“Non esistono verità medie” - George Santayana
HomeVoce del verbo restare"Voce del verbo restare". Gaetano Saffioti

“Voce del verbo restare”. Gaetano Saffioti

saffioti gaetano600di Valeria Guarniera – “Ti auguro di poter iniziare un articolo così un giorno: c’era una volta la ‘ndrangheta”. Mi saluta così Gaetano Saffioti, al termine di una bellissima chiacchierata: col pensiero rivolto al futuro e lo sguardo fiero e colmo di speranza. Imprenditore, testimone di giustizia, uomo libero tra tanti schiavi, racconta di sé senza prendersi troppo sul serio: “Se salgo un piedistallo rischio di cadere”. Ha respirato, sin da piccolo, l’aria pesante di una terra sottomessa – “Vent’anni fa, a Palmi, la parola ‘ndrangheta neanche si sussurrava. Ma c’era, l’aria ne era impregnata” – e ne ha conosciuto contrasti e sfumature. Estorsioni, incontri con i boss, minacce per niente velate: non sono bastate a piegarlo. Le sue denunce hanno portato alla maxi operazione “Tallone d’Achille”: un duro colpo alle cosche della piana di Gioia Tauro che gli ha cambiato la vita, blindandola. Resiliente incapace di rassegnarsi, non si è mai pentito della scelta che ha fatto. La rifarebbe, altre cento volte: “Sarà pure blindata, ora che ho la scorta. Ma è libertà e profuma di buono”. Inutile parlargli di coraggio, per denunciare – spiega – serve avere paura: “Far vivere mio figlio da schiavo mi fa più paura delle loro minacce. Perdere la dignità è peggio delle loro ritorsioni”. Un passato nero e un presente a tinte fosche: la Calabria è terra martoriata che però può rinascere: “Possiamo accusare gli altri, lo Stato, il sistema corrotto. Ma autoassolverci giudicando le colpe degli altri non ci salverà. Cittadini, società civile: solo noi possiamo salvare la Calabria. Perché l’antimafia non è una medaglia che si indossa all’occorrenza: è un lavoro quotidiano e silenzioso. E’ libertà di scegliere. Integrità nell’agire. Volontà di esserci”.

–banner–

Guerra di mafia, anni ’70. I morti per strada erano tanti, c’erano giorni in cui si diceva “a chi tocca oggi”… è questo il clima in cui sei cresciuto, mentre la sanguinosa faida di Palmi lasciava più di 60 cadaveri dietro di sé. Già allora le mire estorsive verso la tua famiglia erano pesanti. A tuo padre la parola ‘ndrangheta però non l’hai mai sentita pronunciare e tu l’arroganza mafiosa l’hai scoperta attraverso le lacrime di tua madre

Vent’anni fa la parola “‘ndrangheta” neanche si sussurrava. C’era, certo. Ma non se ne parlava. A quei tempi non c’era internet, non c’era informazione. Vivevi in quel mondo pensando che fosse l’unico. Per andare fuori da Palmi dovevi chiedere il permesso: andavi “oltre i confini” , in posto straniero e tu eri ospite. Non c’era bisogno di parlarne: la ‘ndrangheta si respirava nell’aria. Già da ragazzo ricordo alcuni miei compagni “figli di” … si sapeva, e ricordo anche il timore, il “rispetto” da parte di alcuni professori. Essergli emico significava essere un gradino più su degli altri. Passare dalla loro parte era un fatto di prestigio.

Succedeva allora e succede oggi…

Purtroppo sì. Ma i ragazzi di oggi dovrebbero capire che basta guardare il passato: che fine hanno fatto queste persone? Che vita hanno fatto? Ancora oggi qualcuno guarda gli ‘ndranghetisti come miti. Si avvicinano, sperando di arrivare chissà dove, di tentare la scalata. Di “sistemarsi”, quantomeno. Ma, nel migliore dei casi, restano manovali. Perché è la famiglia quella che conta. E in una specie di federalismo – io li chiamo “feudi uniti” – ogni famiglia detta legge nel suo territorio, restando però sempre vincolata alle leggi di altri feudatari. Ed è un continuo chiedere il permesso a quello che conta di più, fino ad arrivare a chi comanda su tutto. In quel mondo ognuno è schiavo di qualcun altro e le varie alleanze servono a diventare più forti.

Dinamiche che tu conosci bene, facciamo un passo indietro. Innamorato dei mezzi meccanici già da ragazzo, riesci a fare della tua passione un lavoro. Diventi imprenditore in un settore delicato, quello delle costruzioni e la tua azienda cresce. Iniziano le intimidazioni: tutti ti chiedono soldi, la situazione diventa insostenibile. Decidi di ribellarti: piazzi telecamere all’interno del tuo ufficio e cominci a registrare le richieste di estorsione. Volevi le prove di ciò che avresti denunciato. Telecamere ben visibili, di cui nessuno si preoccupava, tanta era l’arroganza e la forza del potere di sottomissione che pensavano di avere su tutti. Sembra un film, ma la realtà supera la fantasia: le “ambasciate” a volte non bastano e capita che ti ritrovi faccia a faccia con i boss

Sì, ho iniziato a registrare le loro visite: volevo dimostrare di non essere stato colluso e di non averci guadagnato niente. Per me era fondamentale. Se non lo avessi fatto chi mi avrebbe creduto? Loro ci hanno provato poi a farmi passare per “complice”, ovviamente è stato tutto smentito. Ho vissuto esperienze terribili che non posso – e non voglio – dimenticare. A volte mentre parlavamo all’improvviso mi chiedevano di seguirli, e lì non puoi fare altro: vai ma non sai se torni. E’ una vera e propria strategia: ti portano al cospetto del boss per farti sentire “nessuno mischiato con niente”, come a dire “tu esisti perché io ti faccio esistere”. Per loro ero un debole, colui che abbassava la testa e accettava determinate regole. Del resto non prendevano neanche in considerazione la possibilità di una denuncia o comunque di una mia ribellione, sarebbe bastata anche una piccola perquisizione per scoprirmi mentre li registravo. E anche vedendo la telecamera nell’ufficio mostravano la loro sfrontatezza: “Tu registra, se sgarri sai cosa succede”. E me l’hanno pure detto in faccia che avrei potuto denunciare, che una volta usciti dal 41bis mi avrebbero ammazzato. Quella è gente malata, convinta davvero di poter governare su un territorio, sostituendosi ad uno Stato di cui si sentono vittime. Pensano di essere i salvatori della Patria, che col loro modo di fare possano aggiustare le cose. Si sentono portatori di un potere assoluto, sulle cose e sulle persone. E quelle che fanno, per loro, non sono estorsioni, piuttosto una sorta di dazio, una tassa dovuta per occupare il loro territorio. Non pagare significa essere cittadino ribelle, occupare qualcosa in maniera abusiva: “Io sono il padrone – pensano e dicono – e tu mi devi pagare per il posto che occupi”.

“La classe imprenditoriale calabrese – diceva in quel periodo il magistrato Pennisi – è tutta collusa”. Tu, che cercavi un interlocutore valido, arrabbiato andasti da lui: “Mi chiamo Gaetano Saffioti e non sono un codardo”. A lui consegnasti tutto il materiale raccolto: scatta la maxi operazione “Tallone d’Achille”. La tua famiglia lo apprende dal telegiornale, li avevi tenuti all’oscuro di tutto. Da allora testimone di giustizia

Avrebbero provato a fermarmi, è naturale. Bisogna tornare al momento storico in cui eravamo: qua veramente ammazzavano o squartavano la gente per strada, giocavano a palla con la testa della gente. Vivere in un clima del genere non è facile e se avessi detto quello che volevo fare li avrei terrorizzati. La parola ‘ndrangheta – ripeto – neanche si sussurrava. 

Mentre la magistratura cercava di capirne i meccanismi tu, avendo avuto a che fare con più famiglie, avevi già compreso le dinamiche interne della ‘ndrangheta

Assolutamente sì. Ed io ho vissuto l’evoluzione della ‘ndrangheta, la trasformazione. Oggi non ci sono più le estorsioni, e la manovalanza che và a chiedere il pizzo è solo una piccola parte che serve più che altro a controllare il territorio. Per dire “ci siamo noi”, questo è il messaggio che cercano di trasmettere alla gente. Il loro obiettivo è tenere questa terra sottosviluppata: non gli interessa che aumentino le imprese a cui chiedere soldi, non è quella la loro fonte di reddito. A loro importa che tutto resti immobile, per poter rappresentare in questa miseria “l’amico da cui andare”.

Come sono cambiate le tecniche estorsive?

Oggi è l’imprenditore che cerca l’alleanza con la ‘ndrangheta, è qui l’evoluzione. Specie nel mio settore, che è quello delle costruzioni, è qualcosa di inimmaginabile. C’è un mondo che non si vede ma che tutti gli imprenditori conoscono. Le gare sono assegnate ancora prima che si appaltino, i vari sistemi sono tutti già predefiniti. E sta qui l’evoluzione: l’imprenditore cerca l’alleanza pur di poter fare quel lavoro, rispondendo ad altre logiche estorsive. Oggi estorsione significa depotenziamento dei materiali, andare da fornitori che altri hanno deciso per te, dare mazzette a chi può chiudere occhi, orecchie e naso. Il ragionamento che fa la ‘ndrangheta è semplice: quello che l’imprenditore dà, non lo toglie dalle proprie tasche, ma viene direttamente dal pubblico. Da noi. E le opere – esattamente come la tela di Penelope – si fanno perché si devono rifare, con la precisa intenzione di non completarle mai. E quindi l’imprenditore dice: “E’ sempre stato così, sempre sarà. Io non sono un eroe. Se mi ribello io, arriva un altro che ci guadagna al posto mio. E chi me la fa fare, non sono certo io a poter cambiare un sistema di cui sono vittima. E’ così e non c’è altra strada”. Si giustifica e si autoassolve dai suoi comportamenti. Ma non è giusto ed io cerco di dire che un’altra strada c’è.

Alimentare un sistema corrotto adattandosi come se non ci fossero altre vie, lo rende ancora più forte

Assolutamente. E loro hanno fatto bingo. Perché così tutti ci guadagnano in qualche modo e nessuno li denuncerà mai. La ‘ndrangheta può finire secondo me per tre ragioni. In sinergia sarebbe meglio, ma ne basta una delle tre. La prima: ci vorrebbe un legislatore serio. Pene certe non solo per un senso di giustizia o di vendetta, ma per mandare un messaggio certo: chi sbaglia deve pagare. Io farei una rivoluzione nelle carceri, perché questi da lì continuano a comandare e quando escono fanno peggio di prima. La seconda: un cambio di mentalità dei figli della ‘ndrangheta, che dovrebbero avere uno scatto e voler cambiare il loro modo di vivere. Ma deve essere una scelta personale, non può farla lo Stato, perchè il legame resta. Allora, se quando nasci in determinati contesti e – dopo aver respirato aria di ‘ndrangheta da piccolo, con tua madre che grida vendetta per un parente ucciso, tuo padre che ti fa sentire un re, il contesto sociale che ti identifica con l’appartenenza ad una determinata famiglia e per strada ci si “inchina” al tuo passaggio – riesci a distaccartene: quello è l’inizio del vero cambiamento. Ma è un’utopia, lo so. E poi la terza che, per quanto possa sembrare assurdo, è la più attuabile: riprendere il senso morale e i valori del vivere in una società civile. Perché le vere vittime – e quelle che possono cambiare le cose – sono principalmente i cittadini, siamo noi: non pagando caffè, non chiedendo favori, non autoassolvendoci. Sembra sia sempre colpa degli altri: ma tu, che hai fatto? Troppo facile dire che lo Stato non c’è. E volte magari è pure vero. Ma tu ci sei? E’ semplice: la ‘ndrangheta esiste perché noi la facciamo esistere. E’ una questione di domanda e offerta, niente di più. Si tratta di scegliere di dare ai nostri figli un futuro migliore, a cominciare dal presente. Senza aspettare chissà che. E senza il bisogno di fare a tutti i costi gesti plateali. Basta poco. Che io debba avere la scorta è una sconfitta per lo Stato: la società civile dovrebbe essere la mia scorta. E se io non lavoro a perdere siamo tutti, perché è lavoro che genera lavoro ed è pulito, serio, onesto, legale. Altrimenti continueremo con il lavoro in nero, sottopagato e grazie all’amico. Le cose vanno avanti anche senza gli imprenditori onesti, certo. Ma a che prezzo? E chi ne paga le conseguenze?

“Siamo sotto la giurisdizione della ‘ndrangheta, anche se geograficamente siamo in Italia”. Parole pesanti: ti sei sentito abbandonato dallo Stato?

No, io allo Stato non ho mai chiesto nulla. Se non ciò che gli spetta. Però lo Stato deve dimostrare che qui c’è, che il territorio è dello Stato italiano. Che solo il rispetto assoluto delle leggi consente di affermare che è lo Stato a governare su quel territorio. Qui lo Stato è sovrano? Non lo so… C’è un mondo parallelo: loro sono degli illusionisti e quella che vedi non è la realtà, è l’apparenza. Siamo dentro un sistema corrotto di cui lo Stato – una parte, quantomeno – è parte integrante. Ma attenzione, non dobbiamo nasconderci dietro il dito, e questa non deve essere la scusante perfetta al nostro restare immobili. Bisogna avere fiducia nello Stato, non per forza in tutti gli uomini che lo rappresentano. Ma lo Stato c’è, se non avessi avuto fiducia non avrei denunciato. Lo Stato siamo anche noi. Quando ce la prendiamo con la politica, dimentichiamo che ad eleggerli siamo noi. Tendiamo troppo facilmente a deresponsabilizzarci.

Non ci si espone: nel 2014 sei andato personalmente a demolire un bene appartenente ad una famiglia di ‘ndrangheta. Le gare erano andate deserte: “La casa di un boss non si tocca”

Non ho partecipato a gare: in quell’occasione sono stato chiamato dal Prefetto e l’ho fatto volentieri per diverse ragioni che pochi hanno evidenziato e capito. Molti guardano il lato eroico, sfrontato, coraggioso di lotta alla ‘ndrangheta. Ma non è stato quello a spingermi. Primo, essere aiuto dello Stato; secondo, essere aiuto della società civile; terzo, “sputtanare” le amministrazioni, come a dire: ti ricordi di me quando hai bisogno? E il giorno dopo perché non mi inviti alle gare? Io voglio essere veicolo di un messaggio positivo, ma ti dirò: in quell’occasione sono stato pure “cazziato” da alcuni organi istituzionali “ché questi gesti plateali non vanno bene”. Allora, hai presente la canzone “Sei bello e ti tirano le pietre, se sei brutto ti tirano le pietre. Qualunque cosa fai, sempre pietre in faccia prenderai”… è così. E ti senti a volte tra l’incudine e il martello. Bisogna essere liberi a 360°: con lo Stato, con le istituzioni, con le associazioni.

Le associazioni antimafia, che ruolo hanno nel processo di cambiamento?

Io parto da un presupposto: se vuoi essere credibile, devi parlare meno e agire di più. Bisogna dimostrare le cose: i fatti sono incontrovertibili. Ci sono tanti esempi positivi, per fortuna. Ma anche lì c’è gente che ci marcia e che l’antimafia lo fa di professione. Il modo migliore per fare antimafia è dare l’esempio. Quando – invitato da associazioni a convegni o incontri con i ragazzi – vengo a sapere, dopo aver rifiutato, che c’è stato chi si è fatto pagare l’albergo cinque stelle, il volo, il pranzo, la cena, il caffe… resto allibito. E questa è l’antimafia? Questo messaggio che diciamo di voler portare? Quello deve essere puro volontariato. Da una parte diciamo di non aver fatto niente di speciale e dall’altra ci atteggiamo da eroi. E’ importante andare in giro a raccontare la nostra esperienza, perché da quella i giovani possono prendere esempio. Possono capire che non è una battaglia persa. Che siamo in guerra, sì. Ma che le armi di cui disponiamo sono altre rispetto alle loro.

E nei ragazzi con cui parli, cosa trovi?

In loro vedo un futuro possibile. E a loro chiedo sempre scusa, perché non gli abbiamo dato un mondo migliore. Però aggiungo: ragazzi, le mie scuse non devono essere per voi un alibi, ma un pesante fardello . Perché noi oggi vi diamo le coordinate che riteniamo giuste. Sta a voi scegliere se seguirle o meno. Altrimenti un domani a quelli che verranno dopo di voi dovrete chiedere il perdono. Ieri non si sapeva, oggi si sa tutto. E davvero non ci sono più scuse: le cose si sanno, bisogna scegliere. Non è tutto facile, non voglio dipingere dei contorni rosa nel quadro che gli presento. Ma oggi le condizioni sono diverse, e si può decidere se stare da una parte o dall’altra, senza sentirsi soli. Il messaggio è semplice e sincero: la vita finisce? No! La vita continua e migliora. 

“La ‘ndrangheta non dimentica” hai detto. Qual è il tuo rapporto con la paura?

Ci sono momenti di scoramento, nervosismo, rabbia. Riflessioni che fai quotidianamente: tutti i giorni e tutte le notti. La ‘ndrangheta è terrorismo puro perché terrorizza le persone. E’ qui che io cerco di fare una distinzione. La paura è fondamentale, ti aiuta a riconoscere il pericolo. L’importante è non avere terrore, perché questo ti paralizza, non ti fa ragionare: commetti atti inconsulti, fai scelte sbagliate. La paura ti protegge e ti aiuta a riflettere. Io non sono d’accordo con chi dice che per denunciare bisogna avere coraggio. Io dico che bisogna avere paura. Che cosa ti fa più paura: le loro minacce o la perdita della libertà? Hai più paura di ribellarti o di lasciare tuo figlio in questo meccanismo? Questo è il genere di paura che mi ha salvato. Mio figlio vive sotto scorta, è vero. Ma paradossalmente l’ho reso libero. La scorta è la conseguenza di una scelta, ma è lì proprio per renderti libero. Non è non denunciando che ti salvi: se resti in quel gioco di potere – fatto di lotte tra clan, di territori controllati oggi da uno e domani da un altro – rischi pure di finirci in mezzo. Denunciare è una forma di tutela.

Eppure gli imprenditori che denunciano, in Calabria, sono pochi…

La società civile deve fare la sua parte, non si può aspettare sempre che sia lo Stato a fare i miracoli. Non mi stancherò mai di dirlo. Denunciare oggi è più facile: c’è una maggiore consapevolezza, ci sono aiuti – che non devono rappresentare però una forma assistenziale – e c’è maggiore informazione. Oggi la parola ‘ndrangheta si pronuncia a voce alta. E la si può anche denunciare. Ma farlo lamentandosi, dicendo che dalla denuncia in poi tutto va male, che ci si sente abbandonati non serve a nulla: è un messaggio sbagliato che, facendo il gioco della ‘ndrangheta, fa passare il messaggio sbagliato. Lamentarsi è un diritto, perché a volte le cose vanno male, non lo voglio negare. Ma bisogna farlo nelle sedi opportune, altrimenti si dà il proprio sangue in pasto agli squali. Io agli imprenditori dico questo: non aspettate di restare con le spalle al muro. Molti denunciano per questioni economiche: quando, strozzati dalle richieste di pizzo, stanno fallendo e non ce la fanno più. Ma sono altre le ragioni che devono spingerti: la tua libertà, la tua dignità.

Ci si lamenta spesso della mancanza di uno Stato che tuteli davvero chi denuncia…

Ora, lo Stato ha le sue responsabilità e non sta a me difenderlo. Ma può arrivare fino ad un certo punto. Prima e oltre ci dobbiamo essere noi. Se io denuncio e lo Stato mi aiuta – attraverso modalità differenti che vanno ad aiutare nei momenti in cui far ripartire un’azienda è difficile – a che mi serve se non ho il consenso della gente? Se le gare sono truccate, e non ne vinci una e se il privato non si rivolge a me neanche gratis. E poi codici etici, protocolli di legalità… ma di cosa stiamo parlando? E’ come la definizione “antimafia”: non è implicito? Sempre “anti”… io sono per la libertà, per la dignità, per la crescita di questo territorio. La ‘ndrangheta affonda le sue radici nell’illegalità diffusa, il vero problema è la corruzione: e in questo contesto – fatto di scorciatoie, di amici degli amici e di persone che si girano dall’altra parte – rappresenti un peso: avere a che fare con te, che hai denunciato, diventa quasi una seccatura. Certamente allontana i tanti che cercano di trarre vantaggio dalle situazioni.

Essere simbolo di legalità è un limite?

Purtroppo si, ne sono convinto. E’ la società che non vuole il cambiamento, che si rifugia dietro l’alibi della paura – che non è quella della ritorsione, ma della emarginazione da parte del tessuto sociale – e si adatta. L’emarginazione, io l’ho vissuta: qui non si è fatto più vivo nessuno. I politici che si consumavano le scarpe, li hai visti più? Neanche le congreghe vengono più a chiedermi l’obolo. Ora c’è un ritorno di fiamma, ma è di facciata: rappresento un brand e fa comodo dire “Io sto con Saffioti”. Ma prima dov’eri? Io dico che se un popolo soffre si ribella… ed io ribellioni forti non ne vedo. L’errore più grande è non fare niente: anche se ci sembra poco, dobbiamo farlo. Siamo gocce nell’oceano. Paradossalmente, è talmente facile che diventa difficile. Si aspetta sempre l’altro. E il silenzio, è consenso. A volte c’è chi si offende e dice che “quelli” sono la minima parte, che la Calabria è fatta di gente per bene. E’ vero. Ma dobbiamo intenderci sul significato di “gente per bene”: non basta non spacciare droga o non affiliarsi per essere persone per bene. Chi cerca la raccomandazione, l’impiegato che si fa timbrare il cartellino o che si finge ammalato, il dipendente comunale che usa la sua scrivania come un feudo e fa passare per favori quelli che sono diritti: questa è gente per bene? La verità è che, ognuno nel suo limite, prova a rubare qualcosa, a trarre qualche vantaggio. Sarà una mazzetta, un favore, una raccomandazione: è il raggio d’azione che cambia, ma nel suo, ognuno prende quel che può.

Sembra scenario apocalittico, una terra di mezzo senza speranza. Però non hai mai avuto dubbi, sei rimasto: “Come non si abbandona un amico, così non si abbandona una terra e i suoi abitanti”

Una scelta atipica per quei tempi, ma è qui il senso di tutto. Perché dovrei essere io ad andarmene? Se togli l’erba buona e lasci la gramigna, questa terra come fa a crescere? Restare per me è stato un punto fermo. Non potrei mai andarmene da casa mia: il mio cielo, il mio mare… non possono portarmeli via.

Articoli Correlati