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Violenza, fragilità, forza: a Catanzaro, le differenti declinazioni della fisicità con “Primavera dei Teatri”

di Gaia Serena Ferrara

 

Una figura al centro del palco. Il buio distratto da quell’unico fascio di luce che illumina un corpo. Un corpo, solo, nel silenzio, che urla forte senza usare la voce.

Silenzio.

La fisicità spontanea, mostruosa, scevra da ogni sessualizzazione: il paradigma attraverso cui comunicare un messaggio.

Questo il filo conduttore delle due rappresentazioni teatrali serali che si sono svolte ieri nella seconda giornata del festival “Primavera dei Teatri” a Catanzaro, e che hanno visto protagoniste Marina Otero (Argentina) e Renata Carvalho (Brasile), nei i loro rispettivi spettacoli dal titolo “Love me” e “Transpophagic Manifest.”

Due lavori diversi, che prendono le mosse da presupposti differenti ma che portano in scena la medesima verità: ciò di cui non si parla, smette di esistere.

 

 

Ecco quindi che Marina Otero inizia un dialogo, di cui il pubblico non è destinatario ultimo ma è invece parte del copione, perché lo spettatore non deve apprendere o imparare o interiorizzare alcunchè, deve solo sentire, avvertire, farsi coinvolgere. Ascoltare e ascoltarsi.

La finzione di saper amare, la voglia di essere amati, l’amore e il dolore mano nella mano e la paralisi di un corpo che dall’immobilità ricomincia a sperimentare lo spazio intorno a sé, a muoversi, a danzare: Marina Otero porta in scena la sua vita, le sue radici, la sua storia, usando come veicolo solo la sua fisicità, in un crescendo che dal silenzio esplode in violenza. La violenza familiare di un padre contro una madre, violenza contro uno sconosciuto, violenza che ti porta a distruggere tazzine sulla testa del tuo fidanzato, violenza contro la sua auto, violenza contro te stessa.

“Come ho fatto a finire qui seduta?”, il testo del bozzetto dell’opera teatrale scorre sullo schermo dietro la schiena dell’artista silente e immobile, mentre quegli interrogativi iniziano ad invadere anche le menti degli spettatori.

Dalla premeditazione teatrale alla spontaneità di un corpo che balla nudo seguendo le note di una canzone scritta da un autore condannato per omicidio colposo.
Ed è così che Marina Otero sceglie di condividere la sua personale catarsi, quella che le permette di continuare a ideare, a scrivere, a vivere, nonostante il fatto che di lei “Si vedano tutti gli ingranaggi”.

 

 

Se per Marina Otero esporre la propria corporeità rappresenta una sorta di compromesso per poter continuare a sopravvivere creando, la dirompenza della fisicità ha una diversa connotazione in “Transpophagic Manifest” di Renata Carvalho.

“Questo è il mio corpo. Un corpo che arriva prima di me, senza il mio permesso”.

Renata si presenta vestita solo di queste parole. Sopra di lei un’insegna lampeggiante: “Travestito. Travestito. Travestito.”

 

La Carvalho racconta il suo corpo: un corpo ora dissidente, ora deviato, emarginato, pericoloso, malato; un corpo oggetto, mediatico, pubblico. Il corpo di una “Travesti”, con il suo peso e la sua storia, con i suoi traumi, e le sue conquiste.

L’artista si confida col pubblico come con un diario, senza omissioni, senza bisogno di edulcorare o mistificare la realtà, quella di un corpo considerato abietto, censurato, additato.

“Cosa cercano così affannosamente quando mi guardano?” chiede.

“Un corpo violento, contaminato, un corpo nemico.”

La storia della sua corporeità, quella che lei ha assemblato in ogni pezzo, si mescola magistralmente con la storia delle persecuzioni subite per anni dalle donne “travesti” in Brasile.

Non c’è vittimismo nelle parole di Renata, non c’è l’intento di suscitare alcuna pietà e compassione, bensì quello di affermare con forza e dirompenza la soddisfazione di essere riuscita a plasmare il corpo che voleva: un corpo che lei ha costruito, a cui lei ha dato nuova vita.

“Sono io che ho dato luce a me stessa”.

 

 

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