di Roberta Mazzuca – “Io capitano, io capitano, io capitano”. Lo urla soddisfatto Seydou Sarr a bordo di un barcone appena giunto sulle coste siciliane, inconsapevole che, una volta sbarcato, quel “capitano” si leggerà solo “scafista”. Si conclude così, con un primo piano “che capita una sola volta nella carriera di un regista”, “Io Capitano” di Matteo Garrone, film candidato italiano agli Oscar e già vincitore alla Mostra di Venezia del Leone d’Argento per la regia. Ed è lo stesso regista a darne notizia, dopo la proiezione della pellicola, dal palco del Cinema Citrigno di Cosenza, dinnanzi a una nutrita ed entusiasta folla di spettatori.
Una storia che si conclude lì dove per noi comincia, su quelle coste da cui ogni giorno si vedono sbarcare o morire centinaia di persone, da cui ogni giorno si ascoltano statistiche e si distribuiscono colpe, da cui ogni giorno, con sguardo estraneo e quasi sempre accusatore, si accolgono persone come fossero solo numeri. “Guarda lì, sono tutti uomini, quelli che dovrebbero restare a combattere in guerra. Siamo sicuri che siano davvero rifugiati? Siamo sicuri che provengano da zone di guerra? Siamo sicuri che stiano scappando da fame e tragedia?”. Sono solo alcuni dei commenti che si ascoltano fra la gente, bombardata da una narrazione stereotipata e carica di pregiudizi, fatta di migranti invasori, colpevoli, “da aiutare a casa loro”. Una narrazione che Garrone, in maniera brillante ed estremamente umana, ribalta totalmente, mostrando dall’interno un’altra storia, quella che non viene quasi mai raccontata.
Una storia diversa già dal suo principio: due ragazzi senegalesi, Seydou Sarr e Moustapha Fall, non hanno apparentemente nessun motivo per partire, almeno non quelli che l’Occidente si è convinto debbano avere. Nessuna guerra, nessuna estrema povertà, solo la voglia di diventare cantanti, di realizzare i propri sogni in un posto che vedono e sperano migliore rispetto a quello in cui vivono.
“Siamo abituati a immaginare sempre che chi viene qui dall’Africa scappa da guerre, cambiamenti climatici, cosa che è vera, perché c’è anche una situazione estremamente drammatica. E c’è tutta una migrazione anche all’interno dell’Africa. Ma esiste anche un altro tipo di migrazione, che è quella che abbiamo raccontato in ‘Io Capitano’. Il 70% degli africani sono giovani, e molti di loro hanno accesso ai social, la globalizzazione è arrivata forte anche lì. E allora hanno la possibilità di vedere l’Europa, l’Occidente. E l’Occidente è per loro luccicante, gli fa delle promesse. Ed è comprensibile che una parte di loro possa avere il desiderio, umano, di voler raggiungere l’Europa per cercare nuove opportunità, così come noi da giovani volevamo andare in America. E soffrono all’idea di non poterlo fare”.
Non è, dunque, un “viaggio senza scelta” quello che racconta Garrone nel suo film ma, e qui sta la straordinarietà dell’intera trama, un viaggio voluto fortemente per scelta. Un viaggio che, emotivamente, appartiene ai giovani di tutto il mondo, desiderosi di sognare e realizzare quegli stessi sogni. Quasi come a dire che non c’è bisogno di giustificazione per desiderare di andare via, quasi come a dire che la libertà di realizzarsi ed essere felici dovrebbe, in egual modo, essere concessa a tutti, e non “dovuta” soltanto se da guerra e fame si è costretti a fuggire. “Il film in qualche modo mette in luce un tema che riguarda l’ingiustizia umana, il fatto che non siamo tutti uguali. Ci sono dei giovani che possono viaggiare e altri che non possono. E mi sembrava che potesse essere importante parlare di questo tipo di migrazione di cui si parla meno. Ho cercato di essere attento a dar voce a chi voce non ha, sforzandomi di essere vero, raccontando spesso anche l’orrore, ma anche la grande solidarietà che si crea fra di loro nei momenti più difficili”.
Ed è esattamente questo che, brillantemente, Matteo Garrone e l’intero cast sono riusciti a raccontare in questa magistrale opera, fatta di dolore, paura, sconforto e sofferenza, ma anche di determinazione, speranza, caparbietà e umanità. L’occhio segue le storie di due giovani carichi di sogni, li vede scontrarsi con la dura realtà della vita e, quasi come un pugno nello stomaco o uno schiaffo in pieno volto, soffre insieme a loro, lì, nel deserto, tra i cadaveri di chi non ce l’ha fatta, o nelle prigioni, tra le torture della mafia libica, o ancora in mezzo al mare sconfinato, abbandonati al proprio destino e alle proprie angosce.
“Seydou e Moustapha hanno fatto il viaggio in parallelo ai personaggi” – racconta il regista. “Nel senso che non gli ho mai fatto leggere la sceneggiatura, e giravamo in sequenza, cioè dalla scena iniziale alla fine. Così, giorno per giorno, scoprivano che avventura li attendeva. E non sapevano che fine avrebbero fatto i loro personaggi ma, come i personaggi, avevano anche loro questo grande desiderio di arrivare in Europa”.
“Io capitano” è stato girato per la prima parte nel quartiere di Dakar, per la scena del deserto del Sahara in Marocco, e per quella della Libia sempre in Marocco, a Casablanca. Tutta la parte del viaggio in mare, invece, è stata realizzata ricostruendo un peschereccio, invecchiandolo, e girando davanti alle coste di Marsala, in Sicilia. “Seydou e Moustapha sono arrivati in Italia, quindi, tre settimane in anticipo rispetto ai personaggi, – spiega Garrone in un divertente aneddoto – e si erano rilassati, stavano in piscina, facevano festa. E allora, sul set, li ho ritrovati che non avevano più quella tensione, quella voglia di arrivare, perché erano già arrivati”.
“Abbiamo scritto la sceneggiatura raccogliendo le testimonianze di chi ha vissuto quel viaggio” – racconta poi Garrone in merito alla scelta di distribuire il film in lingua originale, il Wolof. “Abbiamo scritto la sceneggiatura in italiano, poi l’abbiamo tradotta in francese, e poi dal francese c’era una persona che quotidianamente la traduceva in Wolof dal set. Ho girato il film in una lingua che non conoscevo, e questo ha dell’incredibile, e ad orecchio riuscivo a capire quando gli attori erano nella scena oppure no. Andavo un po’ a sensazione, questo film è per me un po’ magico”. “E stata una scelta combattuta, – continua – ma più coerente rispetto anche alla ricerca di autenticità. Abbiamo fatto un tentativo di doppiaggio in italiano, ma perdeva tanto”.
“Sei anni fa mi ritrovai a Catania da un amico che aveva un centro d’accoglienza per minori, e lui mi raccontò questa storia che era successa a un ragazzo che si chiamava Fofana, che aveva guidato una barca a 15 anni e aveva portato in salvo 250 migranti, e alla fine non aveva resistito all’orgoglio di avercela fatta e aveva cominciato ad urlare ‘Io capitano, io capitano’. Questo racconto mi era rimasto impresso, ma ho rimandato perché temevo di essere in qualche modo un intruso, di entrare in una condizione che non era la mia, di essere l’ennesimo che specula sul migrante”.
“Alla fine, però, ciò che mi spinge a scegliere una storia piuttosto che un’altra è approfondire la condizione umana e l’uomo. In questo caso avevo l’impressione che ci fosse tutta una parte di racconto epico che non era stata mai raccontata, se non in qualche documentario o in immagini crude che si possono trovare su internet. Quindi l’idea di provare a dare una forma di racconto a tutta questa parte che di solito non si conosce, mi ha spinto a occuparmene”.
Un’Odissea contemporanea, dunque, carica di legami umani, “un capolavoro assoluto che accarezza l’anima”, come lo ha definito il presidente della Calabria Film Commission Anton Giulio Grande, in collegamento da Milano. Un film che, come si augura lo stesso regista, “dovrebbe avere vita intensa nelle scuole, di tutta Italia e di tutto il mondo, soprattutto anche in Africa. Sono curioso di vedere la loro reazione, se questo film sarà d’aiuto, come monito per metterli in guardia dai pericoli, e come lo affronteranno”.
Un film che racconta i pericoli del viaggio dei migranti, e che proprio per questo è stato difficile nella sua stessa realizzazione: “Ci siamo ritrovati in situazioni estreme, abbiamo rischiato che potesse finire in tragedia, perché ci sono state scene molto pericolose. Soprattutto quelle con la Jeep nel deserto, oppure quando Seydou è stato legato mani e piedi nel centro di detenzione, è caduto di faccia sul tavolo. Però, come dicevo prima, è un film un po’ magico, e ogni volta che stava per succedere qualcosa, c’era qualcuno che ci salvava”. Un film che chiunque dovrebbe guardare, per compiere quel viaggio “magico” soprattutto dentro se stesso: un viaggio introspettivo nell’anima, nel cuore e nella cultura di chi vediamo ogni giorno diverso da noi, di chi ci viene raccontato come un “pericolo” e invece è semplicemente una “ricchezza”, di chi si è scontrato con la crudeltà di un mondo che a noi appare lontano ma di cui facciamo parte, e che, con i nostri pregiudizi e i nostri sguardi diffidenti, contribuiamo inevitabilmente a creare. Un film-viaggio che racconta di un viaggio, di mille viaggi, di quei viaggi ad occhi aperti che diventano a volte reali. “Molti dei ragazzi che ho incontrato mentre giravo il film hanno fatto il viaggio sulla barca, hanno guidato, e hanno fatto anche due anni di carcere. Non so se ci sono altre realtà, in cui esistono scafisti che li lasciano sulle coste dell’Italia e poi tornano indietro. Forse un tempo sì. Oggi, a giudicare dalle condizioni delle barche con cui arrivano, faccio fatica a pensare che un trafficante di essere umani rischi la vita su quelle barche che cascano a picco. Sembrerebbe che siano barche vecchie che loro lasciano andare a morire sulle nostre coste, e che una volta presi i soldi non gli interessi tanto se vivono o muoiono. Però, io ho raccontato delle storie documentate, e dietro ogni fotogramma ci sono delle persone”.
“Abbiamo voluto essere autentici, per rispetto di chi ha fatto questo viaggio, per rispetto di chi non ce l’ha fatta, e soprattutto per essere d’aiuto come monito a chi sta prendendo questa decisione e sta per andare incontro a tutti questi pericoli” – conclude Matteo Garrone, salutato da un caloroso applauso.
“Io capitano” è, dunque, anche la storia, in parallelo e in controluce, una luce non poi così fioca, di chi su quella sofferenza specula, di chi li uccide, li tortura, prende i loro soldi per poi lasciarli morire. È la storia delle vere colpe, di chi crea business e traffico di essere umani giocando su sogni e desideri. È la storia di una fetta di umanità per niente umana, quella su cui la lotta di ognuno dovrebbe davvero concentrarsi. È la storia, magica e terribile, della salvezza e della perdizione dell’intera umanità.