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Giornata mondiale della salute mentale: anche per Reggio un momento di riflessione

Riceviamo e pubblichiamo:

 

“La giornata mondiale della salute mentale, fissata al 10 ottobre di
ogni anno e riconosciuta a livello internazionale dal 1992, dovrebbe
e… dev’essere un momento di scambio, riflessione e soprattutto
motivo di… opportunità.
Rompere con il passato, dove i manicomi avevano una posizione di
centralità, è un dovere di tutti. Questo può solo avvenire a partire da
una lettura profonda e attenta dei cambiamenti in atto, tenendo
sempre come punto di riferimento la persona nella sua complessità,
nei suoi bisogni e nei suoi diritti.
Scrivere o parlare di disagio mentale non è stato mai facile perché,
parlare di follia, è un tabù che il più delle volte scade nel
paternalistico, causa dell’assistenzialismo in auge oggigiorno.
Il modello classico di trattamento, imposto dall’alto, vede la società
cosiddetta “normale” imporre modelli sempre più orientati a forme
d’intervento e tecnicismi clonali e omologanti.
L’inclusione, parola molto in voga anche in politica,
nell’intendimento generale non contempla la reciprocità e quindi
non considera il disagio mentale come una modalità dell’essere
umano di stare al mondo.
Con queste prerogative esistenti, l’inclusione mostra tutta la sua
inefficacia con evidenti squilibri di potere, che hanno condotto
sempre più il concetto di cura verso una costante involuzione.
L’aspetto sociale che riguarda ogni persona con disagio mentale
viene spesso sottovalutato o messo in ombra dall’approccio medico-
organicista che, per deformazione e costituzione deontologica, vede
solo la malattia da curare e quasi mai la persona.
La visione medica ha da tempo condizionato la narrazione comune,
impossessandosi di ogni ambito sociale, politico, culturale e

linguistico, trasformando la persona con disagio mentale e il
cittadino con diritti, passatemi il termine dialettale, in “malateddu”.
Con questo non voglio assolutamente criticare la medicina, sarebbe
alquanto stupido e lontano dal mio pensiero, ma ritengo che tutte le
discipline legate alla disabilità dovrebbero collaborare e percepire
l’altro come pari e non considerare la disabilità esclusivamente da un
punto di vista funzionale, questo può avvenire solo facendo appello
all’incertezza del “nostro sapere”.
La persona con disagio mentale, considerata da sempre più sotto un
profilo (non veritiero) della pericolosità sociale, viene stigmatizzata e
istituzionalizzata a difesa di una società dei sani che ha paura solo di
scoprire nella follia le proprie contraddizioni e fragilità.
La deistituzionalizzazione, come superamento concettuale del
legame malattia-pericolosità, passa da politiche sociali che si battono
contro la solitudine e l’isolamento, a favore dei diritti dei singoli
cittadini, senza discriminazione.
Oggi, come uomo e operatore psichiatrico, sento sempre più il
bisogno di parlare, di proporre, di prendere posizione, pur non
sostenuto per via di un clima generale di rassegnazione o deleteria
incuranza, soprattutto nel nostro territorio e nell’ambiente sociale
locale, ormai in macerie per politiche assurde e complicità di
convenienza.
Bisognerebbe ritornare a quel concetto di comunità (la città che
cura) e all’umanizzazione delle pratiche, da cui in passato sono
scaturiti cambiamento e ricostruzione, partendo dall’ascolto e dal
confronto. Tutte belle parole, mi viene da pensare, che si scontrano
di fronte ad un ambiente sociale, politico e culturale frammentato e
discontinuo al quale non voglio e non dovremmo rassegnarci.
La cultura della salute mentale ha difficoltà a trovare cittadinanza in
un contesto territoriale come il nostro, dove la politica dei posti letto

la fa da padrona, dove ancora ci si considera solo alternative al
manicomio senza mai fare il passo successivo. Dove il paradigma
medico è dominante con termini come “struttura”, “paziente”,
“diagnosi”, “pericolosità”, “aggressività”, etichettando la complessità
umana e cercando di risolverla racchiudendola indistintamente in
contenitori concettuali.
Ringrazio chi ha avuto la gentilezza di pubblicare e leggere questo
articolo, rimanendo speranzoso e disponibile a qualsiasi confronto
che abbia l’intento di approfondire i temi trattati e soprattutto di
passare dalle parole ai fatti. Il sociale e la psichiatria soprattutto,
reggina e calabrese, hanno bisogno di pragmatismo e di uscire
dall’involucro stagnante in cui sono relegati. Vorrei che si riprendesse
a contrastare le discriminazioni, insieme e partendo da quel
movimento fatto da pazienti, famiglie, operatori e cittadini, che in
passato ha reso l’Italia simbolo della rinascita della prassi psichiatrica
mondiale. Avere la possibilità di incontrarsi e discutere non è una
perdita di tempo, come taluni affermano, ma è il punto di partenza
prezioso da cui inizia qualsiasi percorso formativo e di cambiamento.”

Giuseppe Foti, operatore psichiatrico.

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