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I Blues Brothers, Belushi e ‘soltanto’ 29 paia di Ray-Ban. La lezione di John Landis: “I film sono un’esperienza umana, vanno visti insieme e al cinema”

di Walter Alberio – “Sono 126 miglia per Chicago. Abbiamo il serbatoio pieno, mezzo pacchetto di sigarette e portiamo tutt’e due gli occhiali da sole”. 42 anni dopo il mito dei Blues Brothers è ancora vivo, dalla Calabria all’Illinois, lo Stato americano dove i fratelli Jake ‘Joliet’ ed Elwood Blues scorrazzavano a bordo di una Dodge Monaco della polizia, “in missione per conto di Dio”.

Costumi, dialoghi, battute, musiche. Tutto è ed è rimasto nell’immaginario collettivo del pubblico. Particolari che, insieme, ne fanno un cult senza tempo e riconoscibile. Riconoscibile come lo stile di John Landis, che quella pellicola l’ha scritta, insieme a Dan Aykroyd, e l’ha diretta. Un segno intangibile nella commedia americana, che da “Animal House” in poi assumerà con Landis una connotazione anarchica, comica e grottesca.

Di questo e altro, il regista di Chicago ha parlato ieri sera al porto di Catanzaro, nella masterclass organizzata nell’ambito del Magna Graecia Film Festival. Il dialogo con la giornalista Silvia Bizio, durato solamente mezz’ora e parzialmente sacrificato nella scaletta della serata finale della kermesse, ha tuttavia regalato diversi aneddoti sui lavori di Landis, il quale tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80 ha diretto altre pellicole di successo (“Un lupo mannaro americano a Londra”, “Una poltrona per due” con la coppia Eddie Murphy e Dan Aykroyd e “Il principe cerca moglie”).

BLUES BROTHERS: LA GENESI. “E’ un film che mi è particolarmente caro. L’ho rivisto a Bologna poco tempo fa, dopo 11 anni, e ho pensato ‘Ma che strano film, è un follia’. C’è una musica meravigliosa”, ha commentato Landis. E non si può dargli torto. Da Ray Charles ad Aretha Franklin, passando per Johnny Lee Hooker e il “reverendo” James Brown, che fa “vedere la luce” a Jake ‘Joliet’ Blues. Tante le star della musica che hanno impreziosito un film tanto ‘massacrato’ inizialmente dalla critica americana, quanto amato da diverse generazioni di pubblico.

“Dan Aykroyd e John Belushi avevano davvero una passione straordinaria per il rhythm ‘n’ blues. Quando abbiamo fatto il film, nel 1979, il mondo andava in un’altra direzione, verso la disco music, Abba e Bee Gees. Non si poteva diventare più ‘bianchi’ di così. Dan (Aykroyd, ndr) però – ha ricordato Landis – insisteva nel voler fare un film incentrato sulla black music. Volevano sfruttare, all’epoca, la celebrità che avevano conquistato attraverso le performance con tutte le bande possibili e immaginabili”. Aykroyd, punta di diamante del Saturday Night Live, uno degli show televisivi più importanti in quel momento, e Belushi, reduce da ‘Animal House’, spinsero molto per portare sul grande schermo il blues e la soul music del gruppo fondato nel 1978. “Volevo John Belushi in ‘Animal House’ e uno dei modi che ho usato per attirarlo era stato proprio quello di offrirgli un contratto di sviluppo per un film, qualcosa che in realtà non significa niente. Ma gli avevo detto: ‘Faremo un film su Jake ed Elwood Blues’”. 

“Abbiamo quindi allestito un concerto alla Universal Amphitheatre di Los Angeles e, come poi sarebbe avvenuto nel film, quando arriva il produttore musicale con un sacco di contanti, la Universal ci ha detto: ‘Vogliamo registrare il concerto’”. Quell’album si intitola “Briefcase Full of Blues”, contiene celebri cover come “Rubber Biscuit” e “Soul Man”, e otterrà “un triplo platino nel giro di pochissimo tempo”.

“La Universal ci ha quindi dato l’ok per fare il film e ci ha chiesto: ‘Potete farlo uscire ad agosto?’. Mancavano solo 6 mesi a quella data, ma noi abbiamo detto sì, perché ciò voleva dire avere il film in produzione. E’ stato fatto tutto in maniera rapida, sulla scia dei successi paralleli ai film”, ha spiegato Landis.  

BELUSHI E I 29 PAIA DI RAY BAN WAYFARER Abito scuro, cappello e occhiali Ray-Ban Wayfarer sono i tratti distintivi dei fratelli del blues, ciò che li rende iconici. “In quel momento, c’era una famosa copertina di un album di John Lee Hooker, in cui indossava  dei Ray-Ban, un modello che non facevano più da dieci anni. Siamo andati da loro (dalla Ray-Ban, ndr) – ha raccontato il regista – e gli abbiamo chiesto: ‘Ce li potete rifare?’. Ci hanno risposto ‘Absolutely not’. Abbiamo dovuto quindi sguinzagliare le persone in giro per gli Stati Uniti d’America alla ricerca di questi sunglasses. Siamo riusciti a mettere insieme 29 paia di occhiali. Per noi erano preziosi, perché tutti dovevano indossarli: dagli attori alle controfigure”. 

Poche paia e indispensabili, ma non per Jake Blues. “Chiamavamo John Belushi il ‘buco nero’, perché ogni volta che lui vedeva una ragazza che le piaceva glieli dava. Noi urlavamo: ‘No! Ci servono’”, ha ricordato Landis. 

Quegli occhiali finorono poi sul set di Paul Brickman,che stava lavorando, sempre a Chicago, a ‘Risky Business’. “Vide questi Ray Ban e se ne innamorò. Alla fine, li abbiamo rivenduti a lui. Gli occhiali dei Blues Brothers passarono dunque a Tom Cruise”. Tra un set e l’altro, “Ray Ban è ‘esplosa’ e ha ricominciato a fare questi occhiali. Credo proprio che dovremmo chiedergli dei soldi per tutto il fatturato che hanno fatto grazie a questi due film“, ha scherzato Landis.

La costruzione del look dei Blues Brothers è gran parte opera della costumista Deborah Nadoolman, moglie di Landis. “Fece tutto, dai cappelli alle cravatte. Quando abbiamo cominciato il film, mia moglie mi disse: ‘Questi costumi non vanno bene, li dobbiamo migliorare’. Ci teneva moltissimo. Mi diceva: ‘John, io devo crearle queste cose, non si possono comprare. Se vuoi creare un personaggio iconico, lo devi riconoscere anche dalla silhouette’. E così è stato. Aveva assolutamente ragione. Prima di Blues Brothers, Deborah aveva fatto i costumi per ‘I predatori dell’arca perduta’ e ricorderete bene come Spielberg apra il film con la silhouette di Harrison Ford nei panni di Indiana Jones. Si riesce subito a identificare il personaggio”.

UN LUPO MANNARO AMERICANO A LONDRA. Non solo “Blues Brothers”. Tra le opere di Landis, spicca “Un lupo mannaro americano a Londra”, l’horror-commedia tra la brughiera inglese del nord e la metropoli europea. Il film affascinò Michael Jackson, per trucco e ambientazioni, tanto da affidare il videoclip del brano “Thriller” alla regia di Landis. Il resto è storia. 

L’idea della sceneggiatura nasce nel lontano 1969, in una strada dell’ex Jugoslavia. Landis lavorava come gofer (un sorta di tuttofare-assistente di produzione) alla MGM per ‘Kelly’s Heros’. “Era un grosso film sulla II Guerra Mondiale con Clint Eastwood e Donald Sutherland, girato nell’ex Jugoslavia, dietro la cortina di ferro”, ha raccontato il regista. “Mi portava in giro Sasha, un autista jugoslavo. Un giorno, ci fermiamo ad un incrocio, perché la strada era bloccata. C’erano tre preti ortodossi, con cappelli enormi ed incenso, intenti a fare una cerimonia. Ho capito che si trattava di un funerale. Stavano scavando una buca di tre metri e c’era un cadavere avvolto in un sudario, ma coperto anche da trecce di aglio e rosari. Altre 20-30 persone attorno a lui cantavano e si muovevano attorno a lui, come comparse di un film. Lo calarono nella buca, per poi ricoprirlo di asfalto. Sasha andò ad informarsi e tornando mi spiegò che lo seppellivano in quel modo, affinché il corpo non uscisse di nuovo per commettere qualche altra cosa di grave”. 

“Questa esperienza mi ha dato l’ispirazione per un film. Cosa farei se vedessi l’asfalto che ribolle e un cadavere che esce fuori? Come si affronta l’impossibile? Mi affascinava l’idea. Se ci pensate, i vampiri e i lupi mannari sono frutto di idee stupide, ma sono divertenti. Ho scritto questo film a 19 anni e poi l’ho fatto nel 1980. Beh, sono passati un po’ di anni”. 

“IL CINEMA E’ UN’ESPERIENZA UMANA”. Un fatto collettivo che ha a che fare con la condivisione delle esperienze umane. Così Landis ha sintetizzato l’importanza della sala cinematografica e del grande schermo.  

“Sono un grande sostenitore dei festival. Sostengo tutto quello che fa vedere i film nella maniera in cui dovrebbero essere visti: in un cinema o in uno spazio come questo, con un buon sonoro e soprattutto con tanta gente, perché le emozioni che il cinema crea sono contagiose. Un film pauroso è molto più pauroso se visto insieme ad altre persone; un film che fa ridere, fa ridere di più se tutti ridono insieme. E’ una cosa molto umana. I festival offrono questo tipo di esperienza; riescono a portare film in Calabria, che altrimenti forse non arriverebbero. I festival sono belli, sono umani e, soprattutto, non inquinano”, ha concluso il regista di Chicago.

 

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