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“Ti amo da morire… quando le carezze fanno male”, la relazione sulla violenza sulle donne dell’Istituto Nazionale Azzurro

Riceviamo e pubblichiamo la relazione sulla violenza sulle donne a cura di Lorenzo Festicini e Filippo Pollifroni, rispettivamente presidente nazionale e delegato per la Calabria dell’Istituto Nazionale Azzurro.

“Gli episodi di cronaca nera delle ultime settimane, narrati dai telegiornali, hanno portato alla ribalta una questione drammatica e urgente: la continua vittimizzazione delle donne. In molti, troppi casi, questi episodi di violenza culminano con l’uccisione della donna. Arrestato il presunto colpevole, si scopre che il fattaccio è accaduto ‘per troppo amore’, lui ha ucciso lei perché l’amava, magari tanto. Viene da pensare ‘meno male che le voleva bene, figuriamoci se le voleva male!’.

A parte le considerazioni che ciascuno di noi è libero di fare in relazione a questi terribili episodi di cronaca nera, c’è un punto di partenza dal quale prendere le mosse, per fornire alcune chiavi di lettura del triste fenomeno della violenza sulle donne, per prevenirlo, innanzitutto, e poi per intervenire laddove il peggio è già accaduto.

La questione che con i relatori presenti andremo a delineare va sotto il nome di violenza di genere, nel senso che il genere maschile e quello femminile sono considerati antagonisti. “Violenza di genere” è un’espressione che comprende una vasta gamma di comportamenti. Condotte, attive od omissive, quasi sempre ripetute nel tempo, che uomini molto diversi tra loro per età, condizione sociale, livello di istruzione, nazionalità, religione compiono ai danni delle donne: principalmente, si tratta delle loro compagne, mogli ed ex partner, all’interno di una relazione di intimità o familiare; più rari, i casi in cui questi episodi avvengono fra sconosciuti.

La violenza di genere non consiste solo nell’aggressione fisica di un uomo contro una donna, ma include le vessazioni psicologiche, i ricatti economici, le minacce, le varie forme di violenza sessuale, le persecuzioni. Compiute da un uomo contro una donna in quanto donna. A volte sfocia nella sua forma più estrema, il feminicidio o, in molti casi, uxoricidio nel senso di uccisione della moglie. Si tratta di una violenza diffusa in tutto il mondo, legata alla strutturale disparità sociale, economica e di potere tra uomini e donne, dettata da un atteggiamento culturale prettamente patriarcale.

Sin dall’antichità, la figura della donna ha significato non soltanto una diversità oggettiva, riconducibile al sesso, ma anche una condizione molto radicata che vedeva – e purtroppo continua a vedere – nella donna un essere inferiore e privo di valore. In alcune civiltà mediorientali e della Mesopotamia (Ebla, Ur e così via), il logos, il principio creatore del mondo era identificato nella Madre Terra, una divinità creatrice femminile; la dea Potnia era raffigurata come una donna dalle forme prosperose, quale simbolo di abbondanza e fertilità. Naturalmente questi sono solo due esempi che, nel corso dei secoli, sono stati sopravanzati da modelli sociali e culturali patriarcali. Infatti, presso le civiltà antiche più vicine a noi – ad esempio, quella greca – alla donna era negato ogni ruolo sociale ed ella era sottomessa alla figura maschile; inoltre, aveva un ruolo limitato alla cura della prole. A questo proposito, sia consentito un riferimento alla civiltà dauna, coeva di quella greca e di cui Minervino – Murgantia (secondo le indicazioni ricavabili dalla Tavola Peutingeriana) fu centro urbano molto fiorente tra il VII ed il IV secolo a.C.: la donna dauna aveva un ruolo sociale ben delineato, con compiti e funzioni che trascendevano le occupazioni muliebri classiche sino a giungere – almeno fra i membri dell’èlite culturale – il ruolo di domina accanto al proprio compagno, verosimilmente il princeps – dominus del villaggio. Quando si dice le sorprese della Storia locale! Lo stesso accadeva nella vicina Canusium.

Dalle belle notizie della Storia di casa nostra, torniamo alla c.d. violenza di genere. Le donne hanno sempre ricevuto, in moltissime culture, un doppio trattamento: da un lato, di esclusione, perché ritenute inferiori all’uomo, dall’altro lato, di protezione, assieme ai bambini e agli anziani, perché ritenute il sesso debole. Un punto deve essere chiaro a tutti: l’esistenza della donna è indispensabile ed è intrecciata a quella dell’uomo e, viceversa, la sorte dell’uomo è legata a quella della donna. Tuttavia, questo assunto è stato per secoli disatteso, anzi il modello maschile ha dominato a qualunque livello: religioso, politico, sociale. Un esempio è dato dalla caccia alle streghe, durante la quale le donne che, per sventura, venivano accusate di stregoneria, venivano sottoposte ad atroci torture per confessare i propri peccati, fino ad essere uccise sul rogo. Nel corso dei secoli, si è dunque attestata la supremazia del modello maschile, che per il genere femminile si è tradotto in una asimmetria. Tale asimmetria si è concretizzata in una lunga catena di ingiustizie subite dal sesso femminile, asimmetria riscontrabile trasversalmente in ogni cultura e in ogni continente. Ancora oggi, in una società multiculturale come la nostra, molti gruppi e diverse minoranze etniche restano insensibili alle disuguaglianze fra uomo e donna, anche quando il superamento di queste differenze fra i generi diventa la condizione necessaria per favorire l’integrazione fra i gruppi di migranti e la cultura ospitante. Molti episodi di sangue, avvenuti di recente in Italia, hanno visto come protagonisti ‘gli uomini di casa ’: il genitore o il maggiore dei fratelli o, comunque i membri maschili del nucleo familiare, hanno ucciso la figlia o la sorella – in tanti casi, una giovane donna – solo perché lei, in quanto donna aperta ad una nuova cultura, voleva emanciparsi dal gruppo sociale di appartenenza per accettare un nuovo modello di vita, c.d. occidentale. Il burqa è sicuramente il simbolo più evidente di questa violenza ma non è l’unico: non dobbiamo dimenticare che in molte parti del mondo donne giovanissime – in certi contesti culturali si tratta di bambine – vengono sottoposte al tremendo rito delle mutilazioni genitali. Questa pratica culturale, alle nostre latitudini è vietata dalla disposizione del’art. 583[1] bis c.p., sul presupposto che si tratta di atti di mutilazione inutili, atroci e pericolosi per la salute psicofisica della donna, visto che in generale questi interventi vengono effettuati in assenza delle minime condizioni di igiene. I continui fenomeni migratori verso l’Italia portano un carico umano fatto di miseria e di fame ma anche di tradizioni culturali che, per la nostra civiltà, risultano incomprensibili: nelle culture di partenza, queste pratiche rivestono un ruolo importante all’interno del clan di appartenenza e rifiutarsi di sottoporvisi vuol dire essere stigmatizzati ed emarginati dal contesto sociale.

In altri contesti culturali, sempre meno distanti da noi, grazie ai già accennati flussi migratori ma anche alle nuove tecnologie, il ruolo della donna è stato impropriamente rivalorizzato. Senza affrontare compiutamente l’argomento ora, nei contesti islamici ortodossi ed estremisti, alla donna è data la possibilità di divenire una kamikaze, per dirla con un termine usato in modo inesatto. Ognuno dei presenti comprende bene che non c’è nulla di vantaggioso nel farsi esplodere con un carico di dinamite: la verità è che in quei territori, le donne più vulnerabili per vari motivi (ci sono tre tipi di donne kamikaze), vengono vendute dalle famiglie indigenti alle organizzazioni terroristiche e comprate a un prezzo che è circa la metà di quello degli uomini (circa $ 400,00 USA), per essere addestrate in centri militari nel deserto e, una volta pronte, inviate verso gli obiettivi prestabiliti. L’inganno col quale le donne vengono adescate consiste nella possibilità loro data di vendicarsi per i lutti subiti a causa del nemico occidentale o dalla possibilità di contribuire col proprio sacrificio umano alla jadh o, ancora, dalla promessa di una vita ultraterrena fatta di gloria e beatitudine. Senza scendere nel merito delle convinzioni religiose di nessuno, occorre sottolineare come spesso la politica o la religione – componenti essenziali di un dato contesto culturale – incidono pesantemente sulla vita di ognuno, condizionandola, specialmente se donna. Questa è la riprova del fatto che cultura e rispetto verso il sesso femminile non sempre vanno di pari passo.

Circa la relazione fra cultura e società, occorre ricordare che l’attuale società italiana, come molte società ‘civili’, usa una doppia morale, un duplice metro di misura per discernere la condotta maschile da quella femminile. L’uomo può fare certe cose che per una donna sono sconvenienti, se non addirittura vietate! L’esempio più eclatante è fornito dalla doppia morale circa i costumi e le abitudini sessuali di uomini e donne. Se un uomo è sessualmente promiscuo, se cioè ha più di una partner oltre quella ufficiale, è reputato dal contesto sociale un uomo in gamba, uno scaltro, un uomo da cui magari prendere esempio; vi chiedo: e se una donna è sessualmente promiscua, quale trattamento riceve? Se va tutto bene, se la cava con uno stigma che niente e nessuno potrà toglierle. Di sicuro, dagli anni ’50 ad oggi molto è cambiato, dal punto di vista dei costumi e della morale sessuale. Questo esempio, diffusissimo specialmente laddove il senso della famiglia è molto forte, può farci sorridere: ma il sorriso cede il passo alla preoccupazione quando alcuni teorici della Criminologia hanno desunto conclusioni quantomeno discutibili e pericolose, nelle conseguenze. Un vittimologo statunitense, Amir, analizzando negli anni ’50 la precipitazione nel reato di stupro, giunse ad una conclusione, terribile: quando la donna viene stuprata, questo accade perché ella lo ha voluto, perché ha dapprima prestato il proprio consenso all’unione carnale ma poi lo ha ritirato, sottraendosi alle avances dell’uomo; secondo Amir, l’uomo che prosegue nelle avances sino a violentare la malcapitata non fa altro che assecondare il desiderio inconscio della donna di essere violentata. Presupposto della teoria di Amir è la c.d. doppia morale: in base ad essa, un uomo sessualmente promiscuo no è stigmatizzato, in senso negativo – dispregiativo, piuttosto è ritenuto essere un uomo ìin gamba’, un donnaiolo: al contrario, una donna sessualmente promiscua è fatto oggetto di scherno o, quantomeno, è additata agli occhi dei più con epiteti tutt’altro che rispettosi e gratificanti.  In questo contesto, dice Amir, se una donna ha più partner viene giudicata male; se, invece, ella subisce una violenza, allora ella appaga il proprio desiderio di essere sessualmente promiscua, come l’uomo, senza il giudizio negativo. Le conseguenze di tali affermazioni possono essere riassunte nella deresponsabilizzazione dell’autore del reato che, accettando questa impostazione, verrebbe deresponsabilizzato.

Lo stretto legame fra cultura e società ci porta ad analizzare brevemente cosa era previsto, fino al 1981, nel codice penale italiano del 1930, codice tuttora in vigore. I lavori preparatori del codice penale del 1930 hanno restituito un’immagine della donna, conforme all’ideologia dominante in quel periodo, secondo cui la donna era l’’angelo del focolare’ e il suo ruolo coincideva e si esauriva nella conduzione della famiglia quale madre e moglie. La disciplina sull’aborto – diverso dall’interruzione volontaria della gravidanza – ne sottolineava il ruolo di donna. In questo ruolo di ‘angelo del focolare’, la donna era sottomessa all’uomo, il quale, in omaggio alla tradizione romanistica del pater familias, aveva lo ius vitae necisque, cioè il potere di vita e di morte. Qualcuno potrà non essere d’accordo con questa ricostruzione ma sino al 1981 nel nostro ordinamento giuridico esisteva la norma di cui all’art. 587 c.p. secondo la quale ‘Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni [anziché la pena non inferiore ad anni ventuno]. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona, che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella. Se il colpevole cagiona, nelle stesse circostanze, alle dette persone, una lesione personale, le pene stabilite negli articoli 582 e 583 sono ridotte a un terzo; se dalla lesione personale deriva la morte, la pena è della reclusione da due a cinque anni. Non è punibile chi, nelle stesse circostanze, commette contro le dette persone il fatto preveduto dall’articolo’”.

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