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“Ecco che cosa ho pensato: affinché l'avvenimento più comune divenga un'avventura è necessario e sufficiente che ci si metta a raccontarlo” - Jean-Paul Sartre
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“Voce del verbo restare”. Fabio Cuzzola

Fabio-Cuzzola-1005x800di Valeria Guarniera – C’è l’orgoglio dell’appartenenza, nelle parole di Fabio Cuzzola. E l’amarezza per quell’identità persa a inseguire il canto delle sirene, l’inganno che distrae: eterna trappola per una città troppo spesso immemore della sua storia. Docente di italiano e latino al Liceo Classico di Cittanova (RC), ai suoi ragazzi insegna a riscoprire la bellezza. Quella delle persone, innanzitutto. In loro confida, e a loro si affida: “Curiosi, attenti, sorprendenti. Una continua, meravigliosa, scoperta”.
Scrittore per passione, professore per vocazione, curioso indagatore dell’animo umano, trova negli studi classici le risposte alle sue domande: “Ché è così che si impara a vivere, a relazionarsi, a guardare al futuro mantenendo un cuore antico” . In un sapiente intreccio di storia e memoria, nei suoi libri la Reggio dimenticata, abbandonata, mortificata: vittima di un racconto incompleto, complice di un’alleanza funesta. I moti del ’70, la ribellione, le lotte: tra quelle pagine il senso, forte, di riconoscenza, l’importanza dell’altro, del “noi”, dell’essere insieme. Cita De Gregori – “La storia siamo noi, attenzione, nessuno si senta escluso” – e richiama al senso di responsabilità: “E poi ti dicono ‘Tutti sono uguali, tutti rubano nella stessa maniera’. Ma è solo un modo per convincerti a restare chiuso dentro casa quando viene la sera”. Oltre la rassegnazione – “una scusa che non regge più” – e a prescindere dalla propria convinzione, Fabio insiste: “Inutile delegare, aspettare: la storia siamo noi. Siamo noi che abbiamo tutto da vincere o tutto da perdere…”

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“Cinque anarchici del Sud. Una storia negata” e “Reggio 1970. Storie e memorie di una rivolta”: racconti episodi fondamentali che hanno influito sulla storia dell’intero Paese. La rivolta di Reggio, l’attentato al treno, la morte di questi giovani, i fatti che racconti si inseriscono tra gli episodi oscuri che sconvolsero l’Italia degli anni ’70… Cosa ti ha spinto ad affrontare questo lavoro?

Questo libro, uscito nel marzo del 2001, è come un seme piantato quasi per caso che continua a dare frutti: ci hanno fatto spettacoli teatrali, due canzoni, un documentario, Rai Storia gli ha dedicato una puntata speciale. Ed ho anche avuto la notizia – bellissima e sorprendente – che una casa cinematografica sta partecipando al bando della Film Commission Calabria per fare il film.
E’ bello vedere che sia diventato patrimonio di tutta la comunità libertaria d’Italia. Io non conoscevo questa storia. Ne “La strage di stato – controinchiesta su Piazza Fontana – si parlava in poche righe di uno strano incidente in cui erano morti dei testimoni, appunto, della strage di piazza Fontana: tre righe in una nota. Niente di più. Non ne sapevo nulla e parlando con l’editore – avevo in mente un altro progetto editoriale – abbiamo deciso insieme che era una storia che si poteva approfondire. Ho iniziato allora a provare a dipanare questa matassa: non c’era nulla di manifesto, tranne la testimonianza degli amici e dei parenti che – non avendo avuto giustizia – si erano chiusi nel loro dolore. Poi c’era un po’ paura a raccontare determinate cose: parliamo dei misteri d’Italia, di un omicidio, della strage di Gioia Tauro (perché le due cose sono molto legate). Parallelamente mi sono occupato oltre che dei cinque anarchici, anche della loro storia dentro la rivolta e in relazione alla strage di Gioia Tauro, fino al 2010 considerata un incidente ferroviario. Da incidente a strage, poi derubricata a omicidio plurimo, arrivando però finalmente a dire che quello non fu un incidente, ma una bomba messa su commissione del comitato per Reggio capoluogo da tre uomini della manovalanza della ‘ndrangheta, a segnare un passo decisivo del legame che ci fu allora tra l’estrema destra e la ‘ndrangheta.

Perché con il passare degli anni una tendenza costante ha tentato di rimuovere questo episodio cruciale della vita del nostro Paese?

Primo, perché è una storia meridionale, del Sud. E ciò che riguarda il Sud, spesso, finisce nelle pieghe della storia. Secondo, perché noi siamo portati alla rimozione: dimentichiamo facilmente. Cancelliamo quello che ci è scomodo e quello che ci è doloroso. Ho notato però che questa storia – che qui veniva quasi nascosta – aveva un un respiro internazionale già allora, perché da qui quei ragazzi, gli anarchici, si muovevano – viaggiando in autostop come si faceva negli anni ’60 – andavano in Olanda, in Belgio, in Francia, in Svizzera instaurando legami significativi con i vari gruppi libertari dell’epoca e creavano delle relazioni veramente significative. Ragazzi giovanissimi che facevano una militanza straordinaria, uscendo anche dai confini, aprendosi contemporaneamente al mondo. Tutto ciò che non era stato detto, è venuto fuori con l’uscita del libro, come se non si aspettasse altro: a quel punto ognuno aveva un ricordo o un aneddoto da raccontarmi, a prescindere dal ruolo o dalla parte politica di quegli anni, quegli eventi hanno cominciato a rivivere negli occhi e nelle parole delle persone che, all’improvviso, sentivano l’urgenza di raccontare la loro versione, il modo in cui avevano vissuto quella parte di storia.

In “Reggio 1970. Storie e memorie di una rivolta” hai raccolto le testimonianze di chi la rivolta la fece, di chi la subì, e di chi invece stette a guardare. Spesso c’è differenza tra il racconto “personale” – fatto di sfumature, esperienza vissuta, sensazioni che ancora vivono – e ciò che la storia, nella sua ufficialità, ci consegna. Quali le differenze che hai riscontrato?

“Storie e memorie di una rivolta” è nato come un lavoro sulla fonti orali: duecento interviste, suddivise per capitoli, in cui ci sono tutte le visioni: quindi la Chiesa, i partiti, l’estrema destra, la sinistra, il popolo. Da un lato c’è stata la difficoltà del rapporto tra le fonti storiche ufficiali e le fonti orali. Intervistando tutti – il poliziotto e chi lanciava le molotov, chi lanciava le pietre e chi picchiava i manifestanti – ho potuto confrontare i vari modi di intendere la rivolta. Storie molto significative e spesso dolorose di persone che – per il ruolo ricoperto allora – si trovavano a doversi scontrare con parenti o amici. Strade perdute o vite irrimediabilmente spezzate, a causa delle conseguenze di quegli avvenimenti. Storie di ragazzi rimasti ingarbugliati nelle trame della storia che hanno pagato a caro prezzo l’essersi trovati lì, a lottare da una parte o dall’altra: i pestaggi, l’essere tradotti in carcere, i pesanti interrogatori e i processi. La storia è ricca di sfaccettature e di giovani vite segnate da quei fatti. Molti di questi purtroppo si sono persi nelle maglie della ‘ndrangheta, perché con la fedina penale ormai macchiata, mai reintegrati e cresciuti con il mito della rivolta anche dopo il ’70, non hanno trovato nessuno sbocco se non la criminalità. Molti sono morti, facendo una brutta fine. Molti altri invece hanno fatto carriera diventando – solo per aver gridato “Reggio capoluogo” – consiglieri regionali, deputati, assessori. Chi da quell’onda è stato sommerso e chi, quell’onda, l’ha saputa cavalcare…

Perché pensi che, in risposta alle tante disavventure vissute dalla città negli anni, dallo scioglimento alle vicende relative all’aeroporto, ci sia sempre chi – non solo di destra – invochi le barricate come nel 1970?

E’ il discorso dell’orgoglio di appartenenza ad essere rievocato. Reggio ha avuto due grandi momenti di orgoglio: il primo, è stata l’ultima colonia della Magna Grecia a cadere ai romani, quindi è stata l’ultima colonia a resistere. Qui siamo nella storia antica. Nella storia moderna e contemporanea invece la rivolta di Reggio, che ha rappresentato una presa di coscienza collettiva. C’è lì il ritrovarsi su un problema, che era quello identitario fondamentalmente. In mezzo – tra la resistenza ai romani e la presa di posizione identitaria della rivolta – ci sono secoli di rassegnazione che Reggio ha avuto rispetto a tutte le dominazioni straniere. E il discorso della Rivolta si porta avanti perché fu un momento di aggregazione, il momento del “sentirsi uniti”. Certo poi ha preso un’altra deriva – quella bombarola, stragista, violenta – ma nel sentire comune resta quel senso di appartenenza, richiamato proprio perché scomparso. 

Manca il senso di appartenenza, il comune sentire, la dimensione collettiva…

Il senso di appartenenza ce ‘abbiamo oggi in due momenti: quando “scendono la Madonna” e quendo c’è da festeggiare la Reggina in serie A. Bisogna cercare un senso di aggregazione che vada oltre l’evento sportivo o religioso, che guardi al bene comune, che dica che il mio problema è il tuo problema. Oggi, anche i problemi che riguardano tutti – come ad esempio la crisi idrica che porta gran parte della città a non avere acqua dopo un certo orario – sono vissuti come problemi intimi, personali. Non c’è la dimensione collettiva. La gente è intrappolata in una sorta di rassegnazione in cui tutto diventa normale: il palazzo non finito, la strada dissestata, l’acqua pubblica che manca… e non ci si ribella, perché non si sente il senso di appartenenza. Vorrei vedere le persone che scrivono sui social scendere in strada, riempire le piazze, andare di fronte ai palazzi del potere a urlare il proprio disagio. Quella sarebbe la vera mobilitazione. Invece si continua a nascondersi dietro un computer, a scrivere sulla bacheca dei vari rappresentanti politici e istituzionali, ci si lamenta lì. E quello è una sorta di sfogatoio che mette la coscienza a posto, come dire: “Ho fatto la mia parte di cittadino, gliene ho cantate quattro”. I cambiamenti si ottengono con le mobilitazioni, e la mobilitazione non deve fare sconti a nessuno e non deve temere di diventare autocritica.

C’è la tendenza a guardare l’altro sempre con una certa diffidenza

Sì. Da noi mancano due cose fondamentali: l’educazione alla bellezza e la riconoscenza nei confronti dell’altro. Dobbiamo lavorare sulla bellezza che abbiamo, non solo naturale, paesaggistica, storica. Vorrei che si imparasse a riconoscere, prima di tutto, la bellezza delle persone: parlare sempre in negativo porta alla rassegnazione. E’ quel populismo qualunquista che ha preso l’Italia negli ultimi anni dove “tutti sono uguali, tutti rubano alla stessa maniera” per citare De Gregori, ma non si va da nessuna parte in questo modo. Educazione alla bellezza può significare anche leggere poesie di Nosside o Ibico: la bellezza non deve riguardare per forza beni materiali, non è solo il panorama sullo Stretto o l’Etna fumante. Quella c’è, è importante e va protetta, tutelata e valorizzata. Ma Bisogna far capire ai nostri ragazzi che il concetto di bellezza è più ampio e riguarda le persone, la storia, la nostra cultura.

Il senso della memoria. La resistenza della Calabria ribelle affonda le radici proprio in quegli anni: veri e propri partigiani anti- ‘ndrangheta le cui lotte sono relegate ai racconti interni di partito o a qualche sporadico evento: sembriamo essere caduti nella trappola della rassegnazione. E questa memoria è a volte impedita, ostacolata dalle narrazioni ufficiali…

E’ necessario raccontare. Ed è necessario creare anche un modo diverso di narrare. Perché c’è una narrazione ufficiale, c’è una narrazione distorta ad arte – sia dai media che dai social – nel presente; e poi c’è un modo di distorcere la memoria anche del passato. Se noi ci riappropriamo della storia, cominciamo anche a coltivare la memoria. Dobbiamo conoscere, prima di tutto. E una volta che conosci tu ti appropri piano piano della memoria. Studiare, tramandare, sin da bambini. La memoria è un fatto educativo, che andrebbe coltivata in tenera età, perché così diventa parte integrante della persona. Passare dalla storia al culto della memoria – che non è qualcosa di rigido, da mettere sotto una teca, da adorare, temere o rivendicare – dovrebbe essere naturale. Se tu vai a scavare nella memoria ti accorgi che di qui è passata la storia e che nel corso di secoli ci sono stati scrittori, poeti… Dovremmo appropriarci non solo della storia recente, ma del mito. E da lì cominciare a imparare e – attraverso il confronto con gli altri miti – aprire la mente. Non dovrebbe essere una questione di chiusura, la memoria. Deve essere apertura. E se queste cose le insegni ai bambini, le porteranno con se, pur andando fuori, e manterranno l’orgoglio dell’appartenenza.

Sei cresciuto negli anni della guerra di mafia quando – con cento morti ammazzati l’anno – c’era la paura di uscire e trovarsi in mezzo. Un periodo buio, in cui però era più evidente – rispetto ad oggi – la differenza tra il bianco e il nero. Oggi a confondere, quando si parla di ‘ndrangheta, ci sono le sfumature di un contesto sociale viziato e quasi completamente impregnato

Ho vissuto i vari livelli della ‘ndrangheta: quella è stata una parentesi militare, una fase shock, terribile. Ma molto circoscritta all’ambiente locale. Era il 1991 e facevo il servizio civile ad Archi, in strada : un progetto di educazione come osservatorio meridionale della Caritas di Reggio, con don Italo Calabrò che perseguiva questa idea di formazione di obiettori che lavorassero in strada con i bambini, un’esperienza straordinaria. Proprio in quel periodo ci fu la pace che ha fatto tacere le armi alle vari famiglie, anche perché avevano capito che si stavano eliminando tra di loro. Poi ho avuto modo di studiare, anche grazie ai libri che ho scritto, dei passaggi decisivi che a vent’anni non potevo conoscere: sono successe determinate cose – a Reggio e fuori da Reggio – che hanno modificato gli assetti. E oggi, anche senza morti ammazzati in mezzo alla strada, è molto peggio di allora. Perché se da un lato la ‘ndrangheta ha aperto i propri orizzonti e ha iniziato a cambiare affari, ad andare dove gira l’economia, dall’altro è cambiato anche il rapporto con la politica e si sono invertiti i ruoli: adesso sono i vari consiglieri che, con le buste piene di soldi, vanno a chiedere l’aiuto della ‘ndrangheta. Si è rovesciato l’asse: prima era la politica che controllava la ‘ndrangheta, e la utilizzava come manovalanza. Adesso è la ‘ndrangheta che sceglie – e lo abbiamo visto in diverse inchieste – i consiglieri, a destra e a sinistra, non c’è distinzione. Sceglie sindaci, assessorati, Giunte. E lo può fare in virtù del rapporto che ha creato con la Massoneria. A Reggio abbiamo una “Reggio bene” e una “Reggio per bene”. Allora, i reggini sono la “Reggio per bene”, quelli che amano la propria terra e che provano a mettere in pratica un cambiamento. La “Reggio bene” ha scelto di stare con la ‘ndrangheta: le famiglie industriali, i capitalisti, i professionisti hanno aperto le porte e hanno cominciato a stringere mai, a fare affari con loro. Il figlio del mafioso non si sarebbe mai sognato di frequentare il figlio dell’avvocato, negli anni ’70. Prima della Rivolta la ‘ndrangheta veniva dalla provincia. E’ cambiato tutto. E questa è la cosa che non perdonerò mai alla “Reggio bene”: di aver aperto le porte, e di averli introdotti in determinati ambienti e – come una sorta di cavallo di troia che ha indebolito loro, e rafforzato gli altri – di averli legittimati a sedere nelle stanze dei bottoni.

E allora, per non cadere nella trappola del delegare agli altri, la “Reggio per bene”, cosa può fare?

La Reggio per bene non dovrebbe farsi distrarre dalle false sirene: dai facili guadagni, dalle scorciatoie, dai capipopolo che portano bandiere a convenienza. Non dovrebbe cedere alla rassegnazione, “ché nulla può cambiare”. E non dovrebbe nascondersi dietro l’idea che le elezioni possano risolvere tutto: nessuno può risolvere i nostri problemi con la bacchetta magica. Li possiamo risolvere insieme agli altri, a chi ci sta prossimo e a chi viene da lontano.

E l’antimafia, ha un senso?

Non c’è un essere antimafia, ci credo poco alle definizioni forzate. C’è una Costituzione, e ci sono delle scelte da fare. Una “scuola antimafia”, un “festival antimafia”… ma cosa vuol dire? Io faccio ogni giorno antimafia con i miei studenti, senza il bisogno di progetti, finanziamenti o musei che mi definiscano tale. Lo faccio semplicemente facendo il mio lavoro, con i ragazzi, senza megafoni o targhe attaccate fuori. La ‘ndrangheta purtroppo è diventato un brand. E l’antimafia pure, di conseguenza. Ci sono tanti che ci guadagnano. Ma antimafia è scegliere, semplicemente.

Scegliere di accogliere, anche. Reggio sembra vivere di contrasti: se da un lato c’è un’accoglienza straordinaria – il Coordinamento migranti ne è uno splendido esempio – dall’altro c’è un sentimento razzista che, sempre di più, non ha il timore di venir fuori: è bastato dire che forse, in centro città, sarebbe nato un centro per accogliere minori stranieri non accompagnati, per creare il panico…

Dovremmo riappropriarci dello spirito di comunità… una cosa che avevamo e che abbiamo perso. I nostri nonni non avrebbero mai fatto le barricate per allontanare gli immigrati e non si sarebbero mai scandalizzati nell’accogliere dei bambini arrivati qui senza genitori. Non è un mito “la porta era sempre aperta”, nonostante la povertà e la pochezza dei mezzi, era vero. E non era solo una questione di formazione cristiana: la xenía è l’importanza che veniva data all’ospitalità nel mondo greco antico, lo straniero, era sempre ben accetto. Allora, chiudere porte, alzare muri, piazzare fili spinati non è nella nostra cultura. Io ricordo sempre ai ragazzi – e anzi, mi piacerebbe scriverlo nelle classi – quello che c’era scritto a Ellis Island: “No italians, no indians, no dogs”. No italiani, no indiani, no cani. Gli stranieri da cacciare, quelli sporchi, brutti e cattivi, siamo stati anche noi. La situazione è complessa : c’è la strumentalizzazione politica, che sfruttando i problemi della gente, attira voti e attenzioni grazie ad un banale e fastidioso populismo. Dall’altro c’è il ruolo dei media, fondamentale: allora immigrazione è uguale a terrorismo, semplificando e dirottando le informazioni secondo logiche che rispondono a determinati poteri. Portando la gente ad avere paura, ad accettare una limitazione della libertà a favore di maggiori controlli. Il terrorismo c’è stato sempre, ma non era così urlato. Tutto ciò fa comodo ad una certa politica di restrizione delle frontiere e ad una xenofobia che ritorna forte. I diritti dei popoli, l’autodeterminazione, la libertà di movimento: siamo tornati indietro in questo senso. Ovviamente tutto ciò si ripercuote, a cascata, nelle realtà locali. Resto stupito quando sento che in Sicilia dei sindaci si sono ribellati all’arrivo di 30 migranti. E mi fa paura. Abbiamo i due estremi: passiamo dalla bellezza dell’accoglienza, presa come modello, alla paura – con tanto di firme, volantini e “ci metto la faccia” – per manifestare contro la remota possibilità che un gruppo di minori stranieri non accompagnati venga ospitato in centro città. Don Italo Calabrò diceva sempre “nessuno escluso, mai” mettendo i poveri al primo posto. Dovremmo ricordarcene di più.

C’è una rassegnazione dilagante che le vecchie generazioni trasmettono alle nuove, come se questa fosse una “terra di nessuno” in cui non c’è spazio per accogliere ma da cui bisogna scappare…

E’ vero: c’è questa tendenza, vedo molti genitori che dicono ai figli di andarsene, e lo fanno per il motivo sbagliato. Io ho vissuto due stagioni: quella dei 18/20 anni nella quale tutti noi – o per scelta o per opportunità – abbiamo studiato e lavorato a Reggio. Già andare all’Unical a Cosenza significava “andare fuori”. Adesso, da papà e da professore, mi accorgo che è diventato quasi naturale: c’è innata la logica di studiare, di formarsi all’estero e un’apertura mentale che noi non avevamo. Perché ormai questa generazione forse ha capito una cosa: dove nasciamo e il nome che portiamo sono tra le poche cose non scegliamo noi. Poi tutta la vita diventa una scelta. E questi ragazzi cominciano a scegliere anche prima dei loro sogni e sfruttano le tante opportunità che ci sono oggi: Erasmus, borse di studio, intercultura. E’ una cosa bellissima che mi fa sperare in un mondo più aperto. Io non sono dell’idea che tutti siamo nati qui e tutti dobbiamo rimanere qui. Fare è più importante che restare: tu puoi fare qualcosa per la tua terra pur andando via. Allora io dico ai ragazzi: c’è la possibilità di andare via, fatelo, assecondate sogni e ambizioni. Ma non abbandonate – e non dimenticate – le vostre radici.

Tu insegni e i ragazzi li conosci: raccontameli…

Sono curiosi, attenti. In tutti riscontro una grande sete di conoscenza. Con loro puntiamo molto sul senso di appartenenza a un territorio e a una cultura greca. E così gli diamo la possibilità di capire che c’è una radice comune – che non è quella del paese, della Calabria o del meridione d’Italia – che è millenaria, ha dei valori che sono ancora attualissimi. Sono ragazzi sorprendenti, che hanno delle meravigliose intuizioni, spesso prive di pregiudizi, che viaggiano, si muovono, con la testa e con il corpo e che, se stimolati, possono davvero diventare traino per una nuova visione del mondo, tanto moderna quanto antica. E’ la commistione la chiave fondamentale, studiare la classicità e l’inglese insieme significa aprirsi: Omero che incontra Shakespeare, è una cosa bellissima. Tengo molto al senso profondo degli studi classici: molti dicono che sono lingue morte, ma non si studia il greco o il latino per parlarli, si studia perché si impara a vivere, perché grazie a quegli studi quando sono fuori non mi sento un pesce fuor d’acqua, perché mi so relazionare agli altri, perché so guardare al futuro mantenendo un cuore antico. La cosa importante è trovarsi su questo senso di appartenenza. Allora da questo punto di vista è importante anche educare i ragazzi, far capire loro che per il tratto di strada che vivranno in questa città, dovranno riappropriarsi di una identità, di una memoria, studiare, cogliere la bellezza, portarsela dietro e magari restituirne una parte, in qualche modo.

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