Personaggio chiave e figura principale del processo è stato Giovanni Barone, broker finanziario romano, per il quale la Procura Distrettuale di Catanzaro aveva richiesto la condanna a ventidue anni di reclusione (la più severa tra tutte quelle formalizzate in sede di requisitoria).
L’accusa più grave mossa nei confronti del professionista era quella di partecipazione ad associazione mafiosa, con particolare riferimento al sodalizio dei Bonavota di Sant’Onofrio.
I reati fine che gli venivano contestati erano tutti aggravati dalla circostanza di avere voluto agevolare il predetto sodalizio, di cui veniva ritenuto organico.
Secondo l’impostazione accusatoria Barone, in rapporti diretti con esponenti apicali dell’associazione, avrebbe avuto un ruolo attivo nel reperimento di risorse economiche e nella gestione di attività imprenditoriali fittizie, anche all’estero, in favore dei Bonavota. Egli, con il supporto di un legale ungherese, avrebbe creato società di comodo in Ungheria, utilizzate per movimentare denaro illecito, tra cui anche quello proveniente da una truffa da 1 milione di euro ai danni di sultani omaniti. Parte dei proventi sarebbe stata reimpiegata a favore della cosca.
L’indagine – sviluppata in un articolato contesto di cooperazione internazionale di polizia giudiziaria con autorità ungheresi, cipriote, francesi, danesi e britanniche, con il coordinamento di Eurojust – si è avvalsa della collaborazione dell’Unità di informazione finanziaria (Uif) della Banca d’Italia.
I difensori del professionista romano, avvocati Andrea Alvaro e Marco Rigamonti, hanno contestato l’assunto accusatorio, provando in dibattimento a dimostrare l’estraneità del
Barone al sodalizio criminale e la sua indifferenza rispetto agli interessi dello stesso.
La tesi difensiva ha trovato avallo nella decisione del Tribunale Collegiale di Vibo Valentia (Pres. Borelli, a latere Conti e Bertola), che ha assolto il Barone dal reato associativo – oltre che da numerosi reati di truLa, intestazione fittizia e autoriciclaggio – e ha escluso l’aggravante dell’agevolazione mafiosa in relazione alle fattispecie di reato di intestazione fittizia e autoriciclaggio per cui lo ha condannato a pena sensibilmente inferiore rispetto a quella richiesta dalla Procura distrettuale.
Gli avvocati Alvaro e Rigamonti hanno espresso il loro compiacimento per la decisione del Tribunale vibonese, che ha riconosciuto come il Barone non abbia agito da partecipe del sodalizio mafioso né nell’interesse di esso. «Apprezziamo il giudizio espresso dal Collegio vibonese, a cui è riuscita, nell’ambito di un procedimento molto complesso, una corretta ricognizione dei dati probatori emersi nel dibattimento, in particolar modo nel corso dei lunghi controesami dei testi dell’Accusa».