“La devianza minorile è un fenomeno multifattoriale, che può essere letto da molteplici punti di vista: giuridico, sociale, culturale, economico, psichiatrico, neurologico, antropologico e così via. La mia prospettiva di psicologo e psicoterapeuta è soprattutto attenta alla dimensione evolutiva, cioè alla relazione tra adolescenza e reati”. Lo ha affermato l’avvocato Pasquale Golia specializzato in diritto minorile, al quale abbiamo chiesto di esplicitare i vari aspetti del sistema penale minorile, la loro efficacia e la messa alla prova.
“In pratica, il sistema penale può agire a tre diversi livelli. Ad un primo livello la risposta è reattiva. Di fronte ad un adolescente impulsivo, che non sa controllare il proprio comportamento, che non ha sensi di colpa e che non valuta le conseguenze del reato, -osserva Golia- l’intervento penale interviene controllandolo, attraverso misure restrittive della libertà, giudicandolo colpevole e cercando di svolgere una funzione di deterrenza con la pena. Questa risposta è inevitabile per fermare il comportamento distruttivo e è giustificata socialmente, perché lo Stato si assume una funzione di giustizia sociale, avocando a sé l’erogazione di punizioni, per evitare il rischio di una catena di vendette private”. Le misure restrittive adottate dalla magistratura minorile sono risolutive?
“Questa risposta basata su una logica accusatoria, sanzionatoria e di controllo sociale è inevitabile, ma non è in grado di produrre una riduzione della recidiva, che rischiano in realtà di aumentare, con un effetto iatrogeno”.
“Un secondo livello di risposta -continua Golia- è rieducativo o riabilitativo, perché non si limita a reagire al comportamento deviante per controllarlo, ma cerca di insegnare al minore ad acquisire maggiori capacità di controllo e una maggiore sensibilità alle conseguenze del proprio comportamento. Questo intervento, che può essere realizzato con progetti di diverso tipo e con interventi educativi, sociali o terapeutici, è in realtà efficace. E tuttavia è basato sul presupposto di una “correzione” degli errori del minore, che per raggiungere gli obiettivi prefissati deve riconoscere una propria mancanza o deficit, che necessita di un intervento riabilitativo. Non sempre, tuttavia, anche quando riconoscono il reato e sono disposti a pagarne le conseguenze, gli adolescenti sono pronti a considerare davvero il disvalore sociale dei loro comportamenti”.
“A questi due livelli di intervento -aggiunge Golia- è possibile aggiungere una terza prospettiva, che è attenta ai bisogni evolutivi che sono alla base dei reati. Se un reato è anche un modo, per quanto disfunzionale e deviante, per tentare di realizzare un bisogno evolutivo, allora l’intervento del sistema penale può essere orientato a farsi carico di questo bisogno, indicando nuove vie per realizzarlo. Questa prospettiva non è solo correttiva, ma è progettuale, perché cerca proprio di aiutare l’adolescente a raggiungere il compito evolutivo che cercava di realizzare in modo disfunzionale con il reato”. Con la messa alla prova, per come indicata nel codice di procedura penale minorile, avrà sicuramente una funzione educativa?
L’avvocato Golia in proposito chiarisce che “la messa alla prova prevista dal codice di procedura penale minorile è in linea con questi principi e livelli di intervento, perché non ha solo una funzione rieducativa, ma è orientata da obiettivi positivi, di costruzione di un progetto di sviluppo e di responsabilizzazione sociale, che riapra la speranza di una realizzazione personale. In questa prospettiva l’obiettivo del sistema penale non è di colpevolizzare o punire il minore, ma nemmeno solo di rieducarlo, bensì di capire i bisogni che sono nascosti nel gesto deviante per aiutarlo a trovare nuove soluzioni”.
“La messa alla prova ha un alto tasso di esiti positivi, intorno all’80%, ma non è esente da difficoltà. Pur essendo in grado di realizzare una riduzione del tasso di recidiva, se confrontata con interventi punitivi o anche con il perdono, non è certamente in grado di azzerarlo.
La logica della messa alla prova è soprattutto basata sull’obiettivo di responsabilizzare il minore sulle conseguenze del suo comportamento, anche attivando funzioni riparative. Comprensibilmente l’attenzione è, quindi, rivolta al minore. In molti casi questi obiettivi possono essere raggiunti, seppure con molte difficoltà e attraverso percorsi non certo lineari, ma irti di ostacoli.
In molti altri casi, tuttavia, si rischia di sottovalutare alcuni problemi. In primo luogo, -chiarisce Golia- soprattutto nella prima parte dell’adolescenza, le capacità di responsabilizzazione sono ancora in fase di sviluppo e il rischio dei progetti di messa alla prova è di chiedere troppo al minore, colludendo in fondo con l’immagine che ha di sé, di qualcuno che se la può cavare da solo.
In secondo luogo, sulla spinta della responsabilità individuale del reato, si finisce per sottovalutare il peso del contesto, in primo luogo della famiglia, come fattore che è alla base dei comportamenti devianti. Molte messe alla prova non hanno l’esito sperato o possono comunque portare a recidive non solo per una mancata adesione del minore, ma per problemi all’interno della famiglia, un mancato supporto al progetto di messa alla prova o più in generale alle esigenze evolutive del figlio.
È fondamentale, quindi, che per raggiungere l’obiettivo di una responsabilizzazione del minore sul suo comportamento, siano prima di tutto gli adulti a responsabilizzarsi, la famiglia innanzitutto, ma anche tutto il sistema penale.
I ragazzi che commettono reati pensano -conclude l’avv. Golia- spesso di poter fare da soli e non chiedono aiuto. È importante, invece, che imparino a fidarsi di qualcuno, che imparino a chiedere e per questo la presenza di adulti che si assumono la propria responsabilità per lo sviluppo dell’adolescente è il primo requisito perché l’adolescente stesso possa a sua volta sviluppare un senso di responsabilità sociale”.
L’avvocato Golia (Cresesm): “La devianza giovanile può essere affrontata con misure restrittive, rieducative e con la messa alla prova”
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