio e arrivare fino a Capua senza ponti e gallerie. Il tracciato lo conosciamo, era una cosa fattibile, lasciando la A3 come superstrada. Ma qualcuno non ha voluto, ed io vorrei sapere i nomi. Questi appena trascorsi li chiamo “gli anni dell’assedio di Reggio”. Siamo chiusi, il nostro provincialismo viene amplificato dalla mancanza – o quantomeno dalle mille problematiche legate all’aeroporto. Da un porto che è sottosfruttato. Dalle ferrovie che vanno a chiudere. Siamo marginalizzati. Ed esserlo ci fa comodo.

In che senso?

Ormai ci immedesimiamo totalmente nell’immagine che si ha di noi: terra di ‘ndrangheta. A volte sembra che altro non siamo. La nostra autorappresentazione è sempre incentrata sulla mafia, spacciata per atavica e congenita: ma non ci sono bellissime storie d’amore a Reggio, non vi nascono poeti e artisti, non ci sono fatti di solidarietà che meriterebbero di essere raccontati, non abbiamo una Storia e un Patrimonio culturale e monumentale che dovrebbero essere valorizzati? Eppure i giornali nazionali – persino i nostri bravissimi registi – non fanno altro che parlare ed enfatizzare le cose negative. Quelle belle non interessano. Un Museo – ad esempio – che è diventato polo attrattivo, convogliando studi e diventando punto di riferimento delle ricerche, non interessa. Non fa notizia. E noi abbiamo accettato tutto questo e ci ritroviamo in questo personaggio. In questa commedia dell’arte abbiamo accettato di essere il cattivo. E mi riferisco anche ai giovani registi, che stimo per la loro bravura, ma ai quali chiedo: la Calabria non ha anche altri lati da raccontare? Storie positive che ne mettano in risalto la bellezza. E questo non vuol dire voler nascondere la polvere sotto il tappeto. Credo però che la visione debba essere complessiva e che far vedere il brutto purtroppo ci fa comodo.

Il suo impegno è costante: uomo di grande cultura, specializzato in archeologia classica e medievale, esperto di numismatica. Trasmettere il suo amore per la cultura è quasi una missione. Nella consapevolezza che solo attraverso la conoscenza un popolo può crescere e svilupparsi al meglio, prova a piantare semi nella speranza che diano buoni frutti. A Reggio trova terreno fertile?

Sì, sempre. Io sono veramente molto felice della mia attività di professore all’università. Ho tra gli allievi persone splendide, umanamente e scientificamente e mi piacerebbe trovare per loro una strada, un sentiero fatto di meritocrazia da potergli indicare. E’ difficile e ci vuole pazienza, ma non è vero che la situazione sia peggiore rispetto a tanti anni fa. Io mi sono laureato nel 1987 e solo nel ’98 ho vinto il primo concorso di numismatica. Nel frattempo undici anni di assoluto precariato. Lo Stato era immobile allora ed è immobile adesso. Purtroppo ora c’è uno scoraggiamento che noi non avevamo, sono riuscito ad andare avanti tra mille difficoltà – continuando a fare ciò che mi piaceva e per cui avevo studiato – non fermandomi mai. Se c’è un consiglio che mi sento di dare ai giovani è proprio questo: di non lasciarsi sopraffare dallo scoraggiamento, ché con la passione, lo studio e la perseveranza i traguardi si avvicinano.

Qual è il senso che ha dato al suo restare?

Questo è un giacimento. I miei studi, la mia passione mi hanno portato a restare qui. Sarei potuto andare altrove certo, lo avrei potuto fare e tutto sarebbe stato più facile per la carriera e per la vita, perché è difficile essere liberi, qui. Ma mi sarei allontanato da questo giacimento che amo ma che, purtroppo, è stato ed è nelle mani di gente sbagliata. Qui bisogna che lo Stato si svegli e cominci a colpire chi svende, chi sta saccheggiando. Lo Stato ci ha abbandonati e se non arriva un Ministro della Cultura che sappia davvero fare cultura, non ne usciremo. Da soli non possiamo uscirne.

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