L’11 marzo La Strada prenderà parte a Crotone alla manifestazione nazionale “Basta morti nel Mediterraneo”.
Il naufragio di Steccato di Cutro, l’ultima di una serie di tragedie che hanno trasformato il Mediterraneo in un cimitero sommerso, trova la sua origine profonda e lontana nella pulsione securitaria che respinge vite in fuga dalla disperazione, donne, uomini, bambini in cerca di soccorso, accoglienza, rifugio e riparo.
Come ci ha ricordato, con terribile evidenza, la sciagura di Cutro, le vite respinte diventano spesso, disgraziatamente, vite sommerse.
Quando le vite sommerse riaffiorano, i cadaveri straziati dai flutti chiedono giustizia in nome di un gigantesco dolore, così grande che nessuna coscienza che voglia proclamarsi umana può permettersi di eluderlo, di fare spallucce, di mettere da parte la responsabilità, di non riconoscere la colpa.
Perché, eticamente, siamo colpevoli. Noi, al di qua delle mura della “Fortezza Europa”, di cui l’Italia è propaggine e avamposto.
Colpevoli le autorità italiane ed europee quando hanno finanziato la “guardia costiera libica”, quando hanno chiesto alla Turchia di “gestire i flussi” di rifugiati al confine con la Grecia. Intese scellerate, nate per nascondere la polvere della disumanità sotto il tappeto di accordi cinici e ipocriti.
Colpevole chi ha smantellato Mare Nostrum, chi ha criminalizzato le ONG, secondo la teoria infondata del pull factor, come se i soccorsi in mare fossero un fattore in grado di incentivare le partenze. Chi fa propaganda anti-ONG utilizzando un tale sofisma, smentito dalla ricerca scientifica in merito, offende l’intelligenza dell’opinione pubblica ipotizzando relazioni inesistenti tra cause ed effetti.
La realtà è che esiste un push factor enorme: la disperazione generata da guerre, violenze, persecuzioni, discriminazioni, povertà, carestie. Checché ne pensi il ministro Piantedosi, che i disperati cerchino e chiedano salvezza e speranza è quanto di più umano possa accadere, ed è nostro dovere etico dare salvezza. È nostra cifra morale andare in cerca di e salvare chi rischia di essere sommerso: search and rescue, “cerca e porta in salvo”, è l’imperativo morale dentro di noi, scritto idealmente sul cielo stellato della bandiera europea, se ancora quella vuol essere una “bella bandiera”.
Sabato 3 marzo siamo stati al Cimitero dei migranti di Armo. La cosa che più ci ha colpito, nel corso di quella visita così toccante, è stata leggere la targa “ignoto” apposta sulle tombe senza nome.
Il nome è la cifra della dignità inalienabile che attribuiamo alla persona umana, all’unicità di un’esistenza. Che un nome, il segno di un’esistenza e di un destino, sia confuso e perso tra i flutti di un naufragio, aggiunge un orrore muto al trauma cieco della morte. Abbiamo lasciato sulle tombe l’omaggio simbolico di un fiore: perché dove è venuto a mancare il nome, deve accorrere tutta la pietas di cui siamo capaci, verso l’Altro che bussa alle nostre porte, non solo da fuori, ma da dentro.
L’accoglienza è un’istanza dell’anima. Il modo in cui trattiamo lo straniero ci dice chi siamo diventati, che tipo di comunità abbiamo fondato.
Perché, con le parole di Donatella Di Cesare, lo straniero è “fondamento e criterio della comunità”. Se respinge lo straniero, una comunità muore. Rifiutare chi viene da “fuori” è un modo per morire dentro.
Il presente comunicato è basato su una sintesi dell’intervento di Fabio Domenico Palumbo, attivista del movimento La Strada, al presidio di sabato 4 marzo davanti alla Prefettura di Reggio Calabria.