“Non esistono i coraggiosi, solo persone che accettano di andare a braccetto con la loro paura” - Luis Sepúlveda
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Lavorare al Sud: lo schiavismo dell’epoca moderna nell’inchiesta del movimento cosentino “La Base”

di Roberta Mazzuca – Contratto di apprendistato, 10 ore per turno, 500 euro al mese: “Se sei brava poi vediamo per il contratto, metti una maglia più scollata al lavoro”. Parrucchiera, 10 ore al giorno 6 giorni su 7, 3,50 euro all’ora: “700 euro al mese, ma vediamo cosa sai fare. Se c’è tempo, puoi fare anche un’ora di pausa pranzo”. Oss in clinica privata, contratto part-time, pagamento dello stipendio ogni 3 mesi, 1.000 euro al mese, minacce sul luogo di lavoro: “I festivi e le notti te li pago come turni normali”. Corriere, busta paga di 7 ore al giorno, 6 giorni su 7, 4,50 euro all’ora: “Tra carico, scarico e consegne le ore effettive sono 12”. Commessa, contratto di apprendistato, 9 ore per turno, 3 euro all’ora: “In periodi di Natale e saldi, non hai il giorno libero. Se ti fai male in magazzino è meglio per te se non denunci”.

Non sono vaneggiamenti fantasiosi, né ricercate fake news per fomentare l’opinione pubblica. Non sono invenzioni né esagerazioni. Non sono rare eccezioni, ma terribile normalità. Sono le reali condizioni di lavoro con cui i giovani cosentini e calabresi, ogni giorno, si ritrovano a fare i conti, alla disperata ricerca di un’occupazione che restituisca loro il senso di una Repubblica realmente fondata sul lavoro. Lo recita l’Art.1 della nostra Costituzione, che meriterebbe forse una leggera modifica: “L’Italia è una Repubblica fondata sullo sfruttamento”. Ed è proprio la tragedia dello sfruttamento spacciato per lavoro che il movimento “La Base” ha straordinariamente portato alla luce in un lavoro di inchiesta degno di nota. Condizioni inadeguate e pericolose, lavoro in nero, ricatti, privazione dei diritti, stipendi da fame o addirittura inesistenti, molestie. Tutto questo e molto altro hanno brillantemente evidenziato gli attivisti, disseminando poi il risultato della loro inchiesta, arrivato finanche sugli schermi nazionali, in una serie di volantini sparsi per tutta la città, e sui quali si possono leggere le tantissime e aberranti testimonianze raccolte, come quelle riportate all’inizio di questo articolo.

Testimonianze che sono state raccontate, in minima parte, anche durante l’assemblea cittadina convocata il weekend scorso dallo stesso movimento, al fine di creare una rete di condivisione ma, soprattutto, di azione. ”Vogliamo avere la libertà di partire, ma soprattutto di restare” – esordisce Vittoria Morrone, attivista La Base, prima di lasciare la parola ai racconti di lavoratori, lavoratrici, disoccupati, tirocinanti. La voce di chi da sempre lotta per la propria sopravvivenza, di chi si è ribellato e ne ha pagato il prezzo, di chi è stato costretto ad andare via dalla propria terra, di chi è stato minacciato, di chi non si è arreso. Voci che nello sfruttamento e nella povertà in cui si sono ritrovati costretti, gridano oggi con rabbia e sgomento il proprio disappunto, raccontando esperienze di vita che in questa Repubblica “fondata sul lavoro” nessuno avrebbe mai dovuto vivere.

La Silicon Valley dei call center e dei tirocinanti: “Ho 61 anni e faccio il tirocinante. All’età di 43 anni devo chiedere i soldi a mio padre per comprare le sigarette”

“La Silicon Valley dei call center è proprio qui, tra Rende e Cosenza” – afferma Giuseppina Roberti nel suo racconto di una delle realtà più diffuse in Calabria, “una sorta di ‘realtà industriale’ della nostra realtà territoriale”.

“Il mio percorso è stato inverso. Ho lavorato per diciassette anni fuori, in nero, con la promessa di assunzione ogni anno, in un contesto diverso dai call center. Alla fine, stanca, faccio la scelta di arrivare a Cosenza, e trovare una prospettiva di lavoro nella mia terra. Inizio così a lavorare nei call center nel 2010, con tre mesi di prova che diventano sei, e una retribuzione come formazione. Esperienza che nasce con una società che, dalla sera alla mattina, dichiara fallimento. Alla fine siamo stati svenduti dai sindacati confederali, con un dimezzamento delle ore di lavoro. Dopo dodici anni, sono alla quarta società che cambio”.

“Cosa voglio dire? Il lavoro dovrebbe essere gratificante, e invece a queste latitudini è mortificante. Il lavoro che faccio è lo stesso che fa un dipendente Enel, con la differenza che lui prende 1600 euro al mese e io 800, con 12 ore di lavoro, non ho una quattordicesima, e ogni tre anni rischio di dover cambiare, con eventualità perenne di tagli”.

Prendono poi la parola due lavoratori protagonisti di una vertenza che restituisce un’immagine assurda, in cui è direttamente lo Stato a sfruttarli. “Dal 2016 faccio tirocinio, nonostante la mia età, ho 61 anni” – dice Alberto Cufone. “A quest’età, fare il tirocinante per me è qualcosa di vergognoso. Abbiamo fatto un concorso, a tempo determinato, per 18 mesi a 18 ore settimanali. Se non è precariato questo, ditemi che cos’è?”.

“Io e il mio collega – prosegue – proveniamo dai beni culturali, in cui c’è una carenza di personale assurda. Secondo voi possiamo fare i tirocinanti a 62, 63 anni? Alla nostra età dovevamo essere già in pensione. Invece si fa tirocinio, o meglio schiavitù, persone che lavorano per 500 euro al mese senza nessun diritto, né ferie, né contributi, né malattie. Poi ti parcheggiano, e ti richiamano per proporti nuovamente il tirocinio. Anche un giovane, può andare avanti a tirocini? Che futuro possono avere le nuove generazioni?”.

“Io sono Giuseppe Bossio, – continua il suo collega, visibilmente provato – e sono un ex tirocinante ministeriale, il secondo polo industriale della Calabria. A 43 anni devo ancora chiedere i soldi a mio padre per comprare le sigarette, non mi vergogno a dirlo. Sono entrato a far parte di questo bacino nel 2016, ho fatto il primo anno di tirocinio presso il Ministero dei Beni Culturali, essendo utilizzato come dipendente vero e proprio. Finito questo anno, altri dodici mesi, in cui abbiamo fatto forzature, manifestazioni. Personalmente non sto dormendo più la notte. Anche la politica specula sulla debolezza di queste categorie”.

La duplice negazione di salute e lavoro. La piaga del nero in cultura e spettacolo

Non va meglio nella sanità privata, di cui racconta Massimo Candela, protagonista di tante battaglie. “Ho lavorato in una casa di cura privata e sono andato allo scontro con il datore di lavoro, perché voleva prevaricare su noi lavoratori su varie cose. Nei lavoratori privati c’è una sorta di paura, perché è più facile che ci siano rivendicazioni, ma per le cose giuste sono andato contro tutti e sono stato anche licenziato, in malo modo, con minacce. Alla fine però la mia battaglia l’ho vinta. Dobbiamo ribellarci, altrimenti diventiamo complici del sistema”. Un sistema che, nel campo della sanità e alle latitudini in cui ci troviamo, produce una doppia battaglia, una sul diritto alla salute e l’altra sulla dignità nel posto di lavoro. Pazienti e lavoratori, in questo caso, vivono parallelamente le stesse condizioni, ognuno privato dei propri singoli diritti: il diritto di potersi curare, e il diritto di poter lavorare dignitosamente.

Un altro settore che ha sofferto tantissimo durante la pandemia, e che presenta le stesse difficoltà di tutti gli altri, è quello dello spettacolo e della cultura. A darne testimonianza Giuseppe Rimini, meglio conosciuto come dj Kerò: “Il nostro settore è complicatissimo, perché ha subito una forte frammentazione, e non ha mai avuto una vera e propria rappresentanza. Le persone che fanno il lavoro che faccio io, che produco musica, suono nei locali, lavoro con le band, faccio il tecnico del suono, mi occupo di didattica, non fanno una vita facile. Durante la pandemia, ad esempio, un mio amico mi disse che in Germania chi faceva il mio lavoro prendeva 1.800 euro al mese per l’inattività che vivevamo. Invece io ho ricevuto in un anno e mezzo 800 euro, avendo tutto in regola”.

“E poi la vera piaga – continua – è il lavoro in nero, che sta distruggendo ogni cosa. Cosenza è piena di locali, si suona dovunque, ma vi posso assicurare che il 95% delle cose si svolge in nero. Per un ragazzo che fa qui il dj, che prende 80 euro per suonare in un locale per 3-4 ore, andare a rivendicare i propri diritti è impossibile. È un problema di gestione vera del settore”.

“Siamo schiavi democratici”: il racconto di chi denuncia e viene fatto fuori

Le testimonianze continuano, ed è la volta di Luigi Puntoriero, un lavoratore e sindacalista che ha subito sulla propria pelle le condotte antisindacali: “Sono stato licenziato dal Gruppo Ferrovie dello Stato perché ho difeso i lavoratori. La mia storia è stata strumentalizzata per tappare la bocca a tutti, perché chi alza la voce automaticamente viene fatto fuori. L’episodio che mi ha portato al licenziamento è stato quello inerente alla galleria Paola-Cosenza, di cui ho denunciato il degrado e la pericolosità. L’accusa è che ho creato un danno di immagine all’azienda. Delle grandi organizzazioni sindacali nessuno ha mosso un dito, e i problemi denunciati sono rimasti lì, come la galleria, pericolosissima per chi ci viaggia e per chi ci lavora. Noi siamo degli ‘schiavi democratici’”.

“Lavoro a Cosenza con Ecologia Oggi” – prende la parola Luigi Bevilacqua, delegato provinciale USB igiene ambientale. “La mia esperienza parte come lavoro nelle cooperative diciassette anni fa, un gruppo di quasi 500 persone che sono trattate tutte allo stesso modo: prima la paga era di 620 euro al mese, adesso è di 580 euro al mese con tredicesima compresa. Nel 2012 ho fatto 9 mesi di lavoro con la Regione Calabria e la promessa che a fine percorso avrebbero fatto un contratto a tempo indeterminato. Lo hanno fatto, ma multiservizi. Dopo alcune lotte durate anni, siamo riusciti a far cambiare il contratto. Siamo tra le categorie che non stanno troppo male, prendiamo 1.500/1.600 al mese, ma il problema sta negli appalti che ci sono puntualmente ogni cinque anni, con il rischio di ricominciare daccapo”.

Gli sfruttati di domani: l’alternanza scuola-lavoro

A parlare di quella che può essere definita l’incubatrice degli sfruttati di domani è Cristina Gaudio, sempre in prima linea nella difesa dei diritti: “L’alternanza scuola-lavoro – afferma – è un programma che prevede che tutti gli studenti e studentesse di terzo, quarto e quinto superiore trascorrano un tot di ore lavorando in una struttura senza alcuna retribuzione salariale. Un’esperienza che proietta i giovani in uno specifico mondo del lavoro: senza tutele, senza diritti, senza formazione sindacale, insegnando loro che è normale lavorare gratuitamente e preparandoli a un futuro di precarietà e sfruttamento. Neanche la morte di tre ragazzi, Lorenzo, Giuseppe e Giuliano è riuscita a far smuovere qualcosa affinché questo sistema venisse abolito. Un sistema che fa gli interessi dei padroni, di Confindustria, e di tutte quelle stesse persone che oggi dicono di fare opposizione al Governo quasi avessero dimenticato che otto anni fa stavano convintamente votando la riforma della loro scuola”. Un modello che provoca morti e che addestra i giovani alle parole d’ordine delle aziende: sfruttamento, salari da fame, zero diritti e sicurezza.

Reddito di cittadinanza: l’arma che ha scoperchiato il vaso di Pandora. Federico Giordanelli: “La retorica dei percettori fannulloni deve essere superata”

Uno dei punti fondamentali su cui si fonda l’inchiesta condotta da “La Base” è il reddito di cittadinanza, vera e propria “arma” contro sfruttamento e precarietà. Non è un mistero, difatti, che il reddito di cittadinanza abbia avuto, se non altro, il merito di scoperchiare il vaso di Pandora del “lavoro da fame”, permettendo a giovani e meno giovani di avere un’alternativa. Un’alternativa alle condizioni di lavoro massacranti e degradanti, prive di diritti e di dignità, messe in evidenza dalla stessa inchiesta. In quel vaso di Pandora, ormai scoperchiato, erano racchiusi tutti i mali che molti imprenditori pretendevano dai loro dipendenti.

“La chiamo perché ho trovato un annuncio come cameriere, e vorrei avere qualche informazione in più. Ho tre anni di esperienza” – chiede un attivista del movimento rispondendo a un annuncio di lavoro. “La stagione inizia da giugno a fine agosto, dalle 17:00 all’una, tutti i giorni, per 1.200 euro” – risponde il datore di lavoro, in uno dei tanti video che “La Base” ha diffuso sulla sua pagina Facebook.

“Un’inchiesta iniziata per cominciare a smontare questa narrazione dei giovani che non vogliono lavorare, dei percettori di reddito fannulloni” – spiega Federico Giordanelli, attivista del movimento cosentino. “Prima di diventare un percettore di reddito, ero un normale disoccupato, dopo aver provato a fare diversi lavori. Lavori precari, ovviamente: call center, cameriere nei lidi, addetto all’accoglienza. L’ultima esperienza regolare è stata quella di consegna a domicilio. Una situazione di lavoro che è terminata con la pandemia, e da lì non ho più trovato un’occupazione dignitosa, così mi sono rifugiato nella possibilità del reddito, con tutto ciò che comportava. Il reddito è diventato un’arma. Prima di riceverlo ho valutato un’opportunità di lavoro come corriere, quasi tutto in nero, in cui sarei arrivato a percepire 1.000/1.100 euro per 12 ore di lavoro al giorno, inizialmente senza nessuna forma assicurativa. Penso sia stato abbastanza legittimo scegliere il reddito”.

 

“Le questioni che riguardano disoccupati e lavoratori sono collegate” – precisa Federico. “Tutta la retorica che è stata fatta contro i percettori di reddito per mettere le due categorie in competizione va superata. Il reddito non va abolito. Questa forma di pseudo-reddito che stanno proponendo, che prevede che chi potrebbe lavorare dovrebbe campare con 350 euro al mese, è una follia. Soprattutto noi, che siamo in questo territorio, dove trovi un lavoro, sei sfruttato, e devi anche essere grato a qualcuno, dobbiamo ribellarci. Non possiamo continuare a sopravvivere così, ad accettare 2,50 all’ora che ci offre il padrone di turno”.

La retorica dei giovani disimpegnati e disinteressati: “Essere studenti lavoratori a Cosenza significa vivere un dramma iper-sfruttato, iper-sottopagato, iper-ricattabile e super-precario”

“Vi racconto la mia odissea lavorativa” – dice Giancarlo De Marco. “La mia esperienza nel lavoro intermittente e precario inizia subito, perché durante il mio percorso di studi mi iscrivo a un bando all’università di un mio docente per cui avremmo dovuto contribuire a una sua ricerca con la somministrazione di interviste. Venivo pagato a cottimo, ogni intervista veniva 8 euro, ed era comunque qualcosa di iperflessibile, perché gestivamo noi i turni stessi di lavoro. Questo lavoro è durato tre mesi. Finisco questa esperienza, ho una chiamata di un mio conoscente che voleva la trascrizione di alcune interviste audio sempre per una ricerca scientifica. Poi la scorsa estate mi sono buttato nel difficile lavoro stagionale: da giugno a settembre, formazione in nero, senza giorno libero, con 5-6-7 ore di lavoro al giorno. Dopodiché, finita quest’esperienza, cerco di andare verso il mio settore di riferimento, quindi mi candido per una cooperativa sociale qui a Cosenza. Succede che sono qui, devono ancora pagarmi due mesi di stipendio, e in più non si sa nulla del futuro”.

“Vi parlo da giovane lavoratore, ma soprattutto studente lavoratore. La mia esperienza di lavoro è iniziata come necessità durante il periodo di studi. Essere studente universitario in Italia nel 2023 significa vivere un dramma” – afferma poi Manuele Panella (Fronte Gioventù Comunista). “Difficile spiegarlo a parole semplicemente parlando della competizione, della pressione sociale sulla performance, della mancanza di prospettive, dei costi che sono sempre più alti. Ogni mese noi assistiamo alla tragedia di sapere che in qualche parte d’Italia un nostro collega si è tolto la vita per colpa di questo sistema totalmente marcio. In aggiunta a questo, se si è uno studente proveniente da una famiglia di lavoratori, disoccupati, precari, si aggiunge il dramma di doversi mantenere da soli con lavori che sono ipersfruttati, ipersottopagati, iperricattabili, e superprecari.

A Cosenza, in particolare, essere studente lavoratore significa essere condannato a finire in un call center, come nel mio caso, con contratti rinnovati mese per mese. Da ‘Abramo Customer Care’, quindi non proprio una piccola azienda, siamo stati assunti con questo contratto con più ore di chi aveva un contratto regolare, io e i miei colleghi il primo mese ci siamo ritrovati con 300 euro, il secondo mese con 250. Ma essere studente lavoratore a Cosenza significa anche lavorare nei locali, pub, pizzerie, dove si lavora a chiamate, minimo dieci ore al giorno se ti va bene, dove soprattutto le ragazze sono più vulnerabili perché possono essere oggetto di molestie.

Non mi dilungo su cosa voglia dire essere rider, praticamente rischiare di perdere la vita mentre si corre con la bicicletta lungo le strade dissestate e degradate in cui si costringono a vivere. In tutta questa condizione, succedono due cose: la prima è che spesso si è costretti a lasciare l’università, la seconda è che ci si incazza da morire quando poi si torna a casa e si sente dire che i giovani non hanno voglia di fare nulla e che il reddito di cittadinanza va abolito. Soprattutto fa rabbia sapere che il reddito è stato eliminato non perché sono stati presi provvedimenti per garantire i diritti sul lavoro, ma perché verrà sostituito con uno strumento peggiorativo che ci costringerà a lavorare esattamente in quelle condizioni, con quei salari da fame, denunciati nelle scorse settimane dalla Base”.

 

Formazione e scuole paritarie: “Lavorare nelle scuole? Un po’ come la Playstation. Un gioco di ricatti e salario zero per scalare il traguardo”

E a concludere questa ricca rassegna di atroci testimonianze è Maria Laura Morgione, che rende conto delle difficoltà che vive il mondo della formazione: “Vorrei iniziare dicendovi come funziona il mondo della scuola. Si può entrare nelle scuole attraverso graduatorie infinite, attraverso punteggi, quasi fosse un gioco. Arrivare più in alto e sperare di essere destinatari di contratto a tempo determinato. In Calabria si utilizza un escamotage che è quello delle scuole paritarie, dove le persone lavorano a salario zero, vengono ricattate e cominciano a scalare la graduatoria che permette loro di andare a lavorare nelle statali. Io la vedo un po’ come una playstation.

Un altro modo è pagare profumatamente di nuovo i privati, le università telematiche per avere dei crediti. Perché i neo-laureati non entrano nella scuola? Perché non ci sono i concorsi per cui ti basta come titolo d’accesso la laurea. Io insegno francese, sono al terzo anno di supplenza, e vedo nelle classi cose assurde”.

E il suo racconto non è molto diverso da quello di un’altra ragazza di cui “La Base” ha raccolto la testimonianza: “Sono una docente precaria, ho deciso di rimanere nel mio territorio perché non voglio emigrare. Ho cercato dei contatti sia con delle scuole paritarie del territorio, che private. Le scuole paritarie non mi hanno proposto alcuna retribuzione, nemmeno il rimborso benzina, mentre una scuola privata cosentina mi ha contattata per un colloquio per propormi un dopo-scuola dal lunedì al venerdì con contratto co.co.co, 300 euro al mese”.

Gli imprenditori non sono santi e i giovani del Sud non sono fannulloni: la contro-narrazione emersa nell’inchiesta del “lavoro da fame”

A concludere l’assemblea è l’attivista Stefano Mancuso: “Quando abbiamo fatto partire l’inchiesta, ci eravamo resi conto che sui media nazionali la costruzione della comunicazione viene fatta nei termini di una criminalizzazione verso chi prende il reddito. Quasi come se la mentalità sul lavoro sia rimasta ferma all’800. Di fronte a questo leitmotiv del governo che vede la criminalizzazione dei giovani, dei giovani che non vogliono lavorare, dei giovani del sud, dei migranti, di chi non ce la fa a scuola, abbiamo voluto fare qualcosa. Così abbiamo chiamato gli annunci di lavoro che trovavamo per strada, e abbiamo portato la realtà del lavoro sfruttato davanti agli occhi di tutti. Qui la gente se ne va, e non può fare altro che andarsene. Credo che sia importante mettere in piedi una contronarrazione che rompa con l’idea che l’imprenditore è un santo, e poi spiegare che non siamo criminali, fannulloni, o gente sottosviluppata, perché questo è il pensiero di fondo, ma lottiamo invece per andare avanti tutti i giorni”.

E di questa narrazione, che colpevolizza gli sfruttati e ricerca giustificazioni per gli sfruttatori, se n’è avuta prova nella stessa trasmissione che ha ospitato i ragazzi nel corso di queste settimane. “Ma voi sapete parlare l’inglese?” – chiede il giornalista e divulgatore scientifico Alessandro Cecchi Paone, durante una puntata di “L’aria che tira” trasmessa su La7, ai ragazzi ospitati per raccontare la loro inchiesta. Così, mentre il fulcro del discorso erano stipendi da fame, ricatti, lavori a nero, e tutto ciò che in questo articolo e nell’inchiesta è stato egregiamente raccontato, il problema diventa in un batter d’occhio l’inglese. Come quasi a voler creare un’altra narrazione, di fronte a quella ormai smascherata dei giovani del sud fannulloni e pelandroni: la narrazione del giovane meridionale ignorante e impreparato. Come se la colpa non dovesse mai ricadere su chi propone condizioni di sfruttamento, ma sullo sfruttato, su cui è sempre cosa buona e giusta instillare il dubbio che abbia qualcosa che giustifichi la condizione in cui si ritrova. Come a voler sempre creare l’immagine di un essere inferiore, costretto per natura a subire la vita che il padrone sceglie per lui.

“Loro non sono pagati. Sono di mia proprietà”. Lo dice lo schiavista Edwin Epps nel film “12 anni schiavo” di Steve McQueen ambientato nel 1841. Eppure, nel 2023, in una qualsiasi cittadina del Sud Italia, questa frase risuona tragicamente contemporanea.

 

 

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