“Celebrare il Primo Maggio non è solo un rito civile. È un atto politico, nel senso più alto e autentico del termine. È la riaffermazione del principio fondativo che la Repubblica, come recita la nostra Costituzione, è plasmata sul lavoro. Ma cosa significa oggi, a Cosenza, “lavoro”? E soprattutto quale lavoro? Perché il rischio concreto è che si continui a celebrare una parola vuota, simulacro retorico di ciò che dovrebbe essere e invece troppo spesso non è. In questa provincia, il lavoro non è più (o non è ancora mai stato) ciò che promette. Emancipazione, stabilità, senso di appartenenza. È piuttosto un campo minato di contraddizioni. Qui, dove le rughe dell’arretratezza si mischiano ai lampi d’intelligenza (anche artificiale) di una gioventù vivace e colta, il lavoro si presenta sotto le spoglie dell’instabilità cronica, del sottosalario, del disincanto. È un lavoro che sfida la logica del merito e della competenza. Che punisce chi resta, premia chi fugge. Che non conosce garanzie ma solo scadenze. Che troppo spesso diventa sopravvivenza, mai piena cittadinanza. La precarietà, da noi, non è più solo una condizione lavorativa, è una grammatica esistenziale, che scandisce il quotidiano e modella le scelte di vita, rallentando la costruzione di legami duraturi, ritardando i figli, spezzando l’idea stessa di futuro e negando di conseguenza a questa terra il domani. È una precarietà sistemica, strutturale, che trasforma il lavoro in un accumulo di esperienze transitorie, tutte troppo brevi per lasciare un segno, troppo fragili per offrire stabilità, un tirocinio continuo che cancella le speranze di una vecchiaia serena. I precari sono fantasmi, che popolano tutti i giorni un mondo del lavoro, nell’indifferenza silenziosa e assordante della politica. Ma se la precarietà è una forma moderna di esclusione, l’insicurezza sul lavoro è una forma arcaica e crudele di violenza. Morire sul posto di lavoro, nel 2025 (morendo per le stesse cause di 50 anni fa), è una sconfitta che chiama in causa l’intero sistema Paese. Eppure, accade. Accade anche qui, in aziende dove le misure di protezione sono considerate un bene più prezioso della vita, accade nei campi dove i braccianti sono invisibili, anche quando muoiono. E ogni morte è il risultato di una catena di omissioni, legislative, culturali, etiche, che lascia sulle mani di tutti il sangue di un’inerzia colpevole. Dove manca la prevenzione, dove i controlli si diradano, dove si risparmia sulla vita per “stare sul mercato”, il lavoro diventa una trappola. La vera sfida è quindi superare il mero adempimento burocratico, facendo diventare la sicurezza sul lavoro un elemento identitario delle imprese, una metrica della loro civiltà, un criterio di selezione pubblica e privata. È qui che si misura la distanza tra un capitalismo predatorio e un’economia sociale del lavoro. Tra chi considera il lavoratore una risorsa da sfruttare e chi lo riconosce come una PERSONA da tutelare. E allora la battaglia del sindacato non può limitarsi a difendere. Deve anche anticipare, innovare, proporre. È la battaglia di un sindacato che vuole essere del “Terzomillennio”. Servono politiche del lavoro che non si limitino a “creare posti”, ma che creino valore. Serve un nuovo umanesimo, come lo teorizzava anche Papa Francesco, che sia capace di coniugare innovazione tecnologica e diritti, lo sviluppo territoriale e la giustizia sociale, che dia dignità a chi lavora. Serve immaginare Cosenza e la Calabria non come periferia da sostenere, ma come laboratorio da cui ripartire. Abbiamo bisogno di una nuova alleanza territoriale, non solo tra sindacati, imprese e istituzioni, ma anche con scuole, università, associazioni, in pratica con quella comunità che non si rassegna. Perché il lavoro è un tessuto sfilacciato, che ha bisogno di essere riparato, rammendato, usando i fili sottili ma robusti di solidarietà, progettualità, di prospettiva e perché no, anche di innovazione. Dobbiamo abbondonare l’idea romantica della “Restanza”, in luogo di un’idea più pragmatica della “Ritornanza”, costruendo una terra dove lavorare significhi costruire un futuro, non rincorrere un presente instabile. Ecco perché questo Primo Maggio non è solo una ricorrenza. È una chiamata ad una sveglia collettiva. Perché senza lavoro stabile e sicuro non c’è libertà, non c’è dignità, non c’è democrazia…. Non c’è Futuro. E allora questo il Primo Maggio, alziamo la voce non per chiedere l’impossibile, ma per pretendere l’essenziale.
Buon Primo Maggio a tutte le lavoratrici e i lavoratori”.
Così in una nota Paolo Cretella, Segretario Generale UIL Cosenza.