di Vincenza Pettinato – La fatica, la necessità, la bellezza del restare. La “restanza”: ovvero la categoria, il termine che vuole descrivere il sentire e il pensare di chi resta, per necessità o ora anche per scelta, e in particolare di chi resta nei paesi dell’interno, specie del Sud.
Questi i temi su cui nel suo ultimo libro s’interroga Vito Teti, da anni impegnato ad indagare i fenomeni del migrare, dei ritorni, degli abbandoni e del senso dei luoghi, dei sentimenti della nostalgia e della melanconia, della cultura mediterranea del cibo.
Certo, in tanti abbiamo sperimentato le sofferenze, le speranze e i rimpianti provocati dal partire o restare. Tutti siamo stati chiamati drammaticamente dalla pandemia a riflettere sul senso del “restare a casa” e anche l’arrivo dei nuovi migranti e le preoccupazioni legate all’emergenza climatica c’impongono di ripensare i luoghi e le forme tradizionali dell’abitare. Ma non abbiamo tutte le capacità di analisi, tutti i saperi, lo sguardo attento e la lucidità necessari per individuare e comprendere fino in fondo nei suoi vari aspetti e significati la condizione del restare.
Nel dibattito pubblico odierno sono solitamente presenti due visioni contrapposte, ma entrambe insufficienti e superficiali, della vita nei piccoli paesi: da un lato esaltazioni retoriche, edulcorate, idealizzate, del “piccolo borgo” (termine che ha sostituito paese) e che non restituiscono la durezza, la fatica di vivere in questi luoghi, nei quali sono spesso venuti meno i presìdi della cittadinanza
(scuole, farmacie, uffici postali, negozi e servizi essenziali); dall’altro lato narrazioni apocalittiche che danno per ormai perduti, morti, senza futuro, paesi nei quali non converrebbe più investire energie e denaro.
Teti rifiuta entrambi questi racconti e propone un’idea problematica della restanza, priva di ogni nostalgia passatista: un restare inteso non come immobilismo, apatia, rinuncia, ma quale scelta consapevole di “cura” dei luoghi di origine e di chi vi abita; progetto di resistenza e rigenerazione; una restanza come stile di vita, una pratica etica e civile, che si muove tra concretezza e utopia.
Opponendosi anche ad una lunga tradizione antropologica e letteraria che ha privilegiato il viaggiare e ha visto solo in chi parte la disponibilità al cambiamento e all’adattamento, Teti sostiene che anche chi resta vive una situazione complessa, sperimenta l’inquietudine, deve ridisegnare la propria identità, deve fare i conti con vuoti e mancanze, con il luogo che cambia, e può vivere lo spaesamento, la frantumazione del proprio mondo.
Teti scrive che la restanza è il sentimento correlativo ad ogni partenza: che da sempre – dal mito di Ulisse – partire e restare sono stati indissolubilmente legati. Ci invita a superare la contrapposizione o netta distinzione tra viandanti e restanti e a riflettere sugli aspetti controintuitivi di uno stesso fenomeno: si resta, non solo nei paesi, ma anche nelle città, nelle metropoli; si resta e si viaggia nel tempo, da fermi. E contemporaneamente chi parte rimane radicato al luogo d’origine.
Sono questi sentimenti speculari e contrapposti ch’egli indaga nel libro e che disegnano la restanza quale universo di significati/emozioni molteplici, che investono discipline differenti (storia, economia, sociologia, psicologia, filosofia) e questioni relative alla tutela dell’ambiente, all’uso e valorizzazione delle risorse – umane e naturali – dei territori, alle politiche economiche e sociali, alle responsabilità individuali e collettive.
Prima ancora che su singoli temi, vorrei però soffermarmi sulla peculiarità dell’approccio dell’autore, sull’originalità della sua scrittura: capace di coniugare verità e passione per l’umano, conoscenze e amore per la terra d’origine, pagine fortemente evocative e liriche e altre di denuncia, sapere e sentire.
Leggiamo ad apertura del libro che amore e odio segnano il suo essere nel mondo, in un contrasto irrisolto, ma fecondo. Scrive: «Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi» e ancora «Non odio il mio restare né quelli che restano, ma cerco di capire come tutto questo mi sia potuto accadere, cerco il senso dell’essere restato in un mondo dove niente sembra stare fermo e tutto è precario, sospeso» (p. 3). E più avanti: «Vivo nella casa in cui sono nato» (p. 68), «Sono uno dei restanti più tenaci e resistenti tra quelli a me noti, anomalo, perché sono inquieto, amo viaggiare e cambiare spesso luoghi e contesti» (p. 69) e poi «Ogni giro lungo, ogni desiderio di fuga mi ha riportato a casa da dove non sono mai andato via» (p. 69). Ma pure: «Infinite volte mi sono sentito straniero, in esilio, nella mia casa» (p. 70).
Non solo in queste affermazioni, ma in tutto il libro si colgono il richiamo al suo vissuto, la partecipazione, il pathos, la pena, la pietas, l’amore «per quel che resta e per quel che nasce e rinasce» (p. 142). Del resto è lo stesso autore ad affermarlo esplicitamente: «In definitiva, questo libro è un capitolo, uno dei tanti, dell’autobiografia di un antropologo» (p. 141), è «racconto e memoria» (p. 142) di erranze e permanenze, un viaggio nella sua restanza nella sua patria culturale.
Il timbro autobiografico così forte è rivelatore e rinvia – tra l’altro – alla concezione che il nostro autore ha dell’antropologia e ai modi in cui la pratica: la disciplina appare qui ricerca che presuppone la disponibilità all’ascolto e alla messa in discussione anche delle proprie certezze; è incontro con l’altro, confronto, dialogo, comprensione della diversità, interrogazione, dubbio, conoscenza, inquietudine, memoria del passato e sguardo sul presente e volto al futuro. È anche una continua messa a punto degli strumenti di ricerca e riflessione sulle finalità di questo stesso lavoro. Scrive: «Negli anni ho modificato il contenuto che portavo nella mia “cassetta degli attrezzi dell’antropologo”, ho lavorato sul mio etnocentrismo, alla costruzione di uno sguardo presbite (…)» (p. 137). È ricorrente nel libro questo tema della prospettiva necessaria al ricercatore, della “distanza” rispetto all’oggetto d’indagine, del come osservare il vicino e il lontano, con la consapevolezza che nel mondo di oggi si vanno modificando i concetti del qui e dell’altrove e che l’osservare il proprio mondo comporta probabilmente maggiori responsabilità e rischi, richiede anche allo studioso una sorta di sdoppiamento e «presuppone una capacità di autoascolto e di auto-osservazione che non sia sterile contemplazione di sé» (p. 92).
E sulle finalità del suo lavoro afferma che l’antropologia deve intendersi come scienza critica, ma con la vocazione all’eresia, e perciò è anche “militanza”, presenza operosa nella società; “pratica sociale”; disciplina che non si occupa solo di mondi estinti o in estinzione, ma vuole essere interpretazione del presente e impegno a progettare altre vie possibili, un diverso modello di sviluppo sociale.
A proposito degli strumenti di ricerca: Teti dice che l’antropologia richiede «una pratica e un’arte del camminare lento, silenzioso, a volte solitario, circospetto» (p. 101), capace di penetrare nell’anima profonda di un luogo e di chi vi abita. Questo richiamo alla lentezza di cui parlava Franco Cassano nel suo Pensiero meridiano suggerisce due interrogativi: nel tempo in cui anche i nostri luoghi sono diventati lo sperato approdo di tanti disperati, è vero, è ancora vero, che la cultura mediterranea è pensiero dell’accoglienza, della coesistenza, della reciprocità del dono, dell’andare lento rispettoso del tempo e della natura? E questi o quali altri motivi della nostra mediterranea cultura d’origine hanno aiutato Teti ad avvicinarsi ad autori e problemi della disciplina antropologica? Il libro certo non concede spazio ad esasperazioni identitarie, alla cultura di “piccole patrie”, ma afferma un’idea della restanza come apertura e curiosità verso l’altro e avverte che i paesi in abbandono possono diventare occasione di accoglienza anche per gli immigrati, sottolineando nel contempo la complessità del riabitare possibile dei paesi, fuori dalle soluzioni “facili”, dagli slogan, dagli interventi episodici e velleitari, dalle mode passeggere.
Certo Teti ha molto camminato e ha molto viaggiato, col corpo e con la mente, ha studiato e letto e ha avuto bisogno di questi lunghi giri per ritornare e comprendere più in profondità il suo mondo d’origine. Anche se, come scrive, chi parte non torna mai del tutto: perché nel viaggio si cambia, perché intanto cambia il luogo di partenza e chi torna può sentirsi straniero e in esilio perfino nelle stanze ben conosciute e amate della sua stessa casa.
Molto cammino egli lo ha compiuto anche attraverso la letteratura. In precedenti lavori si è tanto occupato delle scritture dell’abbandono. In questo libro ripercorre scritti in cui si possono trovare le tracce dell’origine e sviluppo del concetto di restanza e il tema del ritorno. Tanti i riferimenti ai grandi romanzi dell’Ottocento e del Novecento che raccontano del viaggio e del restare e della scoperta dell’Altro nelle nuove periferie urbane, nei labirinti e sotterranei delle città moderne, specchio di quelli non meno complicati dell’animo umano. Tanti i richiami agli scrittori meridionali, pure contemporanei, che ripropongono il dissidio tra il partire, il restare, il tornare.
Si può dire che c’è un grande riconoscimento del contributo che gli scrittori hanno dato all’antropologia, come alle altre scienze sociali. Non solo romanzieri, ma anche poeti. Di grande intensità i versi citati della poesia di Giorgio Caproni, Biglietto lasciato prima di non andar via:
«Se non dovessi tornare, / sappiate che non sono mai / partito. / Il mio viaggiare / è stato tutto un restare / qua, dove non fui mai» (p. 83).
E arrivo così ad un altro motivo che rende particolare questo libro: è il trapassare dell’autore da considerazioni sulla restanza come condizione storica a riflessioni su dimensioni più generali, costitutive, della natura umana. Accade, per esempio, quando Teti si chiede se l’uomo sapiens non sia insieme migrare, restare, tornare e per questo «dovunque si trovi, è nostalgico di un quid, del paese, dell’altrove, della città, dell’infanzia, dei luoghi mai visti, di quelli che non vedrà. La nostalgia è il suo habitus. E forse partire, tornare, restare sono diventate – o sono sempre state – modalità diverse del viaggiare» (p. 85). O quando parla del rapporto tra il Sé e l’Altro e afferma che l’alterità abita in ciascuno e tanto chi parte, che chi resta e chi torna sperimenta l’inquietudine del sentimento che Freud definiva il “Perturbante”: la scoperta dell’Estraneo nel familiare/abituale/consueto e del Familiare nell’Altro. O quando insiste sul ruolo della memoria, delle strategie per la conservazione del sé, della costruzione dell’identità, che è sempre plurima, non priva di oscurità. E ancora quando parla del tempo, del sentimento del tempo perduto e irreversibile, del tempo spazializzato e del tempo della coscienza, del tempo lineare e della narrazione ricurva del tempo istituita dai migranti italiani nelle Americhe. O del luogo, che non è solo un’articolazione spaziale, ma anche una dimensione della mente, un’organizzazione simbolica tramata di tempo, memoria, oblio.
La condizione dell’uomo delineata da Teti appare così segnata dalla complessità, da contraddizioni, sogni e delusioni, inquietudine, insoddisfazione. L’esistenza come esilio, radicale spaesamento. E, specie dopo la pandemia, caratterizzata dalla fragilità, dall’impossibilità per molti d’immaginare il futuro, dalla paura di non avere più tempo.
Echi esistenzialisti, ma immuni da prospettive nichiliste. Al contrario, l’invito a tutti è di cercare, dare senso alla comune restanza, a vivere responsabilmente nel presente per trovare altre soluzioni, a immaginare e avviare una nuova vita, a non restare prigionieri del passato, né dei luoghi.
A sé, infine, richiama il dovere di contribuire – col suo camminare, cercare, scrivere – alla costruzione di una nuova comunità, ad aiutare ad affermare il diritto di restare come principio di libertà.