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‘Ndrangheta, le intercettazioni di Arturo Garofalo e quello “sgarro” non superato: “E’ un morto che cammina”

“E’ un morto che cammina, già puzza di cadavere”. Sono le parole di Arturo Garofalo, il quale, lo scorso giugno, parlando al telefono, non ha nascosto di essere furioso per lo “sgarro” insanabile prodotto dalla denuncia presentata dall’imprenditore, buyer nel campo del lusso, minacciato su mandato della ex fidanzata, Viola Morelli, per recuperare 44 mila euro, somma che la donna, con l’attestato di avvocato rilasciato dalla Spagna, vantava come credito. La frase intimidatoria è una delle tante pronunciata da Garofalo, legato a Cosa Nostra e destinatario di una ordinanza di custodia cautelare in carcere per estorsione assieme a Luigi Aquilano, il genero del boss Antonio Mancuso e a Christian Cucumazzo, già detenuto a Siracusa e vicino alla Sacra Corona Unita. La donna, che ha invece l’obbligo di firma, si sarebbe rivolta ai tre per ottenere i soldi, che a suo dire gli erano dovuti. Nella ricostruzione dell’episodio, il gip Lidia Castellucci, riporta altre minacce del tipo “mi presento con venti albanesi (…) e ti sparo in testa” e spiega come la vittima, pure lui con guai giudiziari, si sia rivolto, chiedendo aiuto, al giornalista Klaus Davi (non indagato) con cui avrebbe “concordato il contenuto” di un articolo, pubblicato lo scorso 5 giugno, con lo scopo di “confondere i miei estorsori”.

L’episodio, per il quale il giudice ha riconosciuto l’aggravante di aver agito con metodo mafioso, e’ la tranche più recente di una indagine, ora chiusa, per cui la Procura ha chiesto 27 misure cautelari ipotizzando l’esistenza sul territorio di un gruppo criminale di matrice ‘ndranghetista. Di tali richieste il gip ne ha rigettate 26, ritenendo per altro che “il lungo resoconto delle emergenze probatorie rilevanti ai fini del giudizio cautelare circa la sussistenza dell’associazione di tipo mafioso contestata non consente, diversamente dall’assunto d’accusa, di concludere che le acquisizioni indiziarie dimostrino la natura mafiosa dell’ipotizzato neo costituito sodalizio fondato sulla famiglia Aquilano”. E questo anche in quanto “nel caso di specie pur essendo emersi chiaramente i contatti con la famiglia Mancuso, contatti inevitabilmente dovuti ai vincoli spesso di stretta parentela, dalle indagini non si evince alcuna “alleanza” o “collegamento” giuridicamente rilevante con la cosca” di Limbadi. “Quello che certamente emerge – osserva il giudice – e’ la presenza sul territorio milanese di soggetti che, vantando, almeno alcuni di essi, rapporti qualificati con i Mancuso, commettono attività delittuose in territorio lombardo” ma non di un “sodalizio riconducibile a quella che e’ stata ritenuta una autonoma articolazione, ossia la c.d. ‘famiglia Aquilano’, dotata di un autonomo riconoscimento e, in virtu’ di esso, in grado di rapportarsi con le altre cosche”.

(ANSA)

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