di Mariagrazia Costantino* – Nel film di Bong Joon-ho Snowpiercer (2013), tratto dalla graphic novel francese Le Transperceneige, viene descritto un mondo post-apocalittico in cui il tentativo andato a male di frenare il riscaldamento globale innesca una catena di eventi climatici ancora più catastrofici che portano a una nuova glaciazione. Gli unici superstiti hanno trovato rifugio in un treno che si autoalimenta girando senza interruzione intorno alla Terra. Tutto molto romantico, peccato che anche sul treno di scampati al disastro venga mantenuta l’odiosa divisione in classi della vecchia società “stanziale.” Suddetta divisione diventa anzi ancora più feroce e necessaria a causa dello spazio ridotto in cui sono tutti reclusi – un vero e proprio laboratorio del comportamento umano. Così negli ultimi vagoni vivono i poveri, isolati e ammassati come scarafaggi, primi solo a essere sganciati in caso di bisogno. Abbandonati a loro stessi e al loro destino, tirano avanti come possono: il loro pasto principale consiste in una barretta proteica nerastra ricavata da un calderone nel quale finiscono ogni giorno quantità gargantuesche di (veri) scarafaggi. Un miracolo di efficienza e adattamento, al punto che nei vagoni di ultima classe per una barretta di blatta si arriva alle mani.
Un simile scenario di privazione cronica, in cui ci si fa piacere quello che passa il convento, mi fa tanto pensare a Reggio Calabria, dove il gusto comune si è adattato, precipitando paurosamente verso il basso. Certo quello che vale per Peggio Calabria vale anche per l’Italia tutta, di cui la città delle facce di bronzo è appunto un grande laboratorio.
Anche il concerto di Capodanno trasmesso da RAI Uno – highlight delle attività culturali cittadine nel 2024 (e molto probabilmente anche nel 2025) – può essere visto come un esperimento sociale per misurare la tolleranza della popolazione locale ai disagi e alle prese in giro. Tolleranza evidentemente altissima. Da record.
L’argomento non merita ulteriori attenzioni: si può solo sperare che una simile pagliacciata non si ripeta. Almeno non a breve. Non è snobismo il mio, ma solo una desolata constatazione di come per conformismo, noia e povertà spirituale ci si faccia andare bene tanto, troppo. E sebbene circostanze come questa abbiano un innegabile valore paradigmatico, ci sono fatti di ben altra portata e gravità che reclamano la nostra attenzione, come gli incendi devastanti che hanno colpito in più punti Los Angeles, e in modo particolare il distretto di Pacific Palisades, una delle aree più opulente di una delle città più ricche del mondo. Migliaia di ettari di proprietà andate in fumo in poche ore, con vittime e indicibile sofferenza per persone e animali (e no, non mi interessa misurare il patrimonio di quelli che hanno visto la loro casa interamente divorata dalle fiamme).
Come si fa a tenere insieme i due racconti, ammesso sia possibile?
Il tema è sempre politico, e riguarda il modo in cui le persone reagiscono e sono usate, nel contesto di grandi eventi o avvenimenti catastrofici, nell’era dell’algoritmo e di quello che Yanis Varoufakis ha chiamato “tecnofeudalesimo”: un nuovo medioevo caratterizzato da fanatismo e paura, ma anche dal monopolio dei mezzi di produzione e soprattutto informazione. Il punto è che la politica è l’arte della persuasione applicata alla matematica: l’arte dell’1+1 e della capacità di convincere (nei casi deteriori) che il risultato non sia 2, ma 5 o magari 500. Di certo non due. Due è troppo poco. Non suona bene due. Così mentre noi cittadini diveniamo terreno biologico per test sul potere di persuasione, il mondo brucia. Letteralmente. Anche quello più ricco. Soprattutto quello più ricco. Per un motivo semplice quanto paradossale: in nome della sicurezza individuale illusoria e di una migliore “efficienza” economica calcolata dal fantomatico algoritmo, i governi locali, spesso incoraggiati da quelli centrali, rinunciano alla sicurezza collettiva. Che poi è l’unica che conta, perché se le fiamme raggiungono la casa del tuo vicino, è molto probabile che arriveranno anche da te. Inutile dire che in un luogo dove il rischio di incendi è sempre più elevato e tangibile, i premi assicurativi sono ormai molto bassi e i costi sempre più alti: questo l’algoritmo lo calcola benissimo; quello che non calcola altrettanto bene è il dolore derivante dalla perdita di quel patrimonio inestimabile che sono i ricordi di una vita, di tante vite, compresi gli archivi inceneriti, in un’area ad alta densità di beni culturali e architettonici.
Siamo entrati in uno scenario da Titanic globale: il caro vecchio “si salvi chi può” vale adesso più che mai. Con la differenza che oggi nemmeno i ricchi hanno la garanzia assoluta di salvezza. Come scrive Margaret Mazzantini, “nessuno si salva da solo”: serve una visione d’insieme, che richiede competenza e senso civico, ma soprattutto volontà. Tutte cose che mancano. A Reggio Calabria come a Los Angeles, tutto è ormai nelle mani dei privati tranne le baggianate futili come il concerto di Capodanno. Certo è molto più economico governare con quelle: basta simulare la gioia della partecipazione – panem et circenses dicevano gli antichi Romani, che avevano capito tutto prima e meglio di noi – per dare l’illusione di essere ancora comunità, quando si è a malapena gregge. L’importante, per modo di dire, è essere spettatori passivi. Non importa se di un (brutto) concerto in playback o di una metropoli che brucia.
Una città in dissesto come Reggio Calabria è il terreno perfetto per misurare il livello di distacco dalla realtà, e dunque la manipolabilità, delle persone: qui per esempio, lo spauracchio comunista di berlusconiana memoria ha attecchito così bene che sembra quasi di vivere nell’America degli anni ‘50, in pieno maccartismo. Ma non può che essere così, perché il nemico perfetto è quello che non esiste: se non esiste puoi immaginarlo meglio, e niente al giorno d’oggi è più efficace e seducente dei deliri dell’immaginazione, nell’epoca in cui è dalla realtà, appunto, che bisogna scappare a tutti i costi.
In questo scenario, la dissimulazione diventa strategia di sopravvivenza e stile di vita, con il risultato che i veri valori e le ideologie in cui credere e per cui lottare vanno a farsi benedire. Fingere, negare, dissimulare: sono queste le vere “skill” di metà decennio.
Così, se una volta i poveri avevano almeno la dignità di aspirare a una società migliore e più sicura per sé e per gli altri, oggi vogliono essere come Trump o al limite come Tony Effe; i ricchi nel frattempo si flagellano in tutti i modi per farsi perdonare (e farci dimenticare) la loro ricchezza, senza però rinunciare ai loro privilegi: guai solo a esibirli. Siamo tornati a una società divisa in caste – forse è per questo che l’India è nuovamente popolare – i cui membri approfittano come possono dei vantaggi loro accordati a vario titolo, guardandosi bene dal mostrarli apertamente o dal rivendicare la loro identità. Dal “si fa ma non si dice” al “si è ma non si mostra.”
Mentre il palcoscenico del mondo, o il palcoscenico che è il mondo, va a fuoco.
*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica