di Mariagrazia Costantino* – Avete presente quella scena dell’animazione classica Disney Alice nel Paese delle Meraviglie in cui Alice mangia il fungo e diventa troppo grande o troppo piccola? Si tratta di una metafora che io interpreto in chiave femminista: la donna trova difficilmente la dimensione giusta per sé, e non perché sia sbagliata lei, ma perché la società in cui opera e vive è costruita a misura d’uomo.
Si avvicina quel momento dell’anno in cui si mette in pausa la frenesia delle imminenti festività natalizie per parlare di violenza sulle donne. Lo si fa ricordando Giulia Cecchettin, meravigliosa ragazza uccisa dall’ex fidanzato per il suo senso di inadeguatezza – troppo mediocre e bambino lui, troppo brillante e matura lei – e tante altre vittime quotidiane della (brutale) società degli uomini. Ma io vorrei parlare della violenza prima e a monte. Per farlo inizio col dire che neanche a me piace la parola “femminicidio”: non perché colpevolizzi gli uomini e crei un’aggravante inutile, ma perché trovo sia sminuente nei confronti delle donne. Chi uccide una donna non uccide solo una “femmina”: uccide la civiltà e uccide sé stesso (ma quella è la perdita minore).
C’è poi un altro grosso problema: quel gesto senza ritorno, l’eliminazione fisica di una donna, è solo l’ultimo anello di una lunga catena di maltrattamenti quotidiani che si ignora o si finge di ignorare per quieto vivere – di solito quello di chi pensa do poter di esercitare la violenza indisturbato, forte del potere senza merito che gli viene riconosciuto.
Reggio Calabria è una città dove le persone fragili sono costantemente vessate e oggetto di violenza più o meno plateale. Molte donne appartengono a questa categoria per pregiudizio, maschilismo e vigliaccheria di certi uomini. Le denunce di maltrattamenti sono quotidiane ma sono solo una frazione di quello che succede tra le mura domestiche e non solo quelle.
In questi anni di permanenza più o meno forzata nella città in cui sono nata per una serie fortuita di circostanze, ho analizzato i rapporti sociali e tra generi con una rinnovata consapevolezza. Come un gatto di Schrödinger alla cui scatola è stato sollevato il coperchio e che se ne sta lì incerto sul da farsi, e che come tutti i gatti osserva. Cosa osserva il gatto in attesa che gli piombi in testa la sciagura quantica? Osserva che in una città che sembra trent’anni indietro rispetto al resto d’Europa – per molti aspetti anche trecento – e che di questo ritardo cronico sembra andare fiera, le donne appaiono odiosamente sottomesse. Basta guardare con attenzione e con un po’ di curiosità (entrambe le cose sono ormai quasi del tutto assenti) per accorgersi che in giro c’è un numero imprecisato di pentole a pressione umane: con sorrisi forzati, atteggiamenti sommessi, terrore di esprimersi e di essere giudicate.
Nella Calabria meridionale in avanzato stato di decomposizione, la donna di qualsiasi età, livello culturale e posizione sociale è infantilizzata, ovvero ridotta a bambina: se la bambina si comporta bene verrà premiata con una carezza e una buona parola, se al contrario farà la cattiva verrà punita per la sua insubordinazione. La donna viene infantilizzata ma anche “patologizzata”, perché un malato è fragile come un bambino, ed è molto più facile/conveniente convincersi che siano le donne ad avere e essere il problema (una volta le donne scomode o solo particolarmente intelligenti venivano internate nei manicomi con scuse ridicole: si pensi alla tragica storia della poetessa Alda Merini).
Ci sono migliaia di modi per punire una donna “disobbediente”, ovvero una donna che ha il coraggio di contestare e confutare ciò che non va bene, per sé e per gli altri: un’informazione sbagliata, un’ingiustizia, una bugia. Si può provare a minare la sua sicurezza con una critica travestita da parere (non richiesto); le si può dare un bonario buffetto; la si può costringere a una confidenza forzata: “dammi del tu” (dice il lupo a Cappuccetto Rosso, così la può mangiare meglio). In una città ingolfata in tutti i sensi dalla giurisprudenza e dal legalismo e dove la vera legalità latita, la donna indipendente è sempre sul bancone degli imputati. L’unica via di salvezza, a Reggio Calabria come in altri luoghi di questo Sud retrivo, è scappare o fingersi tonte, perché si pensa ingenuamente che gli stupidi siano innocui. Certo è che uno stupido lo controlli e lo manipoli meglio: un’intelligenza troppo viva mette a disagio chi intelligente non è, o chi è animato dalle peggiori intenzioni. Lo stesso vale per cultura e competenza. Persino la bellezza è un problema, perché una donna bella farà sentire inadeguato un uomo brutto o chi si sente tale. Questo è un fenomeno tipicamente reggino, forse solo tipicamente mafioso: le fanciulle più carine sono sin da piccole oggetto di commenti feroci e critiche spietate da parte di adulti e coetanei, sia maschi che femmine; questo bullismo apparentemente inspiegabile perdura nell’età adulta, più smorzato nei toni ma non meno feroce. È evidente che la bellezza turba, fa sentire deboli e quindi è un agente di caos e destabilizzazione. Il verdetto? Bisogna punire e umiliare.
Proprio come un’Alice sempre a rischio di essere fuori misura, una donna si deve fare piccola per meglio entrare nella scatola che l’uomo ha costruito per lei. Aurea mediocritas diceva Orazio… ma così si esagera.
Ovviamente il maschilismo, odioso retaggio del patriarcato, non è solo un problema locale: Reggio Calabria in fondo è proprio come il resto del mondo, ma peggio. E di certo non riguarda solo gli uomini, anzi il problema principale forse sono le donne che chinano il capo troppo facilmente o che, diventando complici di uomini violenti, sfogano la loro frustrazione su altre donne, come facevano le terribili kapò con le prigioniere di Auschwitz.
E a proposito, la colpa peggiore dei tanti uomini e donne maschilisti è, come quella degli antisemiti, non rendersi conto di esserlo. E più si parla (a sproposito) di consapevolezza, più questa sembra mancare. Manca il distacco da sé, la capacità di guardarsi da fuori e con spirito critico. Ne basterebbe pochissimo. E invece sono tutti arroccati nei loro bastioni di ragione, tanto grandi quanto precari. Vengono giù al primo tocco perché sono fatti di sabbia. E più ci si sente importanti e protetti da un contesto che tutela la ragione maschile, meno si è obbligati a mettersi in discussione. Per questo, salvo rarissimi casi di persone che sono riuscite a evolversi, con i cosiddetti “professionisti” – quelli, per intenderci, che hanno il nome inciso sulla targhetta d’ottone in bella vista sul portone – è di solito impossibile avere una conversazione vera, cioè basata sul dialogo e sull’ascolto reciproco: loro sono sempre in cattedra, non ascoltano mai e giudicano. Quando è una donna a parlare, la stanno a sentire con bonaria pazienza come si fa coi bambini che parlano di giocattoli. Guai a dire qualcosa che turbi le loro tombali certezze: in questo caso si trasformeranno in Terminator col borsello, piazzeranno un bel mirino sulla faccia di colei che è colpevole di averli turbati (sotto sotto sono loro i veri bambini) e troveranno il modo di demolirla criticandola, sminuendola, delegittimandola. Secoli di privilegi e credito illimitato hanno portato a quella che è una vera e propria mania di onnipotenza. Il risultato è che una donna vive da osservata speciale, e se osa alzare la testa e ribellarsi scatenerà una violenza inaudita che si manifesta nel linguaggio del corpo o verbale. Una violenza che raramente si espone, ma che rimane subdolamente sotto traccia, corrosiva come un acido. Di fatto l’azione di questo acido rimane invisibile ai più, i quali dicono “esageri” o, nella migliore delle ipotesi, “non farci caso”: il modo tipico di ragionare di chi non sa o non capisce cosa voglia dire vivere sotto pressione e sotto controllo.
Nelle società di retaggio feudale e patriarcale, la donna è considerata una proprietà dell’uomo al pari di vacche e galline. Una donna che si sottrae a questo meccanismo è marchiata come disobbediente e ne paga le conseguenze con l’isolamento: come se intorno a lei si formasse un alone che ne segnala la presunta colpa. Una via di mezzo tra La Lettera Scarlatta e la pubblicità progresso sull’HIV. Così una donna che ha subito un abuso – chi abusa lo fa sempre in modo prima di tutto psicologico, ma spesso anche fisico – si sentirà abbandonata dagli “amici” comuni, con la scusa che non possono prendere le parti di nessuno. La verità è che non possono prendere le parti della vittima, perché la vittima è tale in quanto debole e debole in quanto vittima: socialmente, economicamente e “politicamente” (in senso lato). Chi si comporta così non è amico di nessuno se non di sé stesso/a: sono scimmie volanti che stanno sempre con il più “forte”, cioè quello con cui conviene stare. L’Italia è il paese delle scimmie volanti, come dimostrano le insopportabili ingiustizie e le ipocrisie a ogni livello, con una concentrazione da giungla indonesiana al Sud.
E a proposito di Mezzogiorno e involuzione, mancata evoluzione o entrambe, la condizione femminile va a braccetto con il sottosviluppo, perché la donna è agente di progresso e fautrice di cambiamento. La donna è l’essere umano più vicino e caro alla natura: quando la donna soffre è la natura stessa a soffrire. E la società tutta si ammala.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica
