“È difficile dire la verità, perché ne esiste sì una sola, ma è viva e possiede pertanto un volto vivo e mutevole” - Franz Kafka
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di Mariagrazia Costantino* – Il risveglio è stato orribile, dopo una notte piena di strani sogni, angosce e suggestioni.

Ho rivissuto le stesse ore tormentate di otto anni fa; la stessa speranza, il cui sapore dolce è stato alterato, ieri come allora, dall’amara consapevolezza che la direzione presa ancora una volta è quella del fondo della grotta –grande, oscuro e imperscrutabile– e non della sua uscita.
Una ragazza originaria del Marocco che lavora in un bar mi ha detto “preferisco”. Perché sappiamo cos’ha fatto Trump, sappiamo cioè quello di cui lo accusano e quello per cui è stato condannato; ma non sappiamo cos’abbia fatto Harris, e dunque potrebbe persino essere peggio. Aldilà del fatto che ciò è impossibile (chi può essere peggio di Trump?), è a questo punto che siamo arrivati: si preferisce il peggio che si conosce al niente di cui si è all’oscuro. La ragazza che ha detto queste cose è normale, persino piacevole: è questo che fa paura. Le persone (apparentemente?) normali e ben inserite nella società ragionano in questo modo sbilenco da complottista alticcio: ignorano il marcio che gli sta davanti e lo cercano dove non c’è.

Io ho paura della gente così: chi ha tifato per questo risultato –negli Stati Uniti e nell’attuale italietta micragnosa e ignorante– non ha evidentemente rispetto per gli altri e soprattutto per sé. Perché tifare per un uomo moralmente e fisicamente corrotto, che ha messo in pericolo più volte la vita di persone innocenti (senza contare le volte in cui le ha umiliate provando piacere nel farlo), vuol dire per prima cosa non avere amor proprio. La gente così mi terrorizza più degli zombie dei film di Romero, perché chi non ha autostima è capace di tutto.

Mettendo da parte un dato abbastanza deprimente –e cioè che abbiamo normalizzato qualsiasi reato, dall’evasione fiscale all’abuso sessuale– quello che mi turba maggiormente di questo risultato è l’assoluta indifferenza verso le sorti di categorie fragili come minoranze, donne e immigrati. Eppure sono quelle più numerose… ma è proprio qui che va a incagliarsi il ragionamento: non ha senso analizzare quello che la gente è; ciò che conta, l’unica cosa, è quello che la gente vuole. E cosa vuole la “gente”? Vuole essere maggioranza, vuole i privilegi dell’uomo bianco, vuole ricchezza senza merito e misura. La stessa gente –compresa la simpatica ragazza marocchina che vive qui e la studentessa ispanica che ha dato il suo voto a chi l’ha chiamata “spazzatura”– preferisce essere un vecchio sporcaccione con i capelli color pannocchia e la faccia marrone piuttosto che se stessa. Ci facciamo talmente schifo, nella nostra umile e dignitosa modestia, che inseguiamo modelli di depravazione assoluta solo perché ci sembrano vincenti. L’Italia, che tra poco cambierà il nome in Berlusconia, o Berluscoland, è da sempre all’avanguardia in questo modello di “voto aspirazionale”: Mussolini è stato uno dei primi esempi di reietto vincente e “gajardo”. C’è anche da dire che i più cercano solo di essere invisibili, conformarsi e acchiappare quello che possono: pensano alle prossime vacanze in Grecia e a come aggirare il fisco.

A quanti sta veramente a cuore la dignità, propria e degli altri? Quante Rosa Parks, Martin Luther King e Ahoo Daryaei (la ragazza iraniana che si è spogliata per protesta e che per questo è stata chiamata “pazza”) possono esserci? Pochissimi. E fanno tutti una brutta fine. Anche se grazie a loro l’umanità progredisce, e lo fa perché per avere migliori condizioni economiche (quelle che vogliamo tutti) bisogna per prima cosa ottenere il rispetto.

Non posso fare a meno di pensare che, per l’ennesima volta, abbia vinto il privilegio maschile. Ha vinto la possibilità di ottenere il massimo con il minimo sforzo: a Trump è bastato abbaiare qualche frase sconnessa e simulare atti osceni; nel frattempo a Harris, donna, veniva chiesto di saltare nei cerchi di fuoco, come se dovesse ancora dimostrare qualcosa.

La Società dello Spettacolo preconizzata da Guy Debord ha spettacolarizzato anche il male, e così facendo lo ha banalizzato. Quello che diventa banale appare innocuo. Questa è una colpa che abbiamo tutti: repubblicani e democratici, elettori di destra e di sinistra, minoranze e maggioranze, uomini e donne, bianchi e non-bianchi. Cedendo alla seduzione dello spettacolo, cioè dell’intrattenimento a tutti i costi, abbiamo abdicato al nostro diritto di scegliere (e prima ancora capire) ciò che è meglio per tutti. Ovvero ciò che è meglio per noi stessi.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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