di Claudio Cordova – Neanche il sommo Dante Alighieri avrebbe saputo ideare qualcosa di meglio (o peggio, a seconda dei punti di vista). Dopo anni di battaglie sulla parità di genere, dopo tanta retorica sull’accesso delle donne nel mondo del lavoro e nella politica, dopo polemiche (a volte stucchevoli) sulle quote rosa, dopo anni di girotondi e bandiere arcobaleno, dopo gli obbrobri linguistici quali “sindaca” o “ministra”, dopo il “buongiorno a tutt*” nei gruppi WhatsApp per essere inclusivi, ora il centrosinistra e, in generale, il campo progressista, rischia davvero il più grottesco degli psicodrammi. Il più crudele contrappasso. Ossia che il primo presidente del Consiglio dei Ministri donna in Italia, venga espresso dalla destra meno moderata e da uno dei partiti più maschilisti della storia recente del nostro Paese.
Ma, del resto, come potrebbe il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, non concedere la possibilità a Giorgia Meloni di formare il nuovo Governo?
La vittoria di Fratelli d’Italia è così schiacciante che sembra fantapolitica immaginare il contrario. Il dato che fuoriesce dalle urne, nella tornata elettorale del 25 settembre, è il lieto fine di una favola per Giorgia Meloni. Ex Alleanza Nazionale, delusa dalla svolta a sinistra di Gianfranco Fini che, con tanto di Fiamma Tricolore nel logo, ha formato il suo di partito, Fratelli d’Italia. Ha inghiottito polvere e insulti, percentuali non lusinghiere in alcune votazioni, fino ad arrivare ad essere il primo partito d’Italia. Rosicchiando, giorno dopo giorno, elettorato alla Lega di Matteo Salvini, che solo pochi anni fa, aveva superato il 30%.
E, viceversa, è il drammatico epilogo di un dramma per il centrosinistra che, ancora una volta, ha pensato più a demonizzare l’avversario, che non a proporre un’idea di Paese. Agitare, nel 2022, lo spettro del Fascismo, con presunti nuovi gerarchi che dovrebbero essere la stessa Giorgia Meloni o Ignazio La Russa e Guido Crosetto fa venire davvero seri dubbi sul fatto che, nella vita, si sia aperto anche un solo libro di storia. Ancora una volta, l’elettorato ha voltato le spalle al Partito Democratico, che rimane decisamente sotto la soglia psicologica e politica del 20%.
Ancora una volta, le classi disagiate, chi, soprattutto in questo drammatico periodo di crisi energetica, rincari e ristrettezze economiche, si sarebbe dovuto aggrappare ai valori della Sinistra più nobile, ha guardato altrove. Al Movimento 5 Stelle, per esempio. I grillini, soprattutto dopo la poco onorevole fuoriuscita di Luigi Di Maio e di altri, erano dati non solo per sconfitti (come, effettivamente, lo sono stati), ma anche per scomparsi. E, invece, la cura di Giuseppe Conte ha dato frutti inattesi e insperati per la maggior parte degli analisti. Il Movimento 5 Stelle non viaggia così lontano dal Pd su scala nazionale. E lo fa perché, in qualche modo, è tornato alle origini, anche con le candidature-manifesto dei magistrati antimafia, Federico Cafiero de Raho e Roberto Scarpinato, eletti proprio in Calabria. Ed è semplicistico dire che i voti arrivino solo dai percettori del Reddito di Cittadinanza. Così come è criminale sostenere che una misura (imperfetta, è vero, e in taluni meccanismi anche ridicola per come è stata concepita) che aiuta chi sta peggio, sia qualcosa di ingiusto. I 5 Stelle, ancora una volta, pur con i loro evidentissimi limiti (anche culturali) hanno dimostrato di essere visti come un interlocutore importante per frange di popolazione che, altrimenti, sarebbe priva di rappresentanza e, quindi, ancor più ghettizzata.
Non è un caso che il grosso dei voti, Conte e compagni lo abbiano raccolto al Sud.
Già perché mentre l’ex premier e grillini volano sulle ali della fenice, l’esito del voto ci dice che gli italiani, con le proprie preferenze, hanno tentato (e sarà il tempo a dirci se con successo o meno) di eliminare le diversità, le minoranze, le marginalità. La crociata di Fratelli d’Italia contro il Reddito di Cittadinanza ha portato, solo per fare un esempio, il partito di Giorgia Meloni a doppiare la Lega in Veneto o a raccogliere tre volte in più i voti del Carroccio in Friuli. Non solo i poveri. Una vittoria così schiacciante di Fratelli d’Italia deve farci riflettere sul sentire degli italiani nei confronti delle politiche sull’immigrazione, per esempio. E, quindi, sul desiderio di accoglienza o respingimento degli stranieri. Oppure anche su diritti civili e sociali che davamo per assodati, quali, per esempio, l’aborto, ma che, stando a quanto avvenuto recentemente in Ungheria, così acquisiti non sono.
E in Calabria?
In Calabria niente di nuovo sotto il sole. In Calabria ha votato pochissima gente. A dimostrazione che, probabilmente, per il cittadino medio calabrese la democrazia sia un concetto forse immeritato. Come è accaduto più volte negli ultimi lustri, la Calabria va in controtendenza rispetto ad alcune dinamiche. Ancora una volta, per esempio, nella regione, Forza Italia continua ad avere numeri nettamente superiori alla media nazionale. Resta invece immutata la tendenza a concedere credito ai soliti potentati elettorali. Unica eccezione, la pentastellata Orrico che, a Cosenza, la spunta su Andrea Gentile, rampollo della dinastia dei “cinghiali”. Per il resto, dall’ex sindaco di Cosenza, Mario Occhiuto, al deputato uscente Francesco Cannizzaro, al reuccio della Piana di Gioia Tauro, Giovanni Arruzzolo, oppure il giovane (ma già da diversi anni nei palazzi del potere) Nicola Irto, solo per citare un nome del centrosinistra che cola a picco.
Già, il centrosinistra in Calabria. La regione si allinea al dato nazionale circa il grande successo del centrodestra. Ma ci dimostra come, ancora una volta, il centrosinistra – e in particolare il Pd – abbiano giocato a perdere, costruendo le liste non per tentare di porre davvero argine all’ondata di Fratelli d’Italia ma per tutelare posizioni personali. Non è un caso che l’unico seggio in Senato per il Partito Democratico vada proprio al segretario Dem in Calabria, Nicola Irto. Colui, cioè, che ha di fatto formato le liste.
L’esito del voto ci dice anche che la sinistra estrema, quella più radicale, in Calabria, di fatto, è un concetto molto vicino alla irrilevanza, nonostante la vulgata. Il risultato di Unione Popolare (che resta fuori dal Parlamento) ci dice che, nemmeno in una regione periferica, problematica e povera come la Calabria, l’estrema sinistra sia capace di intercettare le istanze della popolazione. E, probabilmente, segna la fine dell’esperienza politica (almeno nella nostra regione) per l’ex sindaco di Napoli, Luigi De Magistris.
Ma, come spesso accade, le elezioni politiche sono un po’ una sorta di elezioni di medio termine per le amministrazioni locali. E se, di certo, il dato positivo di Forza Italia può ringalluzzire il governatore Roberto Occhiuto, ex parlamentare berlusconiano, cosa si può dire del dato imbarazzante che emerge su Italia Viva che, per ora, amministra il Comune di Reggio Calabria, con esponenti quali Carmelo Versace o Giovanni Latella o esprime un senatore come l’ex segretario regionale Dem, Ernesto Magorno. Il 4,1% del ticket con Azione è qualcosa di davvero misero. Qualcosa che, se esistesse la politica in questa regione, imporrebbe delle riflessioni sulla legittimazione popolare con cui determinati soggetti continuano ad amministrare la Cosa Pubblica.