I “traditori” e la legge “salica delle ‘ndrine”. Già quando vengono alla luce il destino dei congiunti maschi dei boss appare in qualche modo segnato. Così hanno raccontato due pentiti (discussi ma ritenuti credibili dalla magistratura) come Antonio Zagari e Pino Scriva. Il primo sosteneva che i neonati, figli d’importanti “uomini di rispetto” calabresi, vengono sottoposti a una singolare cerimonia che coincide con una sostanziale investitura mafiosa. Accanto alle manine del maschietto appena nato vengono posizionate da un lato una chiave e, dall’altro, un coltello. La prima simboleggia il mondo degli “infami” e degli “sbirri”, l’altro quello dell’Onorata società. Il maschietto – erede del casato mafioso – deve toccare subito la lama della “molletta” che viene messa in modo da essere naturalmente sfiorata. Comincerà così la sua “carriera” nel mondo del crimine organizzato. Scriva, invece, raccontava che i figli dei boss nascono già “battezzati” nella “famiglia” di ’ndrangheta di appartenenza. Al di là della loro intrinseca credibilità, i racconti dei due collaboratori di giustizia dimostrano tuttavia che importanza venga data dal punto di vista “ereditario” ai maschi nati in certe “famiglie”. Ai figli che hanno scelto di percorrere le strade dei padri, accettandone pure le conseguenze fanno tuttavia da controcanto, negli ultimi anni, i “rampolli” che, al contrario, patito il carcere, hanno deciso di “tradire” cosca e famiglia e di collaborare con i magistrati. La famiglia clanica – nucleo centrale e fondativo della ‘ndrangheta – sta dunque crollando sotto i colpi di “delfini” determinati a rinunciare allo scettro criminale a beneficio della libertà.
Il volume “Figli traditori” scritto da Arcangelo Badolati, ritenuto uno dei massimi esperti italiani di storia della ‘ndrangheta, racconta per la prima volta le vite dei rampolli d’importanti boss che hanno scelto di redimersi. Il volume, edito dalla Pellegrini di Cosenza, reca la prefazione dello scrittore e docente universitario italo-canadese Antonio Nicaso e un contributo del sociologo Giap Parini, direttore del Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università della Calabria. Il volume è un viaggio nelle vite e nelle scelte dei figli “redenti” di padrini di Limbadi, Lamezia Terme, Cosenza, San Leonardo di Cutro, Cirò Marina, Rosarno, Cosenza, Platì, Briatico, Davoli e Crotone. Uomini e donne che hanno svelato i retroscena di efferati delitti e di lucrosi affari fatti dalle loro originarie cosche di appartenenza.
Il libro, basato su interviste e atti giudiziari, offre una lettura nuova del mondo della mafia calabrese nella quale i legami di sangue e la sovrapponibilità delle ’ndrine con le famiglie naturali della quasi totalità dei singoli appartenenti, avevano reso la ‘ndrangheta una struttura impenetrabile. Tutto sta velocemente cambiando e il volume lo dimostra attraverso storie, aneddoti e sentenze. Scrive Antonio Nicaso: «“Figli traditori” è un volume utile. Attraverso le pagine di questo libro, il lettore potrà immergersi nella vita di almeno una ventina di rampolli di ‘ndrangheta che hanno deciso di collaborare con la giustizia, assumendosi il carico di una decisione difficile, come appunto quella di tradire il proprio sangue, per non essere del tutto fagocitati in un mondo in cui l’autodeterminazione sembra essere un lusso riservato a pochi. Ogni storia è unica, con sfumature di colpa, rimorso, ma anche speranza e redenzione. Si scopre che dietro il volto spesso impenetrabile dei collaboratori di giustizia si nasconde un conflitto interiore dilaniante, fatto di affetti contrastanti, di paura e di coraggio. Questo libro non si limita a raccontare gli episodi di collaborazione con la giustizia, ma cerca di penetrare l’animo dei protagonisti, dando voce alle loro emozioni, ai loro tormenti e alle loro speranze per un futuro diverso. Attraverso le loro testimonianza si delinea un quadro complesso e articolato della ‘ndrangheta, una realtà che continua a esercitare un forte potere di attrazione e di condizionamento sulle vite di chi vi è cresciuto, ma che allo stesso tempo si rileva priva di qualsiasi forma di umanità e rispetto per la vita umana. Badolati con questo ennesimo libro getta un fascio di luce su un fenomeno ancora troppo spesso avvolto nel silenzio e nella paura, offrendo al lettore uno sguardo privilegiato sui meccanismi di funzionamento di una delle organizzazioni criminali più pericolose al mondo, ma anche sulla possibilità di redenzione e di riscatto personale».
Arcangelo Badolati, che ha firmato più di venti pubblicazioni sulla storia della criminalità organizzata calabrese, è autore di testi teatrali, sceneggiature e trasmissioni televisive. Caposervizio del quotidiano “Gazzetta del Sud”, testata per la quale ha seguito in Calabria inchieste, processi e fatti di sangue negli ultimi trent’anni, Badolati è anche direttore del comitato scientifico dell’Osservatorio Nazionale “Falcone-Borsellino” fondato da Carlo Mellea e tiene seminari in varie università e scuole del Paese. Per le attività svolte in campo letterario e giornalistico ha ottenuto premi e riconoscimenti in Italia e all’estero. È sua la prima intervista rilasciata negli anni ’90 da Concetta Managò, vedova del boss Franco Condello, quando decise di collaborare con la giustizia e, ancora, suo l’articolo che svelò all’Italia l’esistenza di un gruppo di commercianti e imprenditori che, nel 1992, rompendo il muro dell’omertà, decise di denunciare una consorteria di estorsori legata ai Facchineri di Cittanova. Badolati Ha seguito le inchieste sulla centrale a carbone di Gioia Tauro, le indagini sulla massoneria deviata, su Licio Gelli, sui rapporti tra la ’ndrangheta rosarnese e la politica, sulle alleanze sancite da alcuni boss con la eversione nera, sulle faide di Palmi, Seminara, Taurianova, Laureana e Oppido Mamertina. Arcangelo Badolati ha firmato l’inchiesta giornalistica che ha messo in discussione le parole di un pentito di ’ndrangheta, Francesco Fonti, che aveva sostenuto la tesi, poi ribaltata, dell’affondamento di tre navi cariche di rifiuti radioattivi al largo delle coste calabresi e lucane. Sua l’inchiesta giornalistica che ha smascherato l’evaso lametino Salvatore Belvedere che, nel 1970, dopo aver fatto ritrovare il cadavere di uno sconosciuto si finse morto andandosene a vivere per trent’anni sotto falso nome in Corsica. Alle sue ricerche si deve pure la riapertura dell’inchiesta sullo stupro e l’uccisione, nel luglio del 1988, in Calabria, della studentessa di Rende, Roberta Lanzino.