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Graviano e Filippone condannati anche in Appello: la ‘ndrangheta nella strategia stragista che ha insanguinato l’Italia nei primi anni ‘90

di Claudio Cordova – C’era, dunque, anche la ‘ndrangheta nella strategia stragista che, nei primi anni ’90, ha insanguinato l’Italia in quello che era un progetto eversivo delle mafie (e, probabilmente, non solo) in una fase di transizione del nostro Paese. La Corte d’Assise d’Appello di Reggio Calabria (Bruno Muscolo presidente, a latere, Giuliana Campagna) ha infatti confermato gli ergastoli già emessi in primo grado nei confronti del boss di Cosa Nostra, Giuseppe Graviano, e dell’uomo forte della ‘ndrangheta della Piana di Gioia Tauro, Rocco Santo Filippone, nell’ambito del procedimento “Ndrangheta stragista”. I due sono stati condannati anche in secondo grado quali mandanti del duplice omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, fatto avvenuto nei pressi di Scilla il 18 gennaio del 1994.

Il duplice delitto, nell’impostazione accusatoria portata avanti dal pm Giuseppe Lombardo e avvalorata sia in primo che in secondo grado, rientrerebbe nel disegno stragista avviato da Totò Riina con l’adesione della Ndrangheta calabrese. Si conclude così anche il procedimento d’appello, ridisegnando la verità, storica e processuale, dell’Italia. Il primo quinquennio degli anni ’90, infatti, è un periodo chiave per la storia d’Italia. Un periodo di grandi cambiamenti a livello nazionale (ma anche internazionale) di natura storica e politica, in cui tutte le organizzazioni criminali, dopo il tramonto della cosiddetta “prima Repubblica”, intendevano continuare a mantenere l’influenza sulla classe politica proiettandosi su quella emergente nella nuova fase storica che si stava delineando.

Dalle stragi di Capaci a via D’Amelio, agli attacchi contro i carabinieri in Calabria culminati con il duplice omicidio dei carabinieri Antonio Fava e Giuseppe Garofalo ed i tentati omicidi dei carabinieri Vincenzo Pasqua, Silvio Ricciardo, Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, eseguiti da due giovanissimi killer della cosca di ‘ndrangheta dei Lo Giudice, Giuseppe Calabrò e Consolato Villani.

Il 18 gennaio 1994 vengono uccisi, sull’autostrada Salerno – Reggio Calabria, all’altezza di Scilla, i Carabinieri Antonino Fava e Giuseppe Garofalo. Nella notte fra l’1 e il 2 dicembre 1993, l’azione criminale era stata indirizzata invece ai danni di Vincenzo Pasqua e Silvio Riccardo e, l’1 febbraio 1994, ai danni di Bartolomeo Musicò e Salvatore Serra, la morte dei quali veniva evitata solo per casuali e fortuite coincidenze. In questi ultimi due casi, gli attentati venivano realizzati a Saracinello, nella zona periferica meridionale della città di Reggio Calabria. Le tre azioni di fuoco presentano caratteristiche comuni: oltre ad essere compiute nella cintura periferica cittadina, erano stati perpetrate attraverso l’utilizzo, in tutti e tre gli episodi, della medesima arma automatica (un mitra M 12), ai danni di pattuglie automontate che, di notte, erano impegnate in normali turni di monitoraggio del territorio, ad opera di soggetti mai destinatari di alcun controllo né da parte dei Carabinieri, divenuti vittime della furia criminale, né da parte di altri appartenenti alle Forze dell’Ordine.

Per tutte e tre le vicende sono stati individuati gli esecutori materiali: si tratta di Giuseppe Calabrò, all’epoca appena maggiorenne, e di Consolato Villani, all’epoca minorenne, che furono condannati per l’omicidio, per i due tentati omicidi e per i reati connessi.  Pur arrivando alla condanna dei soli esecutori materiali, nulla era emerso, all’epoca, circa la causale dei tre episodi. Secondo la tesi di Calabrò, che aveva confessato la sua responsabilità per tutti e tre i delitti, chiamando anche in correità sia Villani sia altri soggetti (poi assolti dalle Corti chiamate a giudicare), ciascuna delle tre azioni era da collegare al fatto che si voleva prevenire ed impedire distinti controlli da parte dei carabinieri su tre diversi carichi di armi. Ma Calabrò sul punto mentiva.

Per diversi anni, dunque, è rimasto un preoccupante vuoto sia quanto alla loro causale sia in relazione a quello dell’individuazione dei mandanti, profili entrambi non colmati dalle indagini dell’epoca. Quegli episodi, dunque, non andrebbero letti ciascuno in maniera singola ed isolata, ma andrebbero piuttosto inseriti in un contesto di più ampio respiro e di carattere nazionale e nell’ambito di un progetto criminale, la cui ideazione e realizzazione è maturata non all’interno delle cosche di ‘ndrangheta, ma si è sviluppata attraverso la sinergia, la collaborazione e l’intesa di organizzazioni criminali, che avevano come obiettivo l’attuazione di un piano di destabilizzazione del Paese anche con modalità terroristiche: un accordo tra mafia calabrese e mafia siciliana, portatrici dei medesimi comuni obiettivi, finalizzati a rompere con la vecchia classe politica e a colpire le istituzioni e la società civile, nell’ottica di ottenere benefici a proprio favore in specie in relazione all’applicazione del regime penitenziario del 41bis, il carcere duro nei confronti dei boss.

A Rocco Filippone viene contestato anche il reato di associazione mafiosa in quanto ritenuto capo del suo clan, incaricato dai Piromalli di tenere i contatti e preparare i summit con i capi delle altre cosche calabresi “per rendere più efficaci le decisioni di particolare rilevanza criminale licenziate di volta in volta dalla ‘cupola’ mafiosa calabrese”. Graviano e Filippone vengono condannati, dunque, per quella che gli inquirenti di Reggio Calabria definiscono come “l’univocità della strategia stragista e mafiosa”, con l’obiettivo di destabilizzare lo Stato e la democrazia. “Obiettivo – è scritto nelle migliaia di pagine depositate nel processo -che ‘ndrangheta e Cosa nostra condividevano, contrariamente a quanto finora creduto rispetto ad un rifiuto delle principali cosche della ‘ndrangheta (Piromalli, De Stefano e Papalia) alla richiesta di Totò Riina di entrare in guerra contro lo Stato”.

Le indagini hanno rivelato come le più importanti riunioni tra ‘ndrangheta e Cosa Nostra – volte ad assumere le decisioni operative – si sono svolte nella zona tirrenica della provincia di Reggio Calabria, dove stabilmente risiede la cosca Filippone e il suo capo, direttamente collegati ai Piromalli, e dove si sono recati i componenti dell’organizzazione criminale siciliana, convocati su input dello stesso Filippone. Ed è proprio con la ‘ndrangheta della zona tirrenica che le famiglie siciliane, e fra tutte quella dei Graviano, mantenevano forti legami funzionali a gestire comuni interessi illeciti (come ad esempio, il traffico di stupefacenti).

I delitti contro i Carabinieri a Reggio Calabria avrebbero costituito la prosecuzione della cosiddetta strategia stragista che aveva colpito l’Italia nel corso del 1993 con gli attentati di Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e Velabro), di Firenze (via dei Georgofili) e di Milano (via Palestro).

Una straordinaria opera di depistaggio – coperta e mascherata da pseudo-collaborazione con la Giustizia, svolta da uno degli autori materiali degli assalti, Calabrò – sviò le indagini, impedendo il loro approdo sul terreno dell’accordo tra la criminalità organizzata siciliana e quella calabrese, per destabilizzare il Paese. Sulla coda del procedimento, l’accusa anche depositato una intercettazione fin qui inedita, ossia una intercettazione a carico dei pregiudicati Francesco Adornato e Giuseppe Ferraro, captata dai carabinieri dello speciale gruppo di Gioia Tauro il 17 gennaio del 2021 nell’oleificio di Ferraro, durante cui Adornato, uomo di ‘fiducia’ dei Piromalli, commenta le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Franco Pino del 2018, con riferimento alla riunione della ‘commissione’ della ‘Ndrangheta avvenuta a Marina di Nicotera (VV) nel settembre del 1992, per aderire o meno alla richiesta di Toto’ Riina di partecipare al tentativo di destabilizzare le istituzioni attraverso attentati dinamitardi e con l’assalto all’Arma dei carabinieri.

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