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Il non-finito calabrese come chiave di lettura del Sud? All’ex-Comac di Soverato, una riflessione ad ampio spettro su un fenomeno identitario della storia della Calabria

-di Gaia Serena Ferrara

Umberto Eco scriveva: “Come può parlare l’architettura? Non può, è un oggetto che funziona non che parla”.

Un’affermazione sulla quale, probabilmente, oggi il grande scrittore sarebbe spinto a ricredersi di fronte al fenomeno dell’incompiuto calabrese.

Un non-finito che non solo parla, ma che racconta la storia generazionale di un intero territorio, con le sue tradizioni, con la sua cultura, con tutte le sfaccettature della sua identità e delle sue piaghe.

Non è un caso che alla riflessione sull’incompiuto calabrese sia stato dedicato un evento di portata più ampia, proprio qualche sera fa nell’ambientazione dell’Ex-Comac di Soverato grazie all’iniziativa dell’associazione “NON APS”.

Uno spazio di archeologia industriale è diventato, per l’occasione, un palcoscenico variegato di voci trasversali, differenti metodologie e chiavi di lettura di uno stesso fenomeno, arricchito da una serie di contributi visivi (fra cui una mostra fotografica, la proiezione del docufilm “Oh rovina” di Domenico Lagano, o ancora l’esposizione di una selezione di opere da parte dell’associazione Amatoriarte) e dalla professionalità degli interlocutori che hanno dato vita alla discussione (Andrea Zito, Alessia Rubino, Sarah Procopio, Angelo Maggio).

Di maggiore impatto, certamente, sono stati proprio i lavori di Angelo Maggio e Gianluca Meduri, i cosiddetti fotografi del non-finito che, con una selezione dei loro scatti, hanno contribuito ad alimentare non solo il dibattito ma anche la curiosità del pubblico e dei partecipanti.

Due differenti prospettive (una fotografia etnografica da una parte, e meramente architettonica dall’altra) ma entrambe tese a mostrare quanto vasto sia l’incompiuto calabrese: dal pontile dell’ex area industriale SIR a Lamezia Terme (costruito nel 1971, mai utilizzato e crollato nel 2012) a quello per l’ex Liquichimica Biosintesi delle Saline Joniche (RC), tra le opere fallimentari del famoso “pacchetto Colombo”; dalla Casa dello Studente di Reggio Calabria (anni 2000) nei pressi della fiumara Annunziata ad una villa isolata lungo la SP 253 di Sibari (CS), abitata al piano terra.

Al centro del talk organizzato dalla presidente dell’associazione “NON APS” Miriam Belpanno, uno specifico aspetto: l’accostamento del concetto di “arte” e di estetica alla dimensione del non-finito calabrese.

Dopotutto l’arte è da sempre un mezzo utile attraverso il quale leggere e interpretare la realtà intorno a noi, tanto più se quella che si racconta è una realtà drammatica.
Di fatti, in questo contesto, il concetto di arte non ha ruotato intorno alla rappresentazione estetica del bello, ma è stato affrontato in quanto fonte di riflessione e di rappresentazione di una sofferenza, di speranze deluse, del disagio di un territorio.

“I fabbricati non finiti sono dei monumenti alle aspettative deluse dei calabresi” esordisce Angelo Maggio ad apertura del dibattito, dicendosi particolarmente critico rispetto ad una lettura meramente “estetica” del non finito calabrese che non prendesse in considerazione gli aspetti storico-culturali.

Angelo Maggio infatti nasce come fotografo etnografico e si imbatte nel non finito per puro caso, scorgendolo sullo sfondo degli scatti che ritraggono feste cittadine e riti di paese e arrivando a correlarlo al fenomeno dello spopolamento calabrese.
Questo perché, come ha affermato la stessa Sarah Procopio in veste di moderatrice del talk, differentemente da regioni come la Sicilia in cui l’incompiuto è essenzialmente pubblico e figlio della speculazione, in Calabria il non finito è prevalentemente privato ossia correlato al desiderio di molti genitori di costruire case che saranno destinate ai figli una volta rientrati.

“Seguo questo percorso ormai dal 2004 e ho realizzato che il non-finito come opera pubblica non mi interessa, la trovo una banale truffa. A interessarmi è invece il non-finito privato, perché racconta il dramma di un territorio” afferma Angelo Maggio.

E per quanto riguarda lo spopolamento, infatti, viene ad emergere come le aree maggiormente non finite e non compiute della Regione siano quelle soggette ad una maggiore migrazione. Basti pensare a zone quali Petilia Policastro, la Piana di Gioia Tauro, la SS106, Mesoraca, Roccabernarda, la Trasversale delle Serre, e così via per prendere coscienza della veridicità di questa realtà.

Al contempo, però, la riflessione e il dibattito sulla tematica si fanno più ampi nel momento in cui oltre ai dati demografici o prettamente più tecnici, si vanno a considerare aspetti quali il potere “comunicativo”, culturale, linguistico, del non finito.

Per il semiologo Andrea Zito l’incompiuto è prima di tutto interruzione, frattura, del tessuto urbano convenzionale.
“Cos’è che ci attrae e ci cattura nell’immediato? Un’imperfezione, una stonatura in un qualcosa che è quotidiano” ha affermato. “A colpire quindi sono le forme essenziali di qualcosa che irrompe ed è dissonante rispetto al territorio, e posso decidere di interpretare le forme essenziali che vedo in mille modi diversi fra cui in senso estetico”.

Secondo Andrea Zito, quindi, il non finito come opera d’arte è solo una delle tante strade che si possono percorrere: “Io credo che ci sia un collegamento fra l’incompiuto estetico e un incompiuto di tipo invece culturale che tiene conto dei drammi e delle tragicità che sono legate al fenomeno”.

In tal senso, il potere comunicativo del non finito in tutta la sua tragicità trova la sua perfetta espressione nella struttura di Parco Romani a Catanzaro.

Si tratta di una memoria dolorosa per la città e non a caso rappresenta un incompiuto molto diverso rispetto ad altri in Calabria. Parco Romani racconta una storia tragica, in cui una stasi che dura da quasi 25 anni ha portato alla rovina famiglie, imprenditori, in un buco nero di inchieste e responsabilità ancora da risolvere.

L’esempio di Parco Romani è utile a comprendere che non tutte le opere incompiute si possono considerare valide dal punto di vista estetico, e in più ci ricorda come
non sia possibile interpretare e comprendere l’incompiuto finché non ci si entra dentro.

“Al netto di tutte le possibili declinazioni dell’incompiuto, il non finito in Calabria si identifica prevalentemente come “ideologia” ossia come l’insieme del nostro sapere collettivo, delle nostre pratiche, delle esperienze che sono un nostro prodotto sociale ma che a loro volta danno forma alla società stessa” afferma Andrea Zito.

Nell’incompiuto ci siamo dentro, lo abbiamo prodotto e ce ne stiamo facendo produrre.

Questa consapevolezza risulta centrale anche nel docufilm di Domenico Lagano “Oh rovina”, che è stato proiettato al termine del talk e che restituisce l’immagine di una Calabria che vive di promesse che le sono state fatte, che aspetta e aspetta, ma che alla fine non sa più cosa sta aspettando.

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