“Ci sedemmo dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati” - Bertolt Brecht
HomeFirmeIl culto dell'"io sono così perché lo sento"

Il culto dell'”io sono così perché lo sento”

di Alfredo Muscatello – Oggi ho letto l’ennesimo post che celebra l’istinto con una foto di un costume, che copre poco, di fronte al mare. Nella fattispecie:
Non sono nata per essere ragionevole. Sono nata per amare, per essere felice, per odiare, per immaginare, per inventare, per capire e anche – di tanto in tanto – per essere ragionevole, ma non devo essere ragionevole. Essere ragionevole vuol dire adattare i propri pensieri a quel che gli è contrario, modificare e distorcere la propria intelligenza per assecondare i desideri altrui.
Molti oggi rivendicano l’istinto come se fosse una verità incontaminata. Uomini e donne in balia di una coscienza sempre più arida, di una approfondimento storico politico e culturale sempre più come quel costume che non basta a mantenere ciò che contiene. Già Aristotele ricordava che l’uomo è uno zoon politikon: un animale politico, che vive e prospera nella polis e non può ridursi alla pura animalità. Per Hobbes, nello stato di natura la vita era “solitaria, povera, cattiva, brutale e breve”; per questo serve il patto sociale, serve la ragione organizzata per non scannarci. Persino Rousseau, che pure rivalutava il “buon selvaggio”, non intendeva l’istinto come licenza per ignorare il pensiero critico; anzi, vedeva la società come mezzo per coltivare compassione e cooperazione.
Nella scena politica odierna, l’appello alla “pancia” è diventato uno strumento retorico. È facile attivare sentimenti primordiali: paura, rabbia, appartenenza; perché sono cablati nella nostra biologia. Lo sapeva bene anche Machiavelli: la paura è più facile da mobilitare dell’amore. Ed è qui il guaio: se la politica si limita a blandire l’istinto, abdica al suo ruolo più alto, quello di educare, elevare, costruire visioni complesse. Il dibattito pubblico scende dal livello del pensiero alla pura reattività, e lo stadio va a chi ruggisce più forte.
Gli “scemini” e il consenso facile
Il problema dell’istintivismo elevato a virtù è che diventa un alibi “Non ci penso troppo, è quello che sento” come se l’emozione fosse di per sé garanzia di verità.
Ma questo, come direbbe Kant, è rinunciare alla propria autonomia intellettuale. L’Illuminismo, ricordava, è “uscire dallo stato di minorità” non restarci crogiolandosi nel tepore dell’istinto.
Ci ragiono da quando ero alle superiori: vedevo i compagni più intraprendenti incitare folle di studenti nelle assemblee di istituto, ma poveri di contenuti. A quell’età ci sta, si fa ginnastica retorica. Ma è stato il motivo per cui ho iniziato a pensarci su. Oggi, con più anni, esperienze e discussioni spesso con amici che rivendicano la loro “libertà” mi è chiaro che non è proprio così semplice. Basti pensare al leone: è istinto, sì, ma anche tecnica, strategia, cooperazione nel branco. Nessun leone sopravvive a lungo se si limita a saltare addosso a tutto ciò che si muove senza osservare, calcolare e scegliere il momento.
Se persino il “re della giungla” sa dosare istinto e intelligenza… figuriamoci un essere umano che si vanta di non essere “fatto per ragionare”.
Il culto dell’istinto è il fast food del pensiero: gratifica subito, costa poco, ma alla lunga intossica. La politica che lo alimenta non governa, ma addestra. E chi lo segue non è libero, ma addomesticato dalla propria stessa pancia. La libertà autentica è l’equilibrio tra ciò che sentiamo e ciò che sappiamo e si conquista solo scomodandosi a ragionare.
L'”io sono così perché lo sento” è ormai moneta corrente nella conversazione pubblica. Ma spesso, è la moneta spicciola, non l’oro.
Articoli Correlati