di Mariagrazia Costantino* – Anche se Halloween è passato da un pezzo e ci troviamo ufficialmente in quel periodo dell’anno in cui tutti dovrebbero essere più buoni ma sembrano solo più avvelenati, oggi voglio parlarvi di horror. Che quando è fatto bene diventa realista, nel senso che descrive la realtà meglio di qualsiasi documentario. Quale realtà? Quella che si nasconde dietro le apparenze, ovviamente.
Negli ultimi dieci anni i film di Jordan Peele hanno raccolto consensi e fatto discutere. Si tratta di racconti allegorici che mettono al centro della narrazione l’ipocrisia della società contemporanea e della cultura woke. Cultura che invece di abbattere i privilegi di classe spesso li perpetua, e mentre finge di includere sfrutta e esclude in modo brutale.
Per le sue storie, che Freud avrebbe definito perturbanti, Peele parte dall’esperienza di nero americano vissuta in prima persona, e da tutto il corredo di non detti, allusioni e pregiudizi che lui e la comunità black si trovano a subire ancora oggi, mentre riflette sull’incompatibilità di mondi vicinissimi eppure paralleli, e sull’incomunicabilità che separa chi vede le cose da chi non le vede. Per incapacità, convenienza o cecità selettiva.
Una selva piena di insidie. Difatti, in film come Get Out o Us, boschi e foreste diventano luoghi simbolici da cui si viene inghiottiti per riconquistare una verità dolorosa ma necessaria. La “Selva Oscura” di Dante, che aveva capito tutto prima di tutti.
Così in Get Out il protagonista (nero) si ritrova prigioniero nella villa della fidanzata (bianca): un luogo che evoca i fantasmi dello schiavismo ed è circondato/nascosto da una fitta vegetazione; in Us una normale famiglia in campeggio viene assediata da mostri umani che altro non sono che loro repliche: il famoso doppelgänger che emerge dal mondo di sotto per sfidare il suo doppio con la violenza della verità.
La foresta, l’ombra o l’abisso. Nietzsche dice che quando lo fissi troppo a lungo lui poi inizia a fissare te. Ma non è piuttosto quando distogli lo sguardo e fai finta che non ci sia che ci cadi dentro? E che succede quando si è dentro l’abisso? Si muore? Certo che no! Ci si abitua e si inizia a pensare che la vita normale sia quella. Meno un posto e i suoi abitanti fanno i conti con l’abisso (o l’ombra), più l’abisso torna a inghiottirli. Proprio come in It e in tutti i classici horror. Qui non manca nessun ingrediente: il bosco, persone rapite e torturate, e un silenzio che scende a coprire circostanze spiacevoli e ricordi dolorosi.
Solo che questo non è un horror. È una città.
Anche quest’anno, come (quasi) tutti gli anni, Reggio Calabria è salda in coda alla classifica del Sole24ore delle città con la qualità di vita peggiore. Un affronto! Come si permettono!?
Si respirava un’atmosfera strana il giorno della pubblicazione: a metà tra lo stupore attonito e il torpore di chi si ubriaca per dimenticare. E cosa c’è da dimenticare e rimuovere? Quello che tutti sanno e nessuno (o pochi) ha il coraggio e la voglia di ammettere. Ma cos’è questo elefante che si fa finta di non vedere, anche se occupa quasi tutta la stanza e puzza da morire?
È il disastro del Meridione d’Italia che Reggio Calabria incarna. Disastro che ha due cause principali: la prima è la depressione economica e culturale derivante dalla sinergia indissolubile tra le tre Mafie locali – ‘Ndrangheta, Massoneria e Chiesa (nella sua manifestazione più collusa e opulenta) – che fanno della città un enorme Rotary di criminali ripuliti e intrallazzoni imborghesiti; la seconda, non meno determinante, è la mentalità da servo della gleba del reggino medio, che invece di preoccuparsi della propria dignità di individuo, si angustia per mantenere il buon nome della “famigghia”, perché l’insieme (disastrato) è più importante delle singole parti, e perché ergersi a protettori dell’onore di qualcuno/qualcosa è funzionale al mantenimento dello status quo che giova al circolo di cui sopra.
Gli abitanti di questa città sono stati educati a dissimulare e nascondere il loro pensiero al punto da non sapere più nemmeno loro cosa pensano. Il fascismo storico, unito alla mafia e al pensiero magico (a-storico) hanno dato vita a qualcosa che somiglia molto alla Cina maoista. Con una differenza fondamentale rispetto alla Cina contemporanea del neo-Mao Xi Jinping: persino nella terra del diabolico credito sociale le persone protestano. Certo lo fanno in extrema ratio e consapevoli dei rischi, quando sono esasperate e le ingiustizie superano ogni limite accettabile. Quando non hanno più niente da perdere. Dunque persino nella Cina atea e cinica – perdonate il gioco di parole – che dà così tanta importanza ai beni materiali e alla ricchezza, la gente non ha dimenticato cosa sia giusto e cosa sbagliato.
Ma a Peggio Calabria le persone sono indifferenti, indolenti, narcotizzate dal contentino che ricavano quotidianamente.
Metafora perfetta di questa città e simbolo del suo fallimento cronicizzato è la squadra di calcio: una specie di cadavere tenuto in vita con iniezioni di denaro e interventi estetici di vario tipo volti a rilanciarne l’immagine. Un weekend con il morto protratto stagione dopo stagione (infatti le partite si giocano nei weekend)… e che tenerezza i tifosi della curva! Robottini dai riflessi pavloviani che non sembrano chiedersi mai quale sia il vero problema della squadra e che, proprio come chi difende meccanicamente e ostinatamente la città, individuano la colpa sempre altrove, in qualche oscura cospirazione.
Parlavo del dato scoraggiante emerso dall’indagine annuale con un conoscente che ha idealizzato la città come si fa con un grande villaggio vacanze. La conversazione è diventata sempre più animata e questa persona, incalzata dall’evidenza, si è rifugiata nell’argomento fantoccio preferito da chi non gradisce confrontarsi con la realtà, e cioè “si lamentano tutti ma nessuno offre soluzioni.” Non immaginando (beata incoscienza sorella dell’ignoranza) che chi si lamenta forse lo fa per ragioni valide – per esempio un familiare curato tardi e male – e non perché prova un masochistico godimento nel farlo.
Forse chi vede e vive la città anche d’inverno ha o dovrebbe avere la forza di pretendere qualcosa di meglio per sé e per gli altri: ma per farlo bisognerebbe esporsi, mostrare di avere opinioni o anche solo una personalità. Una volontà individuale che può entrare in conflitto con le forze che tengono la città e i suoi abitanti sotto una cappa di silenzio-assenso forzato. Abitanti simili a bambini terrorizzati e fermi alla fase del ciuccio, che però sono scossi da una specie di rigurgito d’orgoglio – un sussulto di dignità tardiva e arretrata – quando sentono dire che in questa città non c’è niente: in realtà respingono l’idea perché è vera, e perché loro sono i primi a contribuire a quel niente, con la loro vocazione di struzzi imbolsiti.
Non sta a noi trovare le soluzioni, ma a chi è pagato per amministrare e garantire una qualità della vita non dico soddisfacente, ma almeno vicina alla decenza. Gli stessi che danno l’impressione – forse più di un’impressione – di mettere in atto solo una sceneggiata di governo, e di avere le mani legate da qualcosa che sfugge al loro controllo.
È vero che chi non cerca soluzioni è parte del problema, ma è ancora più vero che se il problema non lo si vede affatto allora si è quel problema.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica
