di Roberta Mazzuca – “Si nu jugale”. Quante volte, in terra di Calabria, abbiamo ascoltato questo appellativo. Da una madre che, simpaticamente, rimprovera i propri figli. Da un amico che ne appella scherzosamente un altro. A qualcuno che, ingenuamente, combina guai di cui neanche si rende conto, che “una ne fa e cento ne pensa, ma tutte sbagliate”. Jugale è uno dei personaggi di spicco della tradizione popolare cosentina ma, ancor di più, calabrese. Una maschera tipica entrata nel linguaggio quotidiano e, finalmente, raccontata anche a teatro, insieme alle tante altre fiabe e novelle popolari di Letterio Di Francia, autore palmese spesso poco conosciuto che affronta temi su cui, da sempre, si discute nel meridione e, in particolar modo, in Calabria.
E proprio in Calabria, più precisamente nel Teatro-Cinema Garden di Rende, è andato in scena “Amuramaro”, un viaggio attraverso le novelle dell’antica tradizione orale calabrese riviste con gli occhi di un ragazzo di oggi. Lo spettacolo, prodotto da AttorInCorso e messo in scena da Matteo Lombardo e Pavlos Paraskevòpoulos, “restituisce – nelle parole dello stesso interprete, autore e regista rendese Lombardo – l’esigenza di raccontare la nostra terra utilizzando un linguaggio spesso sottovalutato, quello delle fiabe”. E proprio il linguaggio rappresenta il punto forte di questo coinvolgente spettacolo. Un linguaggio fiabesco raccontato, però, attraverso un altro linguaggio, quello dialettale, quello identitario, quello quotidiano. “U murtaru”, ”a pittula”, “u vrinzulu”, sono solo alcuni dei termini che, riportati sul palco, acquistano nuovo valore e nuovo senso, permettendoci di riderne e di apprezzarli, in una riflessione più profonda che ingloba anche quelle stesse parole che ogni giorno utilizziamo: “U vrinzulu u canusciti? U vrinzulu no e a vrinzula si ah?” – commenta Lombardo dal palco, scatenando risate ed applausi, ma anche una divertente riflessione sul significato delle parole e del loro uso. Il termine “vrinzula” che, in dialetto cosentino indica una “prostituta”, diventa meno conosciuto e genera un attimo di smarrimento quando si trasforma in “vrinzulu”, che sta ad indicare semplicemente uno “straccio”.
Un gioco, insomma, tra le parole della nostra tradizione, raccontato con quelle medesime parole, in grado di trasportare nell’essenza di un’identità tutta calabrese. Grande la capacità di coinvolgimento e tenuta del palco di Matteo Lombardo che, con pochi oggetti di scena e forte del suo dialetto e della propria corporalità, si connette con la platea dinanzi a lui, e la trasporta in un esilarante, proprio in funzione della sua meridionalità, mondo fiabesco. E parla con il pubblico, lo coinvolge, e lo diverte anche in un improvvisato rimprovero quando, allo squillo di un cellulare in sala, urla: “Stutati i telefoni” (“spegnete i telefoni”).
Così, partendo dalla costruzione in dialetto cosentino/rendese di alcune fiabe di Letterio Di Francia, “Amuramaro” parla, in verità, della terra, più precisamente della nostra terra, della rabbia generata dalla disperazione di doversi barcamenare in situazioni paradossali e apparentemente senza via d’uscita, in cui i protagonisti, così come Jugale, incastrati nelle loro relazioni, abituati alla loro condizione, resistono al cambiamento o, forse, più semplicemente, non riescono a vederlo.
“Cumu si beddra, cumu t’intitoli? Iu signu Jugale. Tutti mi dicianu ca signu ciuatu. Sapimu”. Un teatro che non ci si aspetta, un teatro inusuale, un teatro estremamente vero nella sua finzione. “Il teatro non è altro che il disperato sforzo dell’uomo di dare un senso alla vita” – diceva Eduardo De Filippo. In “Amuramaro”, potremmo dire, c’è lo sforzo ben riuscito di dare un senso alla Calabria: alla sua terra, alla sua storia, alla sua lingua, alla sua gente.