A scrivere la quarta pagina del Tropea Film Festival è stata la condivisione e la memoria. La condivisione di idee e progetti di una nuova ed emergente generazione di attori e registi e il ricordo di uno dei più grandi autori della storia del cinema mondiale, Vittorio De Seta, celebrato più volte dallo stesso Martin Scorsese che lo ha sempre ritenuto suo maestro.
Un intenso pomeriggio dedicato al mondo del cinema ha preso avvio con la formazione attoriale a cura della Scuola di Recitazione della Calabria diretta da Walter Cordopatri. La lezione è stata affidata a Paolo Asso, insegnante di recitazione, che ha argomentato su “L’obiettivo dell’attore”.
I CORTI: A prendersi la scena, poi, è stata la brillante e dinamica creatività dei giovani registi Andrea Belcastro e Sara Serinelli che hanno presentato al pubblico del Festival i loro cortometraggi, entrambi in concorso.
Lo sport nazionale prodotto da Lago Film con il sostegno di Calabria Film Commission, è stato girato interamente a Cosenza. Narra con originalità e ironia la ludopatia, una tematica che il disagio di un’intera generazione, quella dei trentenni di oggi, che ormai in maniera cronica si ritrovano senza lavoro e senza reali prospettive sul futuro e che, dunque, spesso cercano una “facile” via d’uscita. In questo caso la ricerca ossessiva del sistema perfetto delle scommesse calcistiche. Il messaggio del cortometraggio alimenta il sentimento della speranza: quando il protagonista, Alessio, capirà che tutti i suoi sforzi sono vani, finirà per mettersi nei guai coinvolgendo i suoi genitori e il suo migliore amico in una pericolosa truffa. Un lavoro che viene accostato alla commedia all’italiana, un genere poco frequentato nel mondo dei cortometraggi ma che ha consentito di raccontare tematiche importanti con una ironia imprescindibile in questo periodo storico senza, però, rinunciare a un certo formalismo estetico. Ci sono anche altri aspetti che permettono di sostenere questa tesi in quanto il cast è molto ampio e la struttura in tre atti, si può parlare quasi di un film in miniatura frutto di un lunghissimo lavoro di scrittura.
Tredici a tavola è un’opera divertente e spiritosa sulle credenze e le tradizioni popolari del nostro Paese. Il racconto si sviluppa interamente durante una cena di famiglia quando l’anziana padrona di casa è costretta a mettere da parte controvoglia le sue superstizioni per accogliere il 13 ospite a tavola. Accadrà di tutto e alla fine l’ospite indesiderato viene fatto sedere all’angolo. Il raduno della famiglia in un momento di convivialità non è solo un riferimento ad una consuetudine degli italiani, ma anche un richiamo all’arte. Qualche similitudine si potrebbe ritrovare ad esempio in “Ragazzo morso da un ramarro” e in “Cena in Emmaus” di Caravaggio. E ancora nell'”Ultima cena” d i L. Da Vinci e nell’atmosfera del film “Amarcord” di Federico Fellini.
IL LIBRO: Riflessione letteraria con libro che celebra la figura di Vittorio De Seta e ripercorrere la straordinaria eredità lasciata dall’autore, custodita per anni a Catanzaro, dalla “Cineteca della Calabria”. E non poteva che essere il regista Eugenio Attanasio, allievo legato da una profonda amicizia al grande maestro, a essere ideatore, custode e promotore di un’opera necessaria, quanto preziosa. Dalle pagine del libro “Vittorio De Seta. Lettere dal Sud”, presentato nella quarta giornata del Tropea Film Festival, manifestazione cofinanziata dalla Calabria Film Commission, affiora quel mondo perduto che lo ha reso immortale. La pesca del pesce spada, il rito di Santa Maria del Carretto, ma anche lettere inedite che raccontano il maestro sotto una luce più intima e sconosciuta. Un volume che raccoglie testimonianze della figlia Francesca e della nipote, Vera Dragone, attrice e cantante. Un affresco di uno dei più grandi registi del mondo, ecclettico, profondo, capace di un punto di vista irripetibile, celebrato da Moravia e Pasolini. A dialogare con Eugenio Attanasio, nel corso della presentazione, il giornalista Luigi Stanizzi, il regista Domenico Cosco, anche lui allievo del maestro e direttore della Casa del Cinema di Catanzaro e l’amico e medico della famiglia De Seta, Domenico Levato. Lo stesso Levato ha dato un contributo personale al libro ed è consigliere della Cineteca della Calabria.
“Il rapporto di De Seta con la Calabria è molto conflittuale. Nel libro si parla anche delle origini del maestro. Nasce a Palermo da una famiglia calabrese, nobili originari di Belvedere Marittimo che si trasferiscono nel catanzarese nella metà dell’Ottocento. Il nonno diventa uno dei primi sindaci di Catanzaro che dà nuova veste alla città” spiega. Il dibattito si accende e scende in profondità, esplorando quanto De Seta sentisse le sue radici calabresi. “Quello con la sua terra è un rapporto molto forte” aggiunge “ritrovato nell’età della maturità quando da Roma si trasferisce a Sellia Marina, si riappacifica con il suo mondo, con i contadini che lui aveva ripreso negli anni Cinquanta e ritorna al cinema nella seconda fase girando anche in Calabria (lettere dal Sahara è un’opera scritta nella tenuta di Sellia Marina)”. L’autore del libro sottolinea il valore dell’opera, legato anche al rapporto molto forte e molto importante che De Seta aveva con la Calabria. “De Seta è un intellettuale del Sud, uno degli ultimi meridionalisti. Ci è sembrato doveroso dedicargli questa pubblicazione che raccoglie anche corrispondenza e materiale inedito di De Seta e su De Seta. Ho avuto la fortuna di averlo come maestro ed è stato un punto di riferimento anche in quello che abbiamo realizzato dopo. Anche la Cineteca della Calabria è nata in virtù di una sua lezione”. Il regista ricorda quell’amore per il cinema e la voglia di riscoprire un cinema intimamente legato al territorio. Il territorio legato alla cultura calabrese voleva dire la civiltà contadina, proprio quella che era stata oggetto di rivalutazione e di riscoperta grazie all’opera di grandi intellettuali come Luigi Lombardi Satriani.
Il regista ma anche l’uomo. Chi lo ha conosciuto sa che era un uomo difficile, volubile, complesso, molto in conflitto con se stesso. Proveniva da una famiglia nobile ma lui aveva aderito al marxismo. In questo conflitto esistenziale era nata poi questa figura di grande poeta contadino. Ha dato moltissimo sia al cinema che alla cultura nazionale”. “Un uomo a servizio del cinema”. Il regista Cosco ricorda il suo maestro con un aneddoto affettuoso mentre nell’impresa di girare Banditi a Orgosolo, opera pionieristica nella diffidente Sardegna pastorale degli anni Sessanta. De Seta portava a spalla cavalletto e telecamera, inerpicandosi tra le vette e i pendii dell’isola. “Un uomo che ha saputo raccontare un cinema che poi si è fatto negli anni un po’ troppo borghese, consolatorio” prosegue Cosco, e conclude “De Seta è riuscito ad arricchire il cinema italiano con uno sguardo che nessun autore è più stato capace di recuperare. Mi riferisco a quella parte che il neorealismo era riuscito a stendere e tratteggiare. Oggi è impensabile che un regista, sul set, prenda a spalla un cavalletto”. Nelle risposte alle domande della platea, Attanasio ha tracciato la parabola della riflessione esistenziale che si rispecchia nella produzione cinematografica dell’autore. “Quello di De Seta resta sempre un cinema moderno, perché ha l’umiltà di porsi come strumento di conoscenza e non solo come punto di arrivo. Oggi i ragazzi si illudono che conoscendo il mezzo tecnico si può fare cinema. Per fare del cinema devi fare delle esperienze, altrimenti non le puoi raccontare”. Tra gli obiettivi, quello di custodire e diffondere il patrimonio del maestro. “Le sue opere circolano. Le ha la Cineteca di Bologna e la Filmoteca Siciliana”. E spiega: “Noi come Cineteca della Calabria abbiamo voluto dedicare gran parte del nostro lavoro alla sua produzione cinematografica. Per primi, nel 2001, abbiamo ristampato i suoi documentari in 35 millimetri e li abbiamo anche digitalizzati. Prima delle edizioni di Feltrinelli le uniche copie in digitale a circolare erano quelle della nostra Cineteca. Non è detto che faremo una nuova digitalizzazione, magari in 4k, per riportarli allo splendore originale. È un lavoro stimolante perché da tutto il mondo ci hanno visto come punto di riferimento. Abbiamo portato i suoi lavori anche in Argentina, all’estero”. Il grande impegno di Eugenio Attanasio lo ha reso un riferimento mondiale per conoscere e accedere ai lavori del maestro De Seta. Una responsabilità che il regista ha accolto con entusiasmo, impegno e grande spirito di abnegazione. Sentimenti che sottendono l’affetto che ha legato per anni il maestro al suo allievo calabrese.
IL TALK: Tradizionalmente chiamati “cascatori”, sono stati gli stuntmen a chiudere i lavori della quarta serata del Tropea Film Festival, che ha ospitato due storici professionisti del campo. Così Marco Stefanelli e Massimo Vanni hanno acceso i riflettori dietro le quinte dei grandi film d’azione della nostra storia. Voli acrobatici, risse memorabili, inseguimenti rocamboleschi, salti tra un grattacielo e l’altro, fughe. La produzione cinematografica mondiale è costellata da scene mozzafiato, rimaste nella storia come spettacolari. Ma spesso a realizzarle non sono gli attori protagonisti, ma le loro controfigure. Uomini e donne che nella vita hanno scelto un ruolo nel cono d’ombra, perché presta il corpo per arrivare dove gli attori non potrebbero arrivare. In passato gli stuntmen erano anche “caratteristi”. Attori che riuscivano a interpretare scene acrobatiche. Sergio Leone ne ha valorizzato le doti in molti dei suoi film, mentre oggi lo scenario è cambiato e ha relegato questo mondo a quello delle controfigure tout court. E nell’incontro di ieri, presentato da Andrea Santanastasio, i due ex stunt, oggi maestri d’armi, hanno dialogato con il giornalista Paolo Di Giannantonio. Con il contributo dell’attore e direttore della Scuola di Recitazione della Calabria, Walter Cordopatri. Figlio del noto maestro d’armi e attore che ha lavorato ai western di Leone, Benito Stefanelli, Marco spiega quanto sia importante essere preparati per poter interpretare in tutta sicurezza il ruolo di controfigura in scene ad alto rischio. “Nel nostro lavoro l’allenamento e la professionalità sono essenziali. Solo così si può lavorare in sicurezza”. I due maestri ricordano il passato da stuntmen, nei film di Bud Spencer e Terence Hill. Massimo Vanni ricorda quei set e le giornate passate a preparare le scene delle risse nei bar di quei film che hanno accompagnato intere generazioni. “La scena più difficile che ho girato” ricorda Vanni “è stata in un film con Giuliano Gemma, uno degli attori più bravi a lavorare senza controfigure. Ero sul tetto di un palazzo molto alto e lui mi teneva sospeso nel vuoto. Sotto non c’erano protezioni. È stata un’esperienza incredibile!”. Nel corso della serata, a intervallare il dibattito, le esibizioni canore di Demetra. E mentre le pellicole di Mucchio selvaggio, Bulldozer e Roma violenta scorrevano sullo schermo, i maestri d’armi hanno ringraziato gli organizzatori. “Non capita spesso di poter testimoniare la nostra esperienza al pubblico. Di solito siamo sempre dietro le quinte”.