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L’ultimo Drago d’Aspromonte: un ritorno alla natura

di Alessia Tripodo – Già dalle prime righe del racconto scritto da Gioacchino Criaco si avverte un profondo senso di alienazione. Nelle sensazioni impresse dal protagonista, , paura ed eccitazione, sconforto e rinascita mi mescolano restituendo un pensiero a volte frammentano, altre completamente sciolto dal razionale. Infatti, l’esercitazione che compie Criaco è di distacco rispetto la cruda realtà che con Anime Nere lo ha consacrato al grande pubblico.

Qui si sperimentano altri registri, qui si è davanti a una fiaba. E come ogni fiaba che si rispetti si va incontro a una lezione: la morale che tiene unite tutte le disavventure del protagonista. Ma andiamo in ordine.

 

L’ultimo Drago d’Aspromonte (Rizzoli Lizard, pp.191) racconta le vicende di Nì, personaggio che da bambino vive un profondo trauma; tanto profondo da provocare delle dissociazioni cognitive e a farlo avvicinare alla tossicodipendenza. Ed è proprio qui che inizia il racconto: la madre, disperata per le sorti del figlio, lo invita ad unirsi a una comunità di recupero che si trova proprio nel cuore dell’Aspromonte. Il punto di vista che l’autore sceglie di seguire è strettamente quello di Nì, cosicché l’ambiente, le immagini e soprattutto i pensieri dello stesso divengono l’unico elemento di realtà del romanzo. Ma il giovane Nì ricalca l’apoteosi di un Holden cupo e tormentato. Non ci sono, di fondo, degli elementi che parlano del reale: solo sensazioni e immaginazioni, solo contrasti. Primo tra tutti il contrasto tra l’asprezza della montagna – anzi, l’asprezza di quella specifica montagna – e la decadenza delle città con monti di cemento perennemente a mezz’asta, immobili negli anni.

Infatti, Nì decide di restarci in Aspromonte. Si avvicina a quella seconda vita donata dalla comunità, fatta di fatiche, rinunce, ma anche di piccoli momenti di magia. L’esoterismo, nel libro di Criaco, non è gettato a impieghi alchimistici, a formule magiche e a rituali segreti; piuttosto è la segretezza del mondo animale, la resilienza delle foreste e dei suoi abitanti. La fiaba, quindi, non è ad appannaggio di orchi e streghe – o draghi da sconfiggere -. Il nemico più grande contro il quale confrontarsi è il solo, limitato, essere umano che, per quanto innocuo, è in grado di confonderci e rimescolare le carte. Gli uomini non sono mai ciò che sembrano, la natura sì. È questo il grande messaggio che Criaco tramanda: lo sguardo della natura è lo sguardo di una forza panteistica uguale a sé stessa.

A renderlo specifico, sono i disegni di Vinzenzo Filosa. L’artista crotonese decide di raffigurare le stravaganti immagini che man mano appaiono al protagonista e al lettore, utilizzando la monocromia del bianco e nero. Le puntinature e i tagli, che ricordano tanto lo stile nipponico, non lasciano spazio a ricostruzioni astratte. Filosa accompagna dolcemente la lettura, ponendo ritmo ai capitoli nel suo accurato minimalismo. L’unione dei due artisti calabresi non poteva essere più azzeccata.

E in fine c’è il Drago o drago. Sì, perché il valore che assume, anche qui, è di contrasto: è il drago delle fiabe con il cuore di fuoco, è sinonimo di accrescimento spirituale ed è anche il Draku roccioso che si trova a Roghudi vecchia nel reggino (e che viene rappresentato sulla stessa copertina).

 

La leggenda del Draku 

Roghudi vecchia è un paesino grecanico oramai disabitato; “fantasma” come molti paesi in quella fascia di Jonio e non solo. Nella frazione di Ghorio di Roghudi è possibile trovare un particolare masso ovale, conosciuto come “Rocca ru Dracu” che, a sua volta, mutua il nome dal greco “draku”, che vuol dire “occhio”. La leggenda, infatti, racconta che lì giace una testa di drago, chiamato a proteggere un tesoro inestimabile in quella collina. Soltanto un valoroso combattente avrebbe avuto accesso al tesoro, dopo aver superato delle prove tra cui il sacrificio di tre viventi maschi: un neonato, un capretto e un gatto. Nessuno provò mai a sfidare il drago, senonché, un giorno, a due uomini venne affidato un bambino malformato. Golosi di acquisire il tesoro, si recarono ai piedi della roccia, pronti al sacrificio dei tre maschi. Arrivato il turno del bambino, però, una violenta folata di vento li fece cadere contro le caldaie del drago: uno perse la vita, l’altro fu condannato a vivere fino alla fine dei suoi giorni nella tormenta del drago.

 

“Peccatori, in questa montagna ci sono solo peccatori”

Solo peccatori, avidi, derelitti e miseri: sono gli uomini e le donne d’Aspromonte che la cultura dello scritto o delle immagini ci tramandano. Soprattutto, gente povera, gente affaticata, triste e con la testa altrove. Nel regno dei cieli o in una città lontana, ovunque meglio che in quelle impervie vie di montagna, piene di nemici e leggende.

Sarà pur vero, ma la paranoia del protagonista è alimentata da elementi minimi: tutto diventa sospettoso e ostile. Ciononostante, non riesce a distaccarsene. Luoghi e persone offrono un magma inseparabile. Le persone appaiono ruvide come il terreno ispido aspromontano, come certe rocce mal levigate, mentre la natura parla e alberi e capre raccontano di sentimenti antichi e nuove paure. Nel mondo di contrasto di Criaco, l’uomo e la natura appaiono perfettamente allineati.

La natura che ci viene fatta conoscere, infatti, non è benigna, o non lo è sempre. La natura pone delle sfide e fa vacillare anche le menti più solide.

“L’Aspromonte (…) aspro, ostile, lo è per chi non lo conosce, per i forestieri, per quelli che nel passare dei secoli sono venuti a conquistarlo. Per loro è sempre stato, ed è rimasto, asper, inospitale. Per chi lo ama, per i suoi figli, la montagna ha il significato opposti, aspru: bianca, lucente, ospitale, è Mana Gi, la grande madre che i pastori scolpiscono come una mammella sui collari di legno di gelso delle capre e delle pecore”

 

Ridateci le montagne

Il drago ha perso il primato nella rocca d’Aspromonte, permettendo all’uomo di abbruttirsi. Il racconto di Criaco viene pubblicato nel 2020 e l’estate seguente la Calabria – soprattutto l’Aspromonte – vive uno dei periodi più tragici di sempre. Fuoco e fiamme divorano ettari di terreno, del Parco Nazionale (sprovvisto di qualunque piano di prevenzione) rimangono profondi stralci anneriti, faune distrutte o costrette a migrare. La siccità di quest’anno e i continui incendi non permettono all’ambiente di rigenerarsi. Ma la responsabilità non può essere rimandata sempiterno. Né può essere sganciata a questioni politiche: siamo noi ad abitare questa terra.

Così, L’Ultimo Drago d’Aspromonte diviene un eco di tradizioni: una conoscenza antica che sa come destreggiarsi tra pulsioni umane e necessità della natura. Un rispetto tacito che Criaco introduce dalla più semplice lavorazione della terra. Se continueremo senza questo monito, saremo capaci di uccidere il drago.

 

Drago buono, Drago cattivo

Nì è un uomo confuso, forse un po’ matto, ma sicuramente non è uno sprovveduto e sa riconoscere gli amici dai nemici. Soprattutto se questi, sotto forma di ricordi, convivono dentro di lui. Dunque, al termine del libro c’è da chiedersi se il drago sia tutto sommato una figura positiva. Essi, paragonati ai peccatori che scontano le loro pene nei rifugi montani, sono “creature buone e gentili, nonostante il loro aspetto”. Come riporta la leggenda di Roghudi, il drago più che mostro è il simbolo di qualcosa di quelle terre che resiste. Che va preservato dai banditi, dagli avidi, dagli usurpatori. E anche in Criaco questa mitologia si ripete, con una sostanziale differenza. La forza del drago non va ricercata all’esterno: è introversa, vicina al sé. Più sostanziale del legame che molti autori del Sud avvertono con la loro terra, più violenta delle radici. Il fuoco del drago è una riserva preziosa per chi è nato e cresciuto qui. È per questo che il titolo trae in inganno.

Chiunque abbia il coraggio di affrontare tutto il bagaglio di bellezza e bruttura, di storia e ignoranza, di meraviglia e orrore che questa terra offre, avrà trovato la forza primordiale del drago.

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