di Alfredo Muscatello – Sono arrivate tanti commenti ma poche foto di risposta all’articolo del 24 aprile
Una tra queste ritrae una Reggio educata, descritta da un traffico leggero su un asfalto assolato, di sfondo una villa che in un’altra città avrebbe fatto parlare di sé come riferimento e passaggio obbligato in una visita turistica. Non la nomino perché farlo riaccenderebbe solo per il nome una serie di consensi facili, tuttavia pochi sanno realmente la sua storia.
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Un tempo dimora nobiliare dei Marchesi Genoese, Villa Zerbi sorgeva sul Corso reggino affacciato sullo Stretto. L’edificio originario, in stile barocco, fu distrutto dal terremoto del 1908. Ma nel 1915, la famiglia — ormai Genoese Zerbi — ne volle la ricostruzione: nacque così la villa che conosciamo oggi, con il suo stile neogotico veneziano, ricco di logge, bifore e merlature, frutto del progetto dell’ingegner Domenico Genoese Zerbi.
Nel secondo dopoguerra, la villa divenne un punto di riferimento per l’arte e la cultura della città. Mostre di rilievo, eventi legati alla Biennale di Venezia, presenze importanti come Salvador Dalí e Gianni Versace, restituirono all’edificio un ruolo centrale nella vita pubblica reggina. Eppure, questa vocazione culturale si interruppe, lasciando spazio a lunghi anni di chiusura e abbandono.
Negli ultimi anni, una nuova gestione privata ha restituito alla villa decoro e vitalità. Oggi è sede di un’attività legata all’alta pasticceria, curata e aperta al pubblico. Non è più un centro culturale, ma almeno è tornata a vivere, mantenuta con attenzione. Resta così una presenza importante nel paesaggio urbano di Reggio, memoria concreta di un’identità cittadina che meriterebbe continuità, non solo rievocazione.
Mi piace pensare al tempo che attraversa il tempo, all’architettura urbana, alla vita trascorsa che ha intriso le pareti degli edifici rendendoli al loro volta vivi. La sua bellezza e la posizione centrale hanno catalizzato intorno a sé locali e attività che hanno portato la nightlife reggina a far parlare di sé.
Appena rientrato a Reggio, nel 2015, la villa era lì. Bellissima, abbandonata. Faceva da sfondo alle notti in cui ci si raccontava storie per vedere se ancora ci si sapeva stupire. O scandalizzare. Era presente e assente, come certe donne che ti guardano e ti fanno sentire importante solo perché non ti fermano. Guardava come la luna, con quella faccia lì, che non giudica.
La fotografia, per me, era riscatto. Un modo per dire: “ci sono anch’io”, senza urlarlo. Di giorno, quella villa era un patrimonio dimenticato, un pezzo di storia murato vivo. Di notte, invece, raccoglieva tutto: la pisciata sul muro, due passi lenti lungo il fronte, un bacio rubato dal lato più buio. E io la vivevo così. Complice.
Attorno, i locali facevano rumore. La gente beveva, rideva, faceva finta di sapere dove stava andando. Ma lei era lì. Sfondo, mai protagonista. Eppure in centro, proprio lì, al baricentro della città, dove tutto dovrebbe contare un po’ di più. Ma a volte, basta che qualcuno dica “guardala”, o accenni a quello che rappresenta, e subito la trasformano in un punto sulla mappa. Un riferimento, ma per andare altrove.
Invece no. Io da lì ci passavo piano. La guardavo per quello che era: una che c’era rimasta. Come me. E tanto bastava.