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Mentre il mondo brucia, Reggio Calabria dorme

di Mariagrazia Costantino* – Mentre il mondo va a fuoco, Reggio Calabria come al solito dorme. Forse i suoi abitanti sono troppo presi dal problema dell’indigenza propria e altrui, tormentati dalla necessità di arricchirsi (o di impoverire gli altri); forse sono solo impegnati a documentare le proprie vacanze con dovizia di particolari, oppure occupati a prepararsi per la prossima cerimonia – quello dei sacramenti è un indotto che qui gode di ottima salute –, ossessionati dalla necessità di ostentare il poco che hanno e il niente che sanno. Aiutati in questo dalle piattaforme social, palcoscenico perfetto per cretini di ogni età (cit.) con la “sindrome del protagonista” e un reale complesso di inferiorità. Eppure, senza  che ce ne si renda neanche conto, una città come questa, quartier generale del capitalismo mafioso e della mafia capitalista, è un perfetto laboratorio del futuro.

Ma attenzione: qualcosa sembra essersi smosso nel magnogreco torpore estivo a base di sagre, feste popolari, tarantelle e concerti di piazza… un barlume di coscienza tardiva ha portato il già tormentato comune di Riace a prendere un’encomiabile iniziativa – il gemellaggio con Gaza.

Ta-da! Il capolavoro è servito. Con un certo incolpevole ritardo, la virtuosa Riace tende la mano ai fratelli palestinesi. I dannati della terra. I dimenticati (per modo di dire). Ma anche i plurifotografati e iperstrumentalizzati. I maliziosi penseranno che dietro questa iniziativa ci siano della strategia o del calcolo opportunistico; ma se Riace è o è stata davvero ammirevole per le iniziative volte ad arginare alcuni dei gravi problemi che affliggono questa terra, un gemellaggio ancora più realistico – seppur non basato sulla “solidarietà” – potrebbe essere quello tra Gaza e la città metropolitana di Reggio Calabria.

Di recente ho scoperto che Gaza ha una delle più alte incidenze di malattie genetiche, a causa del tasso elevato di unioni tra consanguinei. Gaza ha anche uno dei QI medi più bassi al mondo, e questo è da imputare in primo luogo all’assenza di un piano di sviluppo culturale mirato per bambini e giovani, di istruzione di qualità e di progettualità sganciata dal profitto. Se ci fate caso nessuno parla mai delle scuole di Gaza: a nessuno interessa sapere dove e come studiano i bambini palestinesi.

Se da una parte vediamo immagini strazianti (e fasulle) di malati e moribondi, ma anche giovanissimi in perfetta forma fisica costretti a mangiare sabbia e altre schifezze per mostrare al mondo la loro immane sofferenza, dall’altra – in un esemplare gioco di specchi che è anche misura della moderna informazione, schizofrenica e spettacolarizzata – si assiste a scene di ristoranti pieni, di gente che banchetta allegra e mangia ogni sorta di prelibatezze. Gaza celebrata per il suo potenziale turistico e per la tragedia in corso.

A me Gaza sembra una Reggio Calabria del Medio Oriente: anche qui infatti il cibo, che in origine è una necessità e un rituale di convivialità, diventa fine ultimo e strumento di propaganda. Spesso anche business criminale. Anche a Reggio Calabria – città dei bronzi e delle facce di bronzo – l’assenza di una visione di sviluppo sostenibile e di cultura stanno instupidendo la popolazione. Anche qui bambini e ragazzi sono usati dagli adulti per scopi propagandistici e narcisistici: se a Gaza è il martirio, a Reggio Calabria è il bisogno di farli diventare piccole fotocopie dei genitori o peggio ancora loro testimonial viventi – strumenti di affermazione e ostentazione del successo personale, invece che esseri senzienti dotati di una propria volontà e autonomia. Forme diverse di oggettificazione degli indifesi.

A Reggio come a Gaza, i rapporti interpersonali sono di norma tossici, transazionali e manipolatori. Tutto grida trauma generazionale mai elaborato, povertà mai superata se non all’apparenza. Povertà che, una volta privata della dignità, si trasforma in pitoccheria – altra autentica caratteristica della città mediterranea e “metropolitana.”

Reggio Calabria è bombardata come Gaza: non dalle bombe dell’IDF – o dalle cariche di esplosivo che Hamas piazza negli edifici per trasformarli in trappole mortali – ma dal malcostume dell’abusivismo e dalla mancanza di senso civico.

Come i palestinesi, anche i reggini (c’è bisogno di specificare che le generalizzazioni sono condicio sine qua non di qualsiasi discorso?) se potessero vivrebbero solo di sussidi e finanziamenti; e proprio come i palestinesi, i reggini mordono la mano che li nutre, lamentandosi sempre di Roma, della classe politica, di amministratori, calciatori e tutto il cucuzzaro (la responsabilità personale è direttamente proporzionale allo scaricabarile).

Gaza è governata ufficialmente e ufficiosamente da Hamas, una mafia tribale eletta anche grazie alle madri che mostravano fiere la prole da immolare alla causa, con tanto di cintura esplosiva giocattolo. A Reggio Calabria vige il governo – di fatto ma non di nome – della ‘Ndrangheta. In entrambi i luoghi c’è un numero esiguo di persone oneste che si oppongono alla mafia e che per questo vengono gambizzate, letteralmente o metaforicamente. Ci sono amministratori integerrimi e altri molto meno scrupolosi; giudici e forze dell’ordine che fanno il proprio lavoro con coscienza e senso del dovere e altri (si spera pochi) che lo fanno per convenienza, chiudendo uno o più occhi. E se Reggio pullula di iniziative antimafia più decorative che effettive, anche Gaza è piena di operatori “umanitari” – UNRWA in prima fila ma anche Croce Rossa, Medici Senza Frontiere, Amnesty – la cui ambigua convivenza sembra sconfinare nella connivenza.

A Reggio Calabria come a Gaza è diffusa una visione della donna che definire ottocentesca è un eufemismo (già nell’Ottocento c’erano donne molto più emancipate). Il termine giusto è, ancora una volta, “tribale”: la donna è preda e proprietà, al massimo trofeo. Può essere decorativa ma è soprattutto funzionale, in quanto colei che gestisce la casa, che partorisce e cresce i figli educandoli secondo le leggi prescritte dall’uomo. La donna è mera esecutrice del volere dell’uomo o di Allah, priva o privata di indipendenza e iniziativa propria. Però laddove perfino la moglie del defunto Yahya Sinwar ha potuto rifarsi una vita, trasferendosi in Turchia e risposandosi, una simile libertà non è concepibile per le donne della ‘Ndrangheta e, per estensione, per le donne i cui mariti/compagni (anche giovanissimi) scimmiottano gli affiliati delle ‘ndrine, per necessità o vocazione.

La cosa che più di tutte accomuna le due realtà è la mentalità oscurantista e l’educazione alla paura e all’odio: succede nella città calabrese, dove genitori che proiettano, o meglio gettano sui figli la propria spazzatura morale, inculcano ai figli il terrore del diverso a vario titolo (principalmente per etnia e aspetto, ma anche per divergenze minime nel linguaggio e nell’abbigliamento); e succede a Gaza, dove i bambini vengono educati, anzi addestrati, all’odio verso il nemico giurato – Israele.

Dietro questa scuola di paura c’è sempre la lunga mano della mafia, che sa di poter gestire e sfruttare meglio un popolo bue cronicamente impaurito, annichilito da angoscia e povertà (e angoscia della povertà), facilmente corruttibile proprio perché segnato dalla privazione, in perenne conflitto con il prossimo, sia questo il vicino, i colleghi o la famiglia. Divide et impera dicevano gli antichi, tra cui Machiavelli ne Il Principe.

E di principi del male ce ne sono un po’ troppi. A Reggio Calabria e a Gaza.

*Sinologa e docente universitaria. Ha un Master e Dottorato in Cinema e scrive di Global Media e Geopolitica

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